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18 novembre 2022

Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi (Seconda Parte)

 Città e periferie pontificie: una sovranità mediata

18 novembre 2022, Dedicazione delle Basiliche di S. Pietro e S. Paolo


Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, Siena 

Parete Est (Effetti del Buon Governo in città e in campagna), le mura aperte di Siena, tra città e campagna.


Per leggere la Prima Parte cliccare qui.

Durante i secoli XI-XIII si assisté al diffuso sorgere delle autonomie comunali, i cui statuti ebbero quasi sempre il sopravvento sugli ordinamenti feudali. Giova rammentare che la tradizione urbanocentrica dell’Italia non era mai venuta meno e la densità di sedi vescovili, quindi di città, era particolarmente alta proprio nell'Italia centrale[1]. Nel periodo in questione i Papi non hanno il pieno controllo del territorio e, grazie all’esercizio di una «autorità mediata attraverso comunità e istituzioni giuridiche che insistono, a loro volta, sul territorio e che hanno col potere centrale (...) rapporti molto diversificati implicanti comunque una qualche misura di bilateralità»[2], i Comuni prosperano e si innesca «un processo di ricostruzione di una territorialità imperniata sulla città, che non ha precisi termini di paragone nelle altre aree d’Europa»[3].

 

Il consolidamento dello Stato ecclesiastico vedrà, per citare esempi significativi, l’impegno di Gregorio VII, la risolutezza di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, «ma gli Stati cittadini - si constata - sono piuttosto inglobati negli stati regionali che non sussunti e trasformati; gli ordinamenti territoriali di comunità di valle, di centri minori, di signorie territoriali sono rispettati da un potere politico centrale che ha un atteggiamento costatativo nei confronti delle istituzioni assise sul territorio, prende atto della loro esistenza, ne assume la tutela (“il sovrano tutore”)»[4]. Nel processo di rafforzamento degli Stati regionali non si sconvolge la geografia politica preesistente, ma la si rispetta e le si riconosce una funzione fondamentale, rispettando quell’idea di sovranità tipica del Medioevo, che cede ai “corpi intermedi” ampi poteri: «nello Stato Pontificio la territorialità delle città soggette (soggette ma ancora e sempre capitali provinciali, con larghe competenze in ambito giurisdizionale e fiscale) mantiene un peso molto rilevante, destinato a perdurare per molti aspetti sino alla fine dell’Ancien Régime»[5].

 

Nel 1309 ha inizio per la Chiesa il periodo della “cattività avignonese”. I Papi nella residenza coatta di Avignone devono sottostare alla pesante tutela della monarchia francese. Nelle maggiori città dell’Italia papale, sull’onda di una prassi diffusa, a profittare della situazione saranno alcune famiglie. I domini pontifici vedranno la fioritura di un numero straordinario di Signorie che a vario titolo governeranno su territori di media estensione, improvvisandosi despoti di provincia o protestandosi, in ricerca di legittimazione, feudatari della Santa Sede. L’epoca signorile vedrà l’esasperazione dell’orgoglio delle città egemoni; la fierezza dei Comuni aveva dilagato nei secoli precedenti grazie alla tolleranza dei Pontefici, ora quei capoluoghi dall’esteso contado, che avevano eretto austeri Palazzi Civici per le proprie piazze e svettanti campanili per le proprie Cattedrali, si sentivano capitali a tutti gli effetti, seconde solo all’Urbe, alla quale riconoscevano, in ambito temporale, un primato quasi più d’onore che di fatto.

 

Nel 1353 giungeva nelle terre della Chiesa il cardinale Egidio d’Albornoz come legato e vicario generale di Innocenzo IV; il compito del porporato era di ricondurre all’obbedienza città e istituzioni che avevano eccessivamente abusato della lontananza dei Papi; nell’arco di due anni il legato riuscì nella straordinaria opera di portare al riconoscimento della supremazia pontificia nel Patrimonio toscano, nel Ducato di Spoleto e nella Marca. Grande merito dell’Albomoz e causa del suo rapido successo fu «un atteggiamento privo di rigidezze dottrinali. Non esisteva un modello fisso di subordinazione comunale»[6].

 

Nella primavera 1357 il Cardinale volle la promulgazione delle Constitutiones Aegidianae, «rimaste in vigore, almeno in parte, nello Stato della Chiesa sino al 1816»[7], il cui spirito avrebbe permeato tutti i futuri rapporti tra potere centrale e istituzioni periferiche. Le Constitutiones codificarono un modello d’ordinamento amministrativo che, nel lungo termine, avrebbe dato frutti abbondanti; il Cardinale non volle interferire nelle varie forme di governo locale con le quali si imbatteva; in assenza di precisi divieti o controindicazioni le differenziazioni, specie se derivanti da tradizioni specifiche, non erano viste come elemento d’intralcio al consolidamento dello Stato.

 

Leggendo il testo, si constata che «le laudabiles et antique consuetudines»[8] vennero affiancate alla legislazione albornoziana, a patto che non fossero «a jure prohibite»[9]. Allo stesso modo gli «statuta ordinamenta, decreta aut municipales leges»[10] furono accolti di buon grado, a patto che non fossero «contra libertatem ecclesiasticam vel contra constitutiones generales nostras»[11].

Veniva sanzionato il principio del rispetto degli usi locali e delle tradizioni, alla condizione che non andassero a ledere i diritti della Chiesa.

 

Per quel che concerne l’organizzazione interna dei comuni, va notato che è pressoché impossibile fornire un quadro unitario della situazione nei domini pontifici, proprio in virtù della prassi suesposta, perché le realtà amministrative, lungi dall’essere imposte dall’alto, si forgiarono a seconda delle caratteristiche geografiche e insediative, e variarono a seconda dei momenti storici; si avevano forme di democrazia diretta, di governo aristocratico, di partecipazione mista “borghese” e nobiliare, di legislazione antimagnatizia con l’esclusione della nobiltà dalle magistrature o, più tardi, di tipo podestarile.

Dal XIII secolo in poi assunsero potere sempre più rilevante le Arti, associazioni che raggruppavano i membri dei mestieri e che difendevano i propri interessi in ambito legislativo e fiscale[12]. Il diritto consuetudinario venne ad avere la sua codificazione all’interno delle società comunali con ordinamenti che tutelavano le diverse componenti sociali attraverso un sistema corporativo e che curavano gli interessi delle popolazioni del contado attraverso una capillare rappresentanza territoriale[13].

 

Molti comuni avevano, nel XIV secolo, conosciuto esiti signorili, in virtù dei quali si era instaurato nelle città e nei territori soggetti un regime monocratico, che faceva capo ad una famiglia; anche in questi casi l’Albornoz aveva accettato lo status quo, limitandosi ad esigere atti di sottomissione più formale che reale. Sul termine del XV secolo la spinta signorile si andava esaurendo e iniziava, per la Santa Sede, il lungo capitolo della recupera dei territori infeudati, del passaggio delle città, dal dominio mediato del signore locale, allo status di città immediate subiectae ovvero direttamente dipendenti dalla Sede Romana. Anche in questo caso, con una politica inveterata, il potere centrale non ardiva e non voleva soggiogare le comunità dello Stato, che nei secoli avevano dato prova di straordinaria capacità di autogoverno, senza eccessive turbolenze[14].

 

Con le città, il ritorno al diretto dominio pontificio si concordava ma non si imponeva; nel caso di Urbino si sarebbe atteso per decenni[15]. Nel contempo si garantiva rispetto per le consuetudini e le autonomie, si tutelavano le leggi locali e si concedeva facoltà di promulgarne di nuove, si riconosceva il diritto di determinare autonomamente la composizione del ceto dirigente, al momento della devoluzione e negli anni a venire[16]. La prospettiva era di lasciare che i centri maggiori continuassero ad esercitare il ruolo di capitali del proprio territorio; in taluni casi la Santa Sede giunse a concedere il mantenimento del titolo di “Stato”; spesso tale riconoscimento si protrasse fino alla caduta del potere temporale dei Papi, a dimostrazione che la larghezza delle concessioni non era un imperativo dettato dalle contingenze, ma una vera e propria linea d’intervento[17]. Si prendeva atto dell’esistenza di un insieme di stati minori, la cui sopravvivenza era garantita all’interno di una compagine più ampia, in cambio si chiedeva ai beneficiati il riconoscimento dell’assolutezza del potere temporale, che va letto non nel senso dell’assolutismo regio dell’età moderna come negli stati protestanti o nella Francia di Luigi XIV, ma piuttosto nel senso medievale di summa legibusque soluta potestas[18] del Pontefice, per cui il Governante, vedendo le cose dall’alto deve amministrare in vista del vero bene comune e proprio per questo non è tenuto al pedissequo e legalista rispetto di ogni norma giuridica. Egli non è sottomesso alle leggi positive (è appunto absolutus, ovvero “sciolto”, “libero”), piuttosto le adatta o le corregge laddove sono d’intralcio al bene, le applica appunto ad mentem legislatoris, avendo nella legge naturale e rivelata o nel diritto consuetudinario i limiti al suo potere regio.

 

 Nell’ottica di uno “Stato di Stati”, Roma non era città dominante se non per il richiamo spirituale e perché residenza del sovrano (niente di simile si poteva riscontrare in Europa, ma neanche nella Repubblica di Venezia, nello Stato fiorentino o nel Ducato di Milano)[19].

Il potere centrale si limiterà ad inviare nella periferia dei rappresentanti, ma terrà sempre distinti gli ambiti di intervento, non solo nei confronti delle magistrature cittadine, ma anche riguardo i poteri religiosi locali; laddove il Pontefice inviasse Cardinali legati o Prelati governatori, si evitarono sempre sovrapposizioni con l’autorità vescovile del luogo; nello “Stato del Papa”, il Vescovo aveva funzioni pastorali, mentre le occupazioni temporali erano appannaggio dei legati pontifici[20].

Tra potere centrale e periferia si stringevano patti, per cui i “governatori” inviati e gli organismi cittadini collaboravano al buongoverno della cosa pubblica, nel reciproco rispetto dei ruoli; il “governatore” non era un plenipotenziario (ricorsi alla Sacra Consulta o alla Congregazione del Buon Governo nei loro confronti saranno frequentissimi)[21] è i magistrati comunali non erano dei dispotici oligarchi; si creava piuttosto nei capoluoghi una sorta di diarchia che cercasse di garantire da eccessi e soprusi.

 

La libertà cittadina si fondava su governi locali i cui membri venivano scelti, al mutare dei luoghi e dei tempi, da famiglie aristocratiche del territorio o da tutta la popolazione urbana con diritto di cittadinanza, dai capitani delle arti o da tutte le tre categorie menzionate; in alcuni casi il governo locale era affidato ai maggiorenti, a volte con esclusione della nobiltà feudale, in altri frangenti erano ammessi alle magistrature anche coloro che si occupavano delle “arti meccaniche”, o quanti praticavano l’agricoltura in fondi di proprietà[22].

 

Il modello che avrà maggior diffusione sarà quello patriziale, i magistrati venivano eletti o sorteggiati da un nucleo di famiglie ascritte in appositi registri, esso costituirà un corpo aperto e i nuovi ammessi saranno spesso cooptati secondo uno “ius proprium”, in completa autonomia rispetto al sovrano, che si limiterà spesso a ratificare le norme degli Statuti Civici. Nei consigli erano rappresentate le Associazioni di mestiere, come continuavano ad avere voce in capitolo le comunità del contado e, in caso di eventi straordinari anche i capi degli ordini religiosi, interpellati come persone di saggezza ed esperienza[23].

 

Grazie a questa elasticità la Santa Sede, nel corso di due secoli (XV-XVI), riuscì in una impresa apparentemente disperata, il recupero di un territorio soggetto a riottose città; progetto sicuramente più arduo che altrove, essendo l’autorità centrale priva di una continuità dinastica e di indirizzi familiari, il Papato è carica elettiva, avendo il pontefice una corte, la Curia Romana, cosmopolita e variegata, e, fattore estremamente influente, non disponendo il sovrano «in toto, come negli stati protestanti, del patrimonio ecclesiastico»[24]. Quest’ultimo nell’universo cattolico era sottoposto a norme consuetudinarie stratificate, che vedevano una selva di istituzioni proprietarie, oscillanti dalle confraternite agli ordini possidenti, dalle mense vescovili ai benefici parrocchiali, dai canonicati alle cappellanie. Si rendeva pertanto impossibile, se mai qualcuno l’avesse pensato, indirizzare lo sfruttamento economico di quel capitale in funzione del rafforzamento del vertice dello Stato, come invece avveniva in età moderna tra i principi protestanti, i quali avevano incamerato i beni ecclesiastici, gestendoli in maniera autocratica.

 

Tanto più difficoltosa si prospettava l’opera, tanto la pazienza e la lungimiranza dei Pontefici si rivelarono fruttuose: azioni di forza, che avrebbero indebolito e spossato quelle città, che invece costituivano il nerbo e la ricchezza dello Stato, furono limitate o pressoché bandite; si diede largo spazio all’autodeterminazione locale, nella coscienza che nessuno avrebbe potuto amministrare meglio un territorio, che andava dalle paludi pontine a quelle ferraresi, dalle selve della Tuscia alle feraci colline della Marca, da Benevento ad Avignone, se non le forze locali, che avevano prosperato sulla base di rapporti ed usi più che secolari.

 

A tanta attenzione nel trattare i propri sudditi arrise una stagione di ricchezza e prosperità, in cui i vantaggi si moltiplicarono per i governati e per i governanti: Montaigne, Montesquieu, Goethe si meravigliavano del fitto reticolo urbano delle province pontificie, oltre cento città, metà delle quali con una sede vescovile anteriore al Mille, della presenza di una “seconda città” del pari di Bologna, dell’autosufficienza delle comunità locali «sotto il profilo delle strutture assistenziali e degli ammortizzatori sociali: ospedali, opere pie e caritative, monti di pietà e frumentari, annona (...) attività legate allo scambio e distribuzione delle merci (fiere e mercati) [...] gestioni di forte rilievo nell’economia agraria (comunanze, domini collettivi) o connesse al governo idrologico del territorio (si pensi alla disciplina delle acque interne nel ferrarese e nel bolognese)»[25].

 

Ancora oggi è leggibile la vivacità della vita culturale delle città, che un siffatto sistema di governo permise dall’epoca medievale fino alle produzioni artistiche del Rinascimento, del Barocco e del Settecento, la fioritura di teatri e tribunali, di musei e biblioteche, di accademie letterarie e scientifiche, di collezioni pubbliche e private rendono testimonianza di una passata opulenza. Allo stesso modo la realtà provinciale costituirà, per l’amministrazione centrale, un serbatoio di giuristi, formatisi in alcune fra le più antiche Università, lo Stato ne conta ben otto: Ferrara, Bologna, Perugia, Fermo, Camerino, Urbino, Macerata oltre naturalmente alla Capitale.

Un paesaggio dove l’identità di un territorio si legava a un capoluogo, col quale si identificavano anche gli abitanti delle più sperdute campagne, dove i limiti delle realtà amministrative erano poco più che provinciali, dove le città immediate subiectae, così orgogliose di un glorioso passato, dovevano obbedienza solo al Papa.

 

La Rivoluzione francese scardinò l’antico sistema con le idee dello statalismo d’oltralpe e l’epoca successiva della cosiddetta “Restaurazione” non seppe riproporre - certo con gli adattamenti che si rendevano necessari alle mutate circostanze - lo spirito della sovranità mediata e delle autonomie medievali. Anche negli Stati Pontifici si stenta a vedere quella decisa volontà di ricostruire un tessuto che aveva portato tanta pace e tanta prosperità nel passato e, complice anche una certa sudditanza culturale del mondo cattolico verso alcune idee illuministe, si inseguì, seppur timidamente, un modello di “ammodernamento amministrativo” che guardava forse troppo alle pressioni europee e troppo poco alla vecchia tradizione di equilibrio fra centro e periferia. Nulla di paragonabile tuttavia alla tempesta ideologica dell’epoca “unitaria” che si abbatterà con tutta la sua ferocia sullo Stato Pontificio sconvolgendone il secolare ordinamento territoriale.

 

Ancora nel 1832 il Cardinale Tommaso Bernetti  scriveva : «Tutte le istanze e controversie relative a cambiamenti territoriali concernenti aggregazioni o separazioni di comunità (...) si risolveranno dai rispettivi delegati (...) dopo di avere esplorato il voto delle popolazioni interessate»[26]. Pochi anni dopo, all’indomani dell’Unità d’Italia, dando invece prova di quello spirito accentratore tanto caro ai governi d’ispirazione rivoluzionaria si soppressero, in dispregio alle rimostranze della popolazione, le province di Frosinone, Velletri, Civitavecchia, Orvieto, Viterbo, Camerino, Rieti, Fermo, Spoleto. Per il cosiddetto “stato moderno” l’idea concepita a tavolino prevale sulla realtà e di fatto si smembrarono territori affini e si unificarono paesaggi differenti, nel mito, condiviso dai soli cartografi, di disegnare inesistenti regioni[27].

 

Segue la Terza Parte: Gli usi civici. Tutela del poveri.



[1] G.M. VARANINI, L’organizzazione del territorio in Italia: aspetti e problemi, in La Società Medievale, a cura di S. Collodo e G. Pinto, Bologna 1999, pp. 135 e ss.

[2] Ibidem, p. 161.

3 Ibidem, p. 162.

[4]   Ibidem, p. 168.

[5]   Ibidem, p. 169.

[6]   D. Waley, Lo stato papale dal periodo feudale a Martino V, cit., p. 295.

[7]   E. Saracco Previdi, Descriptio Marchiae .Anconitanae, Dep. di Storia patria per le Marche, Ancona 2000, p. XXI; per l’opera del cardinale d’Albornoz cfr. anche P. Colliva, Il Cardinale Albornoz, lo stato della Chiesa, le Constitutiones Aegidianae (1353-1357), Bologna 1977, con in appendice il testo volgare delle costituzioni di Fano dal ms Vat. Lat. 3939, Bologna 1977.

[8]  P. Sella, Costituzioni Egidiane dell’anno MCCCLVII, Roma 1912, pp. 233 e ss.

[9] Ibidem.

[10]  Ibidem, e pp. 84 e ss.

[11] Ibidem. Per un approfondimento della questione cfr. Colliva, op. cit.

12 J.C. Maire Vigueur, Comuni e Signorìe in Umbria, Marche, Lazio, in Storia d’Italia, cit., I comuni nel periodo consolare e podestarile, pp.383 ss.

[13] Ibidem, pp. 383-384.

14 B.G. Zenobi, “Le ben regolate città”, modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, pp.14-16 e 45-49.

[15]  La devoluzione del Ducato d’Urbino avverrà solo nel 1631. Cfr. Zenobi, op. cit., p. 95.

[16]  Ivi, p. 238.

[17]  Si veda ad esempio il caso di Camerino al quale anche dopo la devoluzione del Ducato e il passaggio a sede di Delegazione Pontificia fu riconosciuto il titolo di Stato, Città e Ducato, P. Savini, Storia della Città di Camerino, Camerino 1895, passim. L’uso di tale dicitura è frequentissimo nei documenti d’archivio cittadini e nell’uso generale almeno fino all’avvento della Rivoluzione francese, dall’epoca della Restaurazione in poi le menzioni si fanno più rare.

[18]  Cfr. anche R. de Mattei, La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Roma 2001.

[19]  B. G. Zenobi, op. cit, p. 6.

[20]“Salvo temporanee e rarissime supplenze interinali o speciali attribuzioni di poteri commissariali affidati eccezionalmente ai titolari del governo spirituale delle diocesi (...) immediatamente reperibili (..) e ben informati degli affari locali”. Ivi, p. 6.

[21]  Ibidem, pp. 47-48.                                                                                                                                                           .

[22] Ibidem, pp.197 e ss.

[23] P. Savini, op. cit., p. 180.

[24] B. G. Zenobi, Le ben regolate città, cit., p. 51.

[25]  Ivi, p. 7.

[26]  Editto del Cardinale Tommaso Bernetti “Disposizioni sull’organizzazione amministrativa delle provincie", Roma 1831, nella stamperia della Rev.da Camera Apostolica, titolo I, 4.

[27] Osservazioni interessanti in proposito provengono anche da altri punti di vista, cfr. R. Volpi, Le regioni introvabili, centralizzazione e regionalizzazione dello Stato Pontificio, Bologna 1983.