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8 maggio 2024

Funerali da pianto

Riceviamo e pubblichiamo

8 maggio 2024, Apparizione di San Michele Arcangelo



Caro Disputationes Theologicae,

certamente le lacrime si addicono a una dipartita, ma qui è a un altro dolore che mi riferisco: quello per il maltrattamento della fede e della pastorale cattoliche – mentre la desacralizzazione continua banalmente ad avanzare – che abbonda in queste occasioni. Almeno da queste parti, ma abbiamo motivo di temere di non essere un caso raro (un po’ per le idee dominanti e un po’ per la pressione sociale in tal senso).

I dolori iniziano già prima della Messa esequiale, con il calo vertiginoso verificatosi negli ultimissimi decenni della dicitura, nei consueti manifesti funebri, “munito dei conforti religiosi” (che costituisce una testimonianza e un pro memoria: si muore coi Sacramenti). La scristianizzazione, dirà qualcuno…Certo (ma undici anni fa non dicevano che Papa Francesco sta cambiando il mondo?). Ma è anche vero che, generalmente parlando, non si predica più sui Novissimi. Non lo si fa coi praticanti, quando le letture della Santa Messa ne offrono lo spunto; e non lo si fa coi numerosi non praticanti presenti ai funerali, quando l’occasione darebbe modo di ricordare direttamente anche a loro: in questa vita fuggevole ci giochiamo l’Eternità. Negli odierni tempi così francescani (o franceschiani), quando risuonano queste parole del Santo di Assisi “guai a quelli che [la morte] troverà ne li peccata mortali”?

Invece si fanno banali panegirici del defunto (perlopiù neanche conosciuto dal celebrante), conditi spesso coi ritornelli che egli “ha servito gli altri” e che “della vita rimane il bene che si è fatto agli altri”.

Non poche volte si sentono, anche dal pulpito, espressioni il cui senso logico ovvio è che il defunto (chiunque sia) è in Paradiso. Un parroco addirittura disse testualmente che non i defunti hanno bisogno delle nostre preghiere, ma [soltanto] noi abbiamo bisogno delle loro. C’è pure un canto funebre che lo suggerisce abbastanza apertamente: “quando busserò alla Tua porta/ avrò fatto tanta strada/ avrò mani bianche e pure…”. Qui oggettivamente si nega non soltanto il dogma dell’Inferno (cfr. Salvaci dalla dannazione eterna), ma anche quello del Purgatorio.

Ma se quando uno muore “avr[à] mani bianche e pure”, quale solidità dovrebbero avere elementi residuali come la S. Messa di Settima e il pro memoria della possibilità delle indulgenze a novembre? Perché suffragare con zelo dei morti che hanno mani bianche e pure? Non c’è dietro anche la costitutiva contraddittorietà del modernismo, denunciata già da San Pio X nell’enciclica Pascendi?

Spesso inoltre, durante la Santa Messa esequiale, salgono sull’ambone dei laici a tenere degli interventi, in pratica dicendo liberamente del morto quanto passa per la mente a loro o ai suoi ambienti in genere.

In questo “spazio vitale” (K. Rahner!) si dovrebbe tout court “integrarsi” e “camminare insieme”?

Giacomo Santini