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27 febbraio 2018

Il simbolismo eucaristico tra “intercomunione” e Amoris Laetitia

Verso una nuova “dottrina” dell’Eucaristica?

27 febbraio 2018, San Gabriele dell’Addolorata




La sovversione di cui siamo spettatori riguardo la possibilità di allargare “in certi casi” la comunione eucaristica, addirittura a persone pubblicamente separate dalla Chiesa per l’eresia e lo scisma, sembra partire non solo dal complesso di adeguarsi ai parametri del mondo, capitolando davanti ad esso, non solo da una mentalità d’ispirazione luterana quanto alla natura e all’azione della grazia santificante come già scritto, ma anche da un’erronea e falsata dottrina eucaristica che, privilegiando il simbolismo eucaristico, “sorvola” - nel migliore dei casi - sulla realtà della “transustanziazione”. 

La mentalità “simbolista” a discapito di quella realista si è ricavata da qualche decennio un larghissimo spazio nelle discussioni teologiche, minando le basi di pressoché tutti i dogmi. In quest’articolo, rifacendoci agli studi di alcuni teologi della Scuola Romana, esporremo brevemente alcuni tratti di tale pensiero e delle sue deviazioni in campo eucaristico. Deviazioni che saranno analizzate sotto l’angolo della compatibilità che esse presentano con alcune scandalose affermazioni legate all’interpretazione di Amoris Laetitia e con nuove pratiche, come l’intercomunione coi Protestanti, che sembrano l’applicazione - in chiave modernista e fenomenologica - dell’eresia eucaristica luterana e dei suoi derivati più recenti.    

Lo strisciante “ammodernamento” della teologia eucaristica

Il tentativo d’ “ammodernare” la teologia, nel nostro caso quella eucaristica, mettendo da parte le “formule della Scolastica” è un vecchio adagio dei modernisti da ormai più d’un secolo. Esso beneficia anche dell’apporto di studiosi che - allora come oggi - si dicono animati da intenti pastoralmente ecumenici, in vista di giungere alla sospirata “unità sacramentale” col mondo protestante. Su questo punto la Germania, al seguito della filosofie tedesche del XIX secolo e in ragione della vicinanza fisica al mondo protestante, si distinse sempre per una certa irrequietezza[1]

A partire dal secondo dopoguerra cominciarono anche a serpeggiare negli atenei cattolici dei dattiloscritti anonimi sul simbolismo eucaristico, uno di essi si rese particolarmente famoso al punto che suscitò numerosi studi ed anche gli interventi di Humani Generis e Mystici corporis, che sembrano condannarne direttamente alcuni passaggi[2]. Mons. Piolanti, dopo averlo definito “il punto d’incontro di tutte le innovazioni della teologia moderna” - in cui l’errore vi era “divulgato tenacemente per quanto nascostamente” - faceva una breve premessa introduttiva sugli asseriti intenti di chi lo aveva scritto : “L’Autore, fin dall’inizio, afferma di voler inaugurare un nuovo metodo, pur restando nell’ambito della fede cattolica. Scopo di tale innovazione è di raggiungere una conoscenza del mistero più profonda e adatta alle esigenze moderne[3]. Tali dichiarazioni di rispetto della dottrina definita saranno una costante, molto spesso ingannevole, di quel movimento di teologi ed ecclesiastici “innovatori” che si diffuse in maniera esponenziale fino ai giorni nostri, avendo un’accelerazione all’indomani del Concilio Vaticano II. Lo “slancio aggiornatore” finiva quasi sempre nell’adozione della fenomenologia moderna, posta a base del discorso teologico, e aveva come corollario la rinuncia alla metafisica tomista dell’essere e particolarmente alle aborrite nozioni di “sostanza” e di “accidente”. Con toni raffinatamente flautati si mescolava la verità all’errore rendendone difficile l’individuazione e al contempo si protestava immancabilmente - anche qui, ieri come oggi - di non voler cambiare la dottrina della Chiesa. Nel 1965 ci fu un intervento di Paolo VI, mirante nella fattispecie a Schoonenberg e Schillebeeckx ma senza nominarli, con l’enciclica Mysterium fidei[4], la quale su alcuni punti costituì in certo modo un argine alle deviazioni, pur necessitando il cancro di più drastiche amputazioni. 


Ubiquismo luterano e simbolismo eucaristico

Il punto di partenza per un’analisi del simbolismo eucaristico modernista sembra doversi ravvisare nella teoria ubiquista protestante. Mons. Gherardini nello spiegare tale posizione ricordava che per Lutero l’onnipresenza di Cristo avverrebbe in ragione dell’unione ipostatica, la quale “pone il Cristo al di fuori delle creature, così lontano da loro come ne è lontano Dio, e così presente ad esse, così profondamente in loro come Dio stesso è loro dappresso ed intimo”. In tal modo per Lutero “l’Umanità [di Cristo] ne esce onnipotente ed immensa, dotata cioè di tutte le perfezioni assolute della divina natura”, compresa l’ubiquità. In sintesi: “Idea generale è che il Corpo di Cristo è fuori da ogni categoria di luogo, cosicché il Cristo, anche come uomo, può essere dappertutto presente ed ha voluto esserlo appunto nell’Eucarestia[5]

Ispirandosi al citato postulato luterano, la presenza di Cristo in Palestina e nella stessa Eucarestia diventa, nell’elaborazione di certi teologi, un “segno speciale” della presenza spirituale di Cristo, che gode dell’ubiquità. L’Eucarestia diventa “simbolo efficace per richiamare gli uomini naturalmente dissipati a raccogliersi e concentrarsi in se stessi, in modo da rivolgersi a Cristo, e, rinnovati nello spirito, stabilire con lui una scambievole relazione, che implica la presenza spirituale o pneumatica di Gesù con loro[6]. Si noterà che in tale prospettiva, accantonate nella loro accezione classica la “sostanza” e la dottrina sacramentaria della “transustanziazione”, il discorso si è spostato sull’aspetto simbolico e soprattutto relazionale.

A questo punto è necessario ricordare che per quella fenomenologia che si pone su fondamenti filosofici dai contorni neoplatonici, ogni cosa sensibile è immagine del mondo superiore o intellegibile, per cui “la realtà più profonda di una cosa consisterebbe nel suo valore simbolico[7]. Avviene in questo genere di teorie una sorta di scioglimento dell’ens nella coscienza, per cui esso si svuota in essa; la realtà è privata del proprio spessore derivante dal suo atto di essere (partecipato dall’Essere sussistente divino) e viene ridotta all’ombra di un archetipo ideale. Di qui anche la funzione del simbolo, che è una creazione naturale della persona per esprimere le idee e se stessa e “far rivivere” intenzionalmente l’archetipo ideale nell’interiorizzazione della coscienza[8]. Parlare di “simbolo” per l’Eucarestia, essendo in un tale contesto il simbolo la realtà profondissima, non implica la negazione di quella che tali novatori possono ancora chiamare “presenza reale”, anzi per loro tale presenza simbolica, che “dilata” la “presenza pneumatica” di Cristo realizzata dall’intelligenza e dal cuore, è certamente “reale”. Ma non è necessariamente quella “sostanziale” di cui parla la fede cattolica e che è stata definita dal Concilio di Trento[9]. Si noterà anche il ruolo che l’intelligenza e il cuore del fedele vengono ad assumere nel determinare questo “allargarsi” relazionale-simbolico della presenza di Cristo.


Transignificazione e transfinalizzazione

Nelle teorie dette della “transignificazione” maggiormente diffuse, quel che avverrebbe nell’Eucarestia è descritto come una manifestazione della sovrana volontà di Cristo, la quale fa sì che il pane e il vino si trasformino totalmente. “Si trasformino totalmente” in questo caso è da intendere nel senso che prendono in maniera totale e profonda un significato, ovvero quello di corpo e sangue di Gesù. Così commenta Mons. Piolanti: “Dunque la transustanziazione è una transignificazione, dipendente dalla suprema signoria di Cristo glorioso, il quale trasfigura, secondo la sua sovrana sapienza tutto il reale; nel caso dell’Eucarestia, conferisce un nuovo significato profondo al pane e al vino rendendoli corpo e sangue suo[10]

In quelle teologie che poi ebbero l’appellativo di “olandesi” per esempio, si afferma che il corpo di Cristo dopo la Resurrezione sarebbe già ovunque si creda in Lui in virtù d’una presenza “pneumatica”, nell’Eucarestia si offrirebbe col dono del suo corpo e del suo sangue (presenti perché transignificati). Sarebbero essi i simboli dell’Alleanza, offerti a chi vuole entrare in comunione interpersonale con Lui, accettandone la proposta. Si noterà come, aggirata la questione dell’ “essere in sé” delle cose e in questo caso dell’Eucarestia, aggirata la questione del cosa sia quella sostanza dopo che il sacerdote ha pronunciato le parole consacratorie, tutta l’argomentazione viene ad essere prevalentemente inquadrata secondo l’ “essere per noi” di Cristo e dell’Eucarestia. 

Nel mistero eucaristico quindi, elaborando in certo modo il citato passaggio “ubiquista” di Lutero che già riconduceva la presenza di Cristo all’intimità, viene ad avere una preminenza assoluta l’aspetto della congiunzione coi fedeli. Cristo, pneumaticamente  presente ovunque, è presente nelle specie del pane e del vino per donarsi alla Chiesa, anzi si potrebbe dire che in tale visione questa è “specialissima presenza”, sotto i segni del pane e del vino, perché essi sono stati transignificati e quindi transfinalizzati. Messo da parte l’ “essere in sé e per sé” delle cose, che si afferma essere impossibile a determinarsi, esse sono considerate solo nel loro “essere per noi”, ossia rapportandole al valore che hanno in relazione alla persona umana. Ecco perché dopo le parole di Cristo pronunciate su pane e vino, quest’ultimi cambiano totalmente di significato in virtù di un processo antropologico: da segni del nutrimento diventano segni della persona di Cristo, nel senso di una sua naturale estensione ad essi. I segni sono così introdotti “nella sfera della corporeità di Cristo”, essi hanno per volontà divina questo nuovo significato e nuovo fine, che li rende simboli “naturali” della persona di Cristo e dei suoi rapporti interpersonali[11]. Si aggiunga che il clima della reciprocità personale realizzatosi nell’Ultima Cena, del banchetto evocatore dell’Alleanza in cui regna l’atmosfera dell’amicizia e dell’incontro, produce la vera “presenza” di una persona all’altra. In questo quadro - in cui la coscienza che si esprime ed esprime sé stessa fa da padrona - si capisce perché “la presenza di Cristo nell’Eucarestia è unicamente orientata a mutua donazione, per stabilire una reciproca comunione[12].

Precisiamo che i concetti di transignificazione e transfinalizzazione, presi in sé e intesi nel senso tomista, non implicano per forza di cose l’eresia eucaristica, anzi se utilizzati nel seno dell’ortodossia, potrebbero aggiungere degli spunti interessanti anche per la vita spirituale, ma il punto è che tali definizioni devono sgorgare dalla transustanziazione come dall’unica fonte e non devono e non possono fondare la dottrina eucaristica indipendentemente da questa realtà di fede.


Verso la (con)fusione tra Comunione sacramentale e Comunione spirituale

Il fine della “presenza” è così diventato, nel pensiero di tanti autori e di tanti ignari fedeli, quasi esclusivamente la “comunione”. Karl Rahner scriveva : “tale presenza durevole e reale di Cristo (“presenza reale”) resta però necessariamente rapportata all’atto con il quale la Chiesa la pone e alla sua finalità che è appunto la sua recezione (“mangiare”) da parte del credente[13]

Lo nozione di Comunione tuttavia, se non viene più a derivare da una sana teologia della transustanziazione, da una Comunione alla realtà del Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, presenti “per modum substantiae”, diventa un concetto alquanto confuso, che la fa assomigliare a quella che viene chiamata comunemente “comunione spirituale”, complicata in più dai citati risvolti fenomenologici.  

A tal proposito si sentono ormai discorsi in cui la prospettiva appare completamente ribaltata, ovvero invece di essere la Comunione spirituale un’aspirazione fervente a potersi unire in altre circostanze al Corpo e al Sangue di Cristo transustanziati, se necessario dopo essersi emendati da quel che impedisce la Comunione sacramentale, sembra quasi che la Comunione sacramentale alle sacre specie sia solo un’amplificazione in intensità della Comunione spirituale. La Comunione sacramentale sembra avere “in più” solo l’accesso “al simbolo vero e proprio”, al pane e al vino transignificati, tranfinalizzati o quantomeno “simbolizzanti la presenza”. Se così fosse l’accesso sacramentale all’Eucarestia rispetto alla Comunione spirituale diventerebbe quasi solo un’appropriazione più profonda dello scambio interpersonale e spirituale o un’accettazione davvero piena del “dono eucaristico”, transignificato e transfinalizzato “per noi”. E ciò a prescindere dal fatto che la transustanziazione sia fonte e fondamento di qualsiasi altro “scambio spirituale” tra Cristo e il fedele che comunica, perché in fondo questo è diventato un superato “problema da teologi scolastici” e - nelle prospettiva da “neoplatonismo protestantizzante” - la realtà del simbolo conta molto di più della “realtà corporea”, fosse anche quella della sostanza del “corpo di Cristo”.    

A questo punto sarebbe lecita la domanda : quale sarebbe allora, nella descritta visione, la differenza tra la Comunione sacramentale alle sacre specie e la Comunione solamente spirituale? Walter Kasper, commentando l’invito che faceva Benedetto XVI a chi non può accedere all’Eucarestia di fare solo la comunione spirituale, così si esprimeva: “Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. […] Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale?. Mons. Livi così commentava su questa rivista:“Kasper mostra di non saper distinguere la “comunione di desiderio” dalla vera e propria comunione sacramentale, che per lui è un atto meramente “spirituale” e simbolico, senza un reale incontro del fedele con Cristo, Verbo Incarnato[14].

E’ chiaro che se la dottrina soggiacente è quella descritta, tutte le distinzioni cattoliche a proposito dell’accesso all’Eucarestia vengono letteralmente a dissolversi. Non solo la natura stessa dell’eucarestia è alterata e non è più riconducibile a criteri metafisici certi, ma la stessa distinzione di “anima in stato di grazia” o “in stato di peccato mortale”, sottintendendo anch’essa chiaramente una distinzione fra la sostanza e l’accidente, tra il naturale e il soprannaturale, tra il possesso della fede e quello della carità, tra fede soprannaturale e mero senso religioso, viene ad essere risolta unicamente nel mondo della “relazione interpersonale fra Gesù e il credente intorno al simbolo della presenza pneumatica del Risorto”. Quel che conta infatti è accettare la proposta di incontro spirituale col Dio vivo che mi si offre nei “doni eucaristici”. Perché allora rinunciare alla Comunione anche sacramentale “solo” perché si è in peccato mortale o separato dalla Chiesa cattolica? Effettivamente - se per assurdo così stessero le cose - non avrebbe molto senso “astenersi dall’incontro”. 

Nel disegno del card. Kasper di allargare la Comunione sacramentale ai peccatori pubblici che non cambiano vita e nelle recentissime conclusioni del card. Marx di dare il Corpo di Cristo (anche quello oggettivamente transustanziato) ai Protestanti, non appare forse una certa coerenza con alcuni dei suesposti principi? 

Don Stefano Carusi




Per approfondire:
·        

  • L’Eucarestia secondo Kasper (I) - (II)



[1] Significativo anche per l’epoca l’intervento del Sant’Uffizio del 1940 a proposito dell’opera “Der Chist als Christus”, Decretum S. Officii, 30 oct. 1940, in Acta Apostolicae Sedis (AAS), 32 (1940).
[2] Si veda ad esempio Pio XII, Lett. Enc. Humani generis: AAS 42 (1950), p. 578.
[3] A. Piolanti, Il Mistero Eucaristico, Città del Vaticano 1996, p. 346.
[4] Paolo VI, Lett. Enc. Mysterium Fidei, in AAS 57 (1965), pp.753-774; Denz. nn. 4410-4413. Sul clima teologico alla vigilia della pubblicazione dell’enciclica, sulla sua genesi e i collaboratori della stesura cfr. anche M. Cagin (a cura di), “Cahiers de Rome du Cardinal Journet”, in Correspondance Journet-Maritain, Vol. VI, p.795, 823. 
[5] B. Gherardini, Gesù Cristo, in A. Piolanti (a cura di), Il Protestantesimo ieri e oggi, Roma 1958, p. 776.
[6] A. Piolanti, Il mistero Eucaristico, cit., p. 356-357.
[7] Ibidem, p. 272.
[8] Giungere all’essere nel gesuita  J. B. Lotz, per esempio, “implica anche il soggetto, il fatto che le cose del mondo sono riportate all’uomo, interiorizzate. Soggetto e oggetto si compenetrano vicendevolmente al punto che tale interiorizzazione è un vedere, una visio, l’essere (non un’intuizione, perché questo escluderebbe ogni interiorizzazione, ogni reditio, ogni resolutio, ogni mediazione)”, M. Marassi, Introduzione, in J. B. Lotz, M. Marassi, Esperienza trascendentale, Milano 1993, p. LVIII, LIX.
[9] H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue (a cura di P. Hünermann), Bologna 1995, (d’ora in poi Denz.) - i riferimenti sono relativi al testo latino - n. 1636: “dopo la consacrazione del pane e del vino Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente sotto le specie di quelle cose sensibili, non vi è infatti contraddizione che il nostro stesso Salvatore sieda sempre nei cieli alla destra del Padre, secondo il modo naturale di esistere e il fatto che parimenti in molti altri luoghi la sua sostanza sia sacramentalmente presente in mezzo a noi”. Denz. n. 1642: “con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo, Nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo sangue. Questa conversione, quindi convenientemente e propriamente è chiamata transustanziazione”. 
[10] A. Piolanti, Il mistero Eucaristico, cit., p. 273.
[11]Non si parla di tranfinalizzazione e di transignificazione secondo la simbologia scolastico-intellettiva. Si asserisce invece una vera transfinalizzazione e transignificazione secondo la simbologia fenomenica-antropologica: nell’Eucarestia il pane e il vino non acquistano un significato e una finalità astratta, sovrapposta al loro essere, ma sono introdotti nella sfera della corporeità di Cristo, diventando così simboli naturali della sua persona e dei suoi rapporti interpersonali (alleanza tra lui e i fedeli)”, Ibidem p. 282.
[12] Ibidem p. 278, pp. 279-287.
[13] K. Rahner, H. Vorgrimler,  Dizionario di teologia (Ed. it. a cura di G. Ghiberti, G. Ferretti ), Milano  1994, pp. 243-244.
[14] A. Livi, L’Eucarestia secondo Kasper, in Disputationes Theologicae, 19 agosto 2015.