6 maggio 2016, San Giovanni alla Porta Latina
Padre Pio e Leopoldo Mandic - i santi del Confessionale - esposti nella Basilica di San Pietro nel febbraio 2016 |
Nello scorso mese di aprile, in onore
alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da Siena, Mons. Antonio Livi
ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San Giovanni alla Porta Latina,
organizzata dalla “Sacra Fraternitas
Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione dall’orale, approvata
dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà a far chiarezza
fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi si sentono
smarriti.
Dottrina
morale e prassi pastorale
nella “Amoris laetitia”
nella “Amoris laetitia”
Cari amici,
mi avete chiesto di spiegare in termini semplici a voi, laici - ma vedo anche nell’uditorio dei confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle intenzioni. Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:
«Il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all'errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l'opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l'autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall'insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l'insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell'obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall'insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l'insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato» (Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).
Io
conosco bene questo documento, e l'ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto
per denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per
principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare
il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica
“scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da
Vinci, Roma 2012). Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per
legittimare i miei interventi critici di fronte alle tante ambiguità
(nell'indirizzo pastorale) e alla evidente deriva relativistica (nella dottrina
morale) che caratterizzano, purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo
Papa e in particolare l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Sono rilievi critici
suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale che mi impegna - come
sacerdote e come teologo - soprattutto di fronte a quei fedeli che sovente manifestano
in pubblico il loro turbamento e in privato mi confidano il disorientamento
delle loro coscienze, pensando anche a quei fedeli che posso immaginare che
siano addirittura indotti alla perdita del senso del peccato - essendo
esso la coscienza di essere tutti
peccatori, unitamente alla convinzione che solo la grazia sacramentale, una
volta avviata la conversione interiore, può redimerci e garantirci la salvezza
eterna.
Parto dal presupposto che la "nota teologica" di questo documento pontificio sia proprio quella indicata nel n. 30 della dichiarazione Donum veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni formalmente espresse dai padri sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx, Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali), non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller, Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza more uxorio (la quale configura canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.
Per
queste concrete circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento
molto atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei
vescovi sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi
favorevoli al mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano
un cambiamento radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.
Alcune
parti del documento papale - quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi
criteri pastorali - sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato,
un’ambiguità che genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo
a ciò che Francesco vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che
cosa suggerire o prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi
all’Eucaristia pur trovandosi in una situazione irregolare. I termini
«misericordia», «accompagnamento» e «discernimento», pur ripetuti tante volte,
non sono mai spiegati in modo da far capire se sono davvero la cifra di una
nuovissima prassi (nel qual caso avrebbero ragione quelli che hanno parlato di
una «novità rivoluzionaria») oppure sono semplicemente sinonimi di quello che
le leggi ecclesiastiche vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la
«carità pastorale», non diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella
dottrina teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria
de’ Liguori (autore tra l’altro della Praxis
confessarii ad bene excipiendas Confessiones),
il cui positivo riscontro pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si
pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).
Per di
più, l’aspra ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso
sarebbero dei rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità,
addirittura dei «farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito
una delle due opinioni emerse nella discussione sinodale – quella dei
riformisti – , ma ha anche tolto ogni
credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate
obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era
addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!).
Per di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio,
molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa
esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè
permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano
consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi canoniche vigenti.
Allo
stesso tempo, il cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider
dichiaravano ai giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non
era da prendere come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti
dottrinali confusi o addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione
pubblica cattolica è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare
la dottrina cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità
dello stato di grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta)
“rivoluzione” dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa
Francesco sia stato ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato
l’eterodossia, mentre altri hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa
aveva messo da parte l’ortodossia dei conservatori per concedere piena libertà
alle dottrine teologiche più avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla
mentalità dell’uomo di oggi.
La Chiesa,
nella sua storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia
ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di
pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco
certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica
che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine,
nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta
le coscienze di tanti.
Questa
confusione e questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato
- forse voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile -
dell’ambiguità strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il
quale io ne parlo, evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di
rispetto al Magistero, né per prendere le parti dei conservatori contro i
progressisti nella disputa ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e
tanto meno per voler contrapporre alla dottrina del Papa - che dovrebbe
esprimere e interpretare con autorità divina il dogma della fede - una mia
opinabile dottrina teologica: ma solo per responsabilità pastorale nei
confronti dei fedeli che da siffatta situazione non possono non subire danni
gravissimi nella loro coscienza di fede, sia riguardo al dovere di obbedire
all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda espressamente e lecitamente, sia
riguardo al dovere di rispettare la natura divina dei segni sacramentali,
evitando ogni rischio di profanazione e di sacrilegio.
A voi che
siete qui presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con
un accorato appello: non pensate che il
documento pontifico, in materia di Sacramenti (Matrimonio, Penitenza,
Eucaristia), vi obblighi a credere
qualcosa di diverso da quello che avete sempre creduto, né di fare qualcosa di diverso da quello che
avete sempre fatto. Anzi, vi dirò di più. L’esortazione apostolica non è una
nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno nella Chiesa cattolica;
è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un incoraggiamento, rivolto ai
Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il loro ministero con attenzione
alle situazioni specifiche dei loro fedeli, aiutandoli anche con la direzione
spirituale personale (il “foro interno”) e sempre con spirito di misericordia.
Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura d’anime a dover applicare al loro
quotidiano servizio (catechesi e amministrazione dei sacramenti) i criteri
indicati dal Papa. Sono io, e con me tutti i miei confratelli nel sacerdozio,
sotto la guida del rispettivo vescovo, a dover recepire e attuare questi
consigli pastorali, senza mettere da parte - nessuno me lo può chiedere, e il
Papa non me lo ha chiesto - i criteri teologico-morali e le norme canoniche vigenti,
ossia i criteri di base, sempre validi, con i quali ho esercitato il ministero
della Confessione fino a oggi, nei miei 55 anni di sacerdozio. Questi criteri
mi impediscono di fraintendere (o di intendere secondo l’interpretazione
dei “riformisti e progressisti”) alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo
con voi, per poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di
vista di una prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali
definitivamente stabiliti dalla Chiesa.
Leggo
innanzitutto il § 305:
«A
causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una
situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che
non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e
si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale
scopo l’aiuto della Chiesa»
(Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia,
§ 305).
A
questo punto il documento è corredato da una nota:
«In
certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il
confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della
misericordia del Signore” […] Ugualmente
segnalo che l’Eucaristia “non
è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” [Esort.
Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre
2013, § 44 e 47: AAS 105, 2013, pp. 1038-1039]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 305, nota n. 351).
Il
paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII dedicato alle «situazioni irregolari», cioè
alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio
dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo si fa
riferimento all’ipotesi che ci si trovi di fronte a una situazione
oggettivamente disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma il
cui soggetto (il fedele cattolico divorziato risposato) dia a intendere di non
esserne cosciente. Fatta tale ipotesi, il Papa suggerisce, come strumento
pastorale per questa condizione particolare, l’amministrazione dei sacramenti
della Riconciliazione e dell’Eucarestia. Il suggerimento ha senso solo se nel
caso in questione il divorziato-risposato sia riconosciuto come trovandosi in stato di grazia perché privo di
responsabilità soggettiva della sua condizione. Mancando la piena avvertenza
sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale, ergo il divorziato risposato potrebbe
comunicarsi. Che il Papa intenda insinuare una soluzione del genere sembra
confermato da un altro passaggio del documento:
«Non
è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione
cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia
santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza
della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande
difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” [Giovanni
Paolo II, Esort. ap. Familiaris
consortio, 22 novembre 1981, § 33: AAS 74, 1982, p. 121]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 301).
In
altri termini, secondo questi suggerimenti papali, il confessore potrebbe
giudicare non del tutto responsabile il penitente se fosse in grado di verificare
in “foro interno” e caso per caso che
il penitente versa in uno stato di errore in merito alla sua condizione. Ma come
è possibile effettuare tale verifica se non ricorrendo alla tradizionale “praxis confessariorum”? Si è sempre
saputo che la cosiddetta «ignoranza invincibile» deve essere responsabilmente accertata
dal ministro della Penitenza; costui, peraltro, tenendo presente che tale ignoranza
può anche essere colpevole (la ripetizione di peccati consapevolmente commessi
può condurre la persona all’ottundimento della coscienza), può arrivare alla
convinzione che il soggetto in questione non può essere considerato dalla
Chiesa in grazia di Dio. E poi, anche ammesso che l’ignoranza invincibile di
quel dato soggetto sia davvero tale da non renderlo soggettivamente colpevole (ipotesi
che io ritengo meramente teorica e non riscontrabile nella vita reale dei fedeli
che frequentano i sacramenti), ogni sacerdote sa bene che ciò che egli è
chiamato a giudicare (nel tribunale
della Penitenza il confessore è il giudice per conto della Chiesa) non è la coscienza del penitente, e tanto meno
l’azione della grazia in essa, ma
solo le manifestazioni esterne del
pentimento e della volontà di rimediare al male commesso, in relazione alla situazione
(esterna, talvolta anche pubblica) del penitente. Se tali rilevamenti portano
il confessore a concludere che non è possibile assolvere la tale persona, egli
avrà cura di spiegare con la massima delicatezza al penitente che spetta a lui
impegnarsi a percorrere fino in fondo la strada della conversione, e che nel
frattempo non gli è consentito di fare la Comunione. Gli spiegherà anche che
ciò che non lo rende ancora “degno” della Comunione eucaristica è la sua condizione
esterna, visibile, indice delle sue ancora imperfette condizioni interiori: ricevere
sacramentalmente Cristo esige una condizione della vita personale che non sia oggettivamente
in contraddizione con la santità di Cristo.
Sicché
ogni sacerdote che sia davvero responsabile, se chiamato dal vescovo o dal
fedele stesso a dare un suo giudizio in merito, non consiglierà mai ai
conviventi e ai divorziati-risposati che non vivono castamente (o che vivono
castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione perché su di loro
non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla Comunione, perché
tali condizioni sono oggettivamente contrarie alla volontà di Dio, ossia alla
sua misericordia verso noi uomini. Il sacerdote deve illuminare la coscienza
del penitente ricordandogli che la nostra vita personale e sociale deve essere
conforme all’ordo amoris,
un sapientissimo orientamento di ogni cosa alla gloria del Creatore e al
bene delle creature. La legge naturale e la rivelazione divina ci fanno sapere,
con certezza di ragione e di fede, che
vi sono atti che sono di per sé contrastanti con questo ordo, ed è appunto il caso dei rapporti sessuali al di
fuori del rapporto di coniugio: tali atti non sono conformi al piano di Dio -
non sono cioè santificabili e santificanti - e di conseguenza pongono la
persona che li compie volontariamente in una condizione che di fatto è incompatibile
con all’ordo amoris,
al di là della maggiore o minore consapevolezza della loro gravità. Ciò comporta
per il confessore - diretto responsabile del culto divino nella celebrazione
della Penitenza - il gravissimo dovere ministeriale di non assolvere il fedele
“divorziato-risposato” che non intendesse di fatto cambiare la sua situazione. Per
amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero infatti le condizioni
essenziali, ossia il sincero pentimento
e la volontà di riparazione.
Il
pentimento non risulta esserci quando il fedele non dichiara al confessore di voler
uscire dal proprio stato di “divorziato-risposato” troncando il rapporto con il
(o la) convivente e adoperandosi per tornare con il legittimo consorte, oppure
quando non si propone di riparare ai danni arrecati al coniuge legittimo, alla
eventuale prole, al convivente che ha indotto in peccato e all’intera comunità
cristiana a cui ha recato scandalo. Mancando queste condizioni - le quali, dal
punto di vista teologico, costituiscono la “materia” del sacramento della
Penitenza - il confessore è tenuto a negare, per il momento, l’assoluzione, che
non sarebbe un atto di misericordia ma un inganno (perché l’assoluzione sarebbe
illecita, e soprattutto invalida).
Antonio Livi