Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi
(I)
Il mondialismo massonico d’oggi propone, o meglio “impone” un modello di gestione del mondo, in cui la nozione stessa di “stato”, di “ordinamento statale”, di “cosa pubblica” vengono sciolti, liquefatti e rifusi in un’idea informe al servizio della grossa finanza internazionale e di chi la manovra come “instrumentum regni”. Senza radici, senza identità, senza religione, senza re, senza aristocrazia, senza nemmeno più il popolo e senza nemmeno più - se mai fosse possibile - quella terra che abbiamo sotto i piedi, si costruisce un mondo fondato sulla dissoluzione d’ogni certezza naturale e soprannaturale e su un idealismo che vorrebbe abbattere tutte le frontiere e tutti i limiti dell’essere creato.
In risposta a questa deriva riproponiamo ai nostri lettori il testo di una conferenza tenuta circa vent’anni or sono al Convegno di Controrivoluzione di Civitella del Tronto, dal titolo originale “Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi”, per cercare di leggere nella storia dello stato cattolico per eccellenza quelle indicazioni che non hanno tempo e che in parte rispondono alla crisi innescata dall’odierno “statalismo”.
In fondo l’idea centrale, che vedremo nella sua applicazione pratica nella storia dell’amministrazione degli Stati Pontifici, è quella che già Aristotele e San Tommaso avevano illustrato: non si applica un’idea alla realtà stravolgendo quest’ultima pur di mantenere intatta l’idea preconcetta, ma si legge la realtà che a noi si presenta - e che un Altro da noi ha creato con le sue regole - e solo poi si cerca il miglior sistema di governarla, indirizzandola verso il suo bene oggettivo. E’ così che i due grandi pensatori, pur con quella preferenza per la monarchia che San Tommaso giustifica dicendo che è quella che più assomiglia al governo divino, non assolutizzano nessun modello amministrativo, ma ci dicono che la forma monarchica, aristocratica o democratica possono essere tutte e tre buone, purché rispondano all’indole e alla tradizione dei popoli governati. Di più, quegli adattamenti amministrativi stratificatisi nel tempo, adattandosi alla diversità delle realtà, possono essere spesso una ricchezza da mantenere. In altri termini ci sono popoli e territori che vanno governati in maniera diversa perché - semplicemente - sono diversi. Non esiste un modello unico di governo da riprodurre in serie, esistono popoli, storie, territori, culture. Non si calano sistemi, si costatano realtà.
Vi è poi nello stato anche un genere di sostegno al governante, e al contempo di limite, costituito da quelle realtà sociali che naturalmente sono parte dell’insieme e come tali sono da rispettare. Si tratta di quelle entità che sono come le membra di un corpo che il capo non può recidere senza grave danno per il benessere di tutto l’organismo, entità che non si sostituiscono al capo, ma che il capo non può sopprimere o modificare a capriccio perché non le inventa lui, le constatata o al limite ne favorisce la nascita, lasciando che le inclinazioni di natura prosperino. Sono i “corpi intermedi”.
Come la Chiesa dispiegò la sua millenaria saggezza nell’amministrare quei territori ad essa sottomessi anche “in temporalibus” e quali furono alcune applicazioni pratiche del descritto principio è l’oggetto di questo studio. Senza la pretesa d’essere esaustivi, ma con quella di fornire alcuni spunti di riflessione ed avendo ben chiaro che quanto proposto presuppone preliminarmente la sconfitta dell’odierna apostasia.
I frutti
di buon governo, di ricchezza, di fioritura del sapere e delle arti nello Stato
Pontificio non hanno bisogno di spiegazioni per chiunque non sia digiuno di
storia, una delle cause di tanta prosperità è anche da individuare
nell’esercizio mediato della sovranità. Un’impostazione profondamente lontana
dalla divinizzazione assoluta dello Stato e della legge positiva e
dall’uniformizzazione assoluta del globalismo d’oggi. Per capire nel concreto
la distanza che separa questi due mondi, concentreremo lo sguardo su tre
aspetti: il primo sarà il rapporto tra autorità centrale e territorio, esigenza
di unità intorno al governante e rispetto delle peculiarità e delle autonomie
dei governati, riuniti a loro volta in altre società non da fagocitare o
dissolvere, ma da rispettare. Il secondo punto riguarda l’aspetto economico
della concezione della proprietà terriera e del suo utilizzo a pro della
prosperità dello Stato e tutelando i poveri al contempo. Aldilà della
concezione certamente datata, che vedeva la ricchezza prevalentemente nella
terra, l’occhio attento e non ideologizzato saprà scorgere quale fosse l’impostazione
economica da dare ad un ordinamento che cerchi di osservare la giustizia e la
carità, nella legittima ricerca del benessere anche economico, ma senza
affamare i poveri. Il terzo punto si concentra sull’opera di aggregazione ed
assistenza effettuata dai ceti di mestiere e dalle confraternite, che univano
ed organizzavano gli strati della società intorno a compiti ben precisi e
incarnati sul territorio, così da essere un vero ed efficace collante per la
società, occupandosi di tutti.
Le premesse storiche
Nel corso dei secoli V-VII d. C., dopo lo spostamento della sede imperiale a Costantinopoli e il progressivo trasferimento dell’aristocrazia senatoria sul Bosforo, Roma si presentava come una cadente città di provincia; salvo l’esempio di Giustiniano, il disinteresse degli imperatori era tale da allarmare i contemporanei; le uniche autorità a preoccuparsi delle sorti della città erano i Vescovi dell’Urbe, che per il loro prestigio avevano assunto un ruolo catalizzatore[1].
L’intervento dei pontefici andava spesso a colmare le latitanze imperiali, al punto che il rifornimento di derrate della Città, l’Annona, andò a gravare sui granai della Chiesa; il tradizionale ruolo di assistenza ai poveri si confondeva così con i compiti che il potere civile non era in grado di assolvere[2].
I Vescovi romani, nonostante svolgessero effettive funzioni di governo, costantemente ribadirono la propria fedeltà all’Imperatore, al punto di implorarlo, spesso veementemente, di occuparsi con maggiore sollecitudine dell’Occidente e Gregorio Magno, nel 593, “denunciò con angoscia il vuoto lasciato dal Senato”[3].
Nel corso della prima metà dell’VIII secolo la situazione cominciò a prospettarsi insostenibile: i Longobardi di Astolfo minacciavano Roma, nel completo disinteresse di Bisanzio, peraltro effettivamente impotente […]. Nel 756 Pipino III il Breve, Re dei Franchi, al termine della vittoriosa campagna d’Italia, donava i territori invasi dai Longobardi al Principe degli Apostoli, «a S. Pietro e per lui al Pontefice regnante e ai suoi successori in perpetuo»[4]. Presso la Confessione di San Pietro furono depositati il documento (donatio) e le “claves portarum civitatum”[5]: con l’atto si provava l’avvenuta consegna. Carlo Magno, confermando la donazione paterna, menzionava il confine settentrionale dei territori donati, da Luni nella Toscana settentrionale (“Luni cum Corsica’’) a Monselice passando per Parma e Reggio, consegnava al Pontefice un vasta porzione dell’Italia che includeva, oltre il Centro-Italia e il Meridione con le tre isole maggiori del Tirreno, anche Venezia e l’Istria; ma la questione dei confini, soprattutto quelli nord-orientali, ha suscitato in passato fra i giuristi, oggi fra gli storici, polemiche non ancora sopite[6].
L’assenso imperiale alla donazione fu ribadito da Ludovico il Pio nell’817 e dal Privilegium di Ottone I nel 962; anche l’Imperatore Enrico II nel 1020 confermò l’operato dei suoi predecessori. Se dubbi possono essere sollevati sulla facoltà di donare territori bizantini da parte dei primi re Franchi, altrettanto non può dirsi per gli ultimi esempi[7].
Lo Stato
Pontificio andava lentamente delineandosi in una situazione di grande
incertezza e instabilità, i pontefici si trovavano di fronte un territorio che
usciva dalle rovine delle invasioni barbariche e dal disinteresse dei Bizantini
(e per il quale si prospettava una lunga latitanza degli imperatori germanici).
Ad aggravare la situazione si aggiunsero nel corso dei secoli IX e X le
incursioni dei Saraceni (870, 910) dalla loro base sul Garigliano e le
invasioni degli Ungari dal Settentrione (927, 937, 942), avvenimenti che furono
alla base del fenomeno dell’incastellamento in tutta la campagna romana. Ma laddove possibile i Papi
cercarono costantemente di mantenere il tessuto cittadino romano, favorendo
così quell’impulso comunale che segnerà la grande fioritura del Medioevo in
Italia centrale.
Continua...
Don Stefano Carusi
[1] G. Arnaldi,
Le
origini del Patrimonio di S Pietro, in Storia d ’Italia, diretta da G. Galasso, Torino, v. VII, t. II,
pp. 15 e ss. Funzionari bizantini furono
presenti a Roma fino al secolo VIII, ma la loro effettiva influenza nella
politica cittadina fu marginale: cfr. O.
Bertolini,
Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, in Storia di Roma (ed. Istituto di
Studi Romani), Bologna 1941, v. IX.
[2] Ibidem, p. 38 e ss.; per la
gestione dei patrimoni ecclesiastici cfr. V. Recchia,
Gregorio
Magno e la società agricola, Roma 1978.
[3] Ibidem, p. 16. Anche in seguito i Papi, salvo '‘l’eccezione
vistosa di Gregorio III, erano stati sempre attentissimi nel procurare
che la difesa dell’ortodossia e la stessa esigenza del contenimento dei
longobardi non pregiudicassero una
linea di assoluto lealismo [verso
l’Impero]”. Ibidem, p. 114.
[4] Ibidem, pp.
119, 120.
[5] Ibidem.
[6] Per la complessa questione dei confini cfr. Arnaldi,
op. cit., pp.127 e ss. I testi
delle donazioni sono in A. Theiner, Codex
diplomaticus domimi temporalis S. Sedis, recueil de documents pour servir à
l’histoire du gouvemement temporei des Etats du Saint-Siège extraits des
archives secrètes du Vatican, Rome 1861.
[7] Sussistono
dubbi fra gli studiosi in merito alla legittimità del gesto di Pipino; secondo
alcuni egli non avrebbe avuto potestà riconosciuta sulle terre donate,
formalmente ancora bizantine, come non l’aveva Carlo nel 781. Quest’ultimo,
dopo l’incoronazione imperiale dell’800, vide riconosciuta la propria potestà
sull’Occidente da parte del collega bizantino solo nell’812. Per comodità si è
dato l’appellativo di “Re” anche a coloro che erano piuttosto delle guide di
popoli.