24 aprile 2010

Intervista a Mons. Nicola Bux

La redazione di Disputationes Theologicae, nel quadro di un approfondimento del dibattito sulla liturgia e sulla cosiddetta “riforma della riforma”, ha intervistato uno dei più noti liturgisti: Mons. Nicola Bux. Nato nel 1947, ordinato sacerdote nel 1975, ha effettuato ricerche all’Ecumenical Institute, al Biblicum di Gerusalemme e all’Istituto Sant’Anselmo di Roma. Professore di teologia sacramentaria alla Facoltà teologica di Bari è tra i più stimati collaboratori del Santo Padre Benedetto XVI. Autore di numerosissime pubblicazioni di teologia dogmatica e liturgica ha recentemente dato alle stampe il noto testo “La Riforma di Benedetto XVI”. Mons. Bux è oggi Consultore delle Congregazioni della Fede e dei Santi, nonchè dell’Ufficio per le celebrazioni pontificie. E’ consulente della rivista “Communio” oltre ad essere uno specialista della liturgia orientale.




In foto: Mons. Nicola Bux

Monsignore lei è professore di teologia sacramentarla ed è anche additato come uno degli esperti di liturgia più vicini al Papa; un segno che non si può parlare di liturgia senza dottrina?
Notoriamente la liturgia appartiene al dogma della Chiesa. Tutti sanno che dalla fede della Chiesa si giunge alla liturgia e dalla preghiera si risale al dogma. Tutti conoscono l’adagio lex orandi lex credendi. E’ dal modo di pregare che si capisce in cosa noi crediamo, ma è anche dal modo di credere che deriva il modo di pregare. E’ quel che è stato ripreso e sapientemente sviluppato dall’enciclica Mediator Dei del venerabile Servo di Dio Pio XII.

    Ormai anche i più tenaci fautori di una “rivoluzione permanente” in liturgia sembrano cedere davanti alle sagge argomentazioni del Papa, delle quali c’è un’eco chiarissima nel suo libro. Siamo davanti ad una nuova (o antica se preferisce) visione della liturgia?
    La liturgia è per sua natura d’istituzione divina, essa si impernia su parti immutabili volute dal suo Divin Fondatore. Proprio in ragione di questo suo fondamento si può affermare che la liturgia è di “diritto divino”. Gli orientali non a caso usano il termine di “Divina liturgia”, poiché essa è opera di Dio, “opus Dei” dice San Benedetto. La liturgia non è una cosa umana. Nel documento conciliare sulla liturgia, al n. 22 § 3, si dice chiaramente che nessuno, anche se sacerdote, può aggiungere togliere o mutare alcunché. Il motivo? La liturgia appartiene al Signore. Durante la Quaresima abbiamo letto i passi del Deuteronomio nei quali Dio stesso stabilisce persino la suppellettile per il culto; nel Nuovo Testamento è Gesù stesso che dice ai discepoli dove preparare la cena. Dio ha il diritto di essere adorato come Lui vuole e non come noi vogliamo. Altrimenti cadiamo in un culto “idolatrico”, nel senso proprio del termine greco, cioè un culto fatto a nostra immagine. Quando la liturgia rispecchia i gusti e le tendenze creative del sacerdote o di un gruppo di laici diviene “idolatrica”. Il culto cattolico è in spirito e verità, perchè è rivolto al Padre, nello Spirito Santo, ma deve passare da Gesù Cristo, deve passare dalla Verità. Perciò bisogna riscoprire che Dio ha il diritto di essere adorato come Lui ha stabilito. Le forme rituali non sono qualcosa da “interpretare”, poiché esse sono esito della fede pensata e diventata in certo senso cultura della Chiesa. La Chiesa si è sempre preoccupata che i riti non fossero il prodotto di gusti soggettivi, ma appunto l’espressione della Chiesa intera, cioè “cattolica”. La liturgia è cattolica, universale. Quindi anche in occasione di una celebrazione particolare o in un luogo particolare, non si può pensare di celebrare in contrasto con la fisionomia “cattolica” della liturgia.

    Purtroppo siamo davanti ad un’attitudine del clero che, pur non negando apertamente l’efficacia dei sacramenti, trascura troppo spesso l’aspetto cosiddetto dell’ “ex opere operato” del sacramento, che, così facendo è ridotto quasi a solo “simbolo”. La causa è forse anche nella perdita della “ritualità” tradizionale?
    Causa ne è soprattutto la dimenticanza che il culto è reso a Dio presente, a Dio operante e non ad un Dio immaginario, cioè Gesù Signore. Il n. 7 di Sacrosanctum Concilium ci spiega anche i modi di questa presenza. Tale articolo è preso quasi di peso dalla Mediator Dei (con l’aggiunta della presenza nella Parola). Vi si spiega chiaramente che la liturgia ha la sua ragion d’essere perché Dio è presente, sennò diventa autoreferenziale, diventa vuota.
    La dimenticanza, la sottovalutazione della presenza del Signore, maxime nell’Eucaristia, dov’è presente veramente, realmente e sostanzialmente, è causa dello scivolamento di cui lei parla. Con questa trascuranza si arriva a definire la liturgia come insieme di simboli, segni, come oggi si sente dire; in questo quadro, “segno” viene inteso solo come “rimanda ad altro”, non c’è l’idea che il segno è tutt’uno con quel che significa. Qui si entra nel sacramento. Quando questo aspetto si perde i sacramenti sono ridotti a puri simboli, non si parla più di “efficacia”, degli effetti che producono; non è più il Signore che “fa”, che “opera”, per mezzo del sacramenti. Questo è il significato dell’espressione classica “ex opere operato”, un po’ strana, ma che significa l’operatività del sacramento a partire da Colui che in esso opera. Farò l’esempio di un farmaco: all’apparenza vedi una fiala o una pasticca o un liquido, ma non sono solo il simbolo della cura che vogliono apportare, perché se li assumiamo ci curano e guariscono, cioè se ne vedono gli effetti. L’autore di questo effetto è il Signore presente e operante nel rito sacramentale. S. Leone Magno, citato nel Catechismo della Chiesa cattolica, dice che dopo l’Ascensione tutto ciò che del Signore era visibile sulla terra è passato nei sacramenti. Così oggi per noi il Signore continua a essere presente e visibile. In questa luce bisogna comprendere San Tommaso quando si esprime parlando di “materia” del sacramento. Se non torniamo a questo tipo di espressione realistica non capiamo i sacramenti. La presenza divina non è solo qualcosa da intuire “simbolicamente”, ma è qualcosa che tocca l’uomo per mezzo del sacramento, è qualcosa che agisce. Io stesso posso attestare e con me tanti sacerdoti, della guarigione degli infermi successivamente all’unzione, ma anche della guarigione dell’anima dopo la confessione o grazie alla frequenza dell’eucaristia. I sacramenti hanno effetti, hanno delle conseguenze in ragione della causa. Sono le conseguenze della presenza divina, che è ciò che opera nella divina liturgia. Ha detto il Papa ai parroci di Roma che il Sacramento è introdurre il nostro essere nell’essere di Cristo, nell’essere divino.

    Aldilà di certi utopisti che, con scarso senso pastorale, vorrebbero una restaurazione di tutto e subito, dobbiamo domandarci come si può agire dolcemente, ma fermamente, nel migliorare con gradualità certi aspetti della liturgia. Come agire in questo processo tanto necessario quanto lungo? Come adattarsi alla realtà senza mille compromessi?
    Bisogna tener conto del momento storico che viviamo, esso registra una crisi generale dell’autorità, sia essa del padre, dello Stato, della Chiesa (e nella Chiesa); come dicevamo si rischia di finire in una concezione “fai da te”. Siamo oggi in una diffusa anomia (assenza di legge), sebbene tutti ricorrano alla legge quando i propri diritti sono conculcati.
    Dei diritti di Dio invece ce ne scordiamo sempre. Come si può chiedere l’osservanza delle norme liturgiche se prima non si spiega cos’è lo “ius divinum” della liturgia? Oggi nessuno lo sa più. Prima di tutto bisogna far capire il senso delle norme. E’ un po’ come in morale, la determinazione di una legge si fonda prima sulla comprensione dei suoi principi, ed è noto che quando si parla di liturgia e di sacramenti vi sono i risvolti morali. Prima, dicevo, bisogna capire che il senso delle norme deriva dalla convinzione che la “prima norma” è adorare Dio - Adorerai il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio all’infuori di Me – non si può fare un culto a propria immagine, altrimenti si deforma Dio. Oggi non solo ci immaginiamo un dio e poi inventiamo il culto ad esso, ma addirittura immaginiamo un culto sul quale ci inventiamo il dio. L’idolatria significa “idea distorta di Dio”. Questa è realtà che ci circonda.
    Il Papa Benedetto XVI, nella lettera ai Vescovi in cui spiega il senso della revoca delle scomuniche ai Vescovi consacrati da Mons. Lefebvre, voleva far capire a chi lo rimproverava di occuparsi di problemi secondari come quelli relativi alla liturgia, che in un momento in cui il senso della fede e del sacro si sta spegnendo ovunque, è necessario che proprio nella liturgia si trovi la forma privilegiata di incontrare Dio. La liturgia è e resta il luogo più idoneo per incontrare Dio e perciò il Papa, occupandosi di essa, non sta trattando problemi secondari, ma questioni primarie. Se la liturgia parla di cose mondane come si fa ad aiutare l’uomo?
    Agli “utopisti”, bisogna ricordare che ci vuole quella che Benedetto XVI chiama: “la pazienza dell’Amore”.

    L’offertorio antico, parlava di Dio all’uomo con l’eloquenza di espressioni profonde sul valore sacrificale, sulla natura della Messa, come sacrificio offerto a Dio. Si potrebbe pensare ad una correzione in questo senso del nuovo rito?
    E’ importante che sia conosciuta la Messa antica, detta anche tridentina, ma che è più opportuno chiamare “di San Gregorio Magno”, come ha recentemente detto Martin Mosebach. Essa ha preso forma già sotto Papa Damaso e poi appunto Gregorio, non con San Pio V, il quale ha cercato di riordinare e codificare, prendendo atto degli arricchimenti dei secoli precedenti e tralasciando quanto obsoleto. Con questa premessa va conosciuta anzitutto questa Messa, di cui l’offertorio è parte integrante. Ci sono stati molti lavori di grandi studiosi in questo senso e molti si sono interrogati sull’opportunità di reintroduzione dell’antico offertorio, cui lei fa cenno. Tuttavia solo la Sede Apostolica ha autorità per operare in tal senso. E’ vero che la logica che ha seguito il riordino della liturgia dopo il concilio Vaticano II ha portato a semplificare l’offertorio, perché si riteneva che ci fossero più formule di preghiere offertoriali; così facendo si introdussero le due formule di benedizione di sapore giudaico, è rimasta la secreta diventata preghiera “sulle offerte” e l’orate fratres e si ritennero più che sufficienti. Per la verità questa semplicità, vista come un ritorno alla purezza antica, configge con la tradizione liturgica romana, con quella bizantina e con le altre liturgie orientali e occidentali. La struttura dell’offertorio era vista dai grandi commentatori e teologi del Medio Evo come l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, che va ad immolarsi in offerta sacrificale. Per questo le offerte erano già dette “sante”, e l’offertorio aveva una grande importanza. La successiva semplificazione di cui ho parlato ha fatto sì che oggi molti chiedano il ritorno delle ricche e belle preghiere del “suscipe sancte Pater” e del “suscipe Sancta Trinitas”, solo per citarne alcune. Ma sarà attraverso una più larga diffusione della Messa antica che questo “contagio” dell’antico sul nuovo sarà possibile. Perciò reintrodurre la Messa “classica”, mi si passi l’espressione, può costituire un fattore di grande arricchimento. Bisogna facilitare una celebrazione festiva regolare della Messa tradizionale almeno in ogni Cattedrale del mondo, ma anche in ogni parrocchia: questo aiuterà i fedeli a conoscere il latino e a sentirsi parte della Chiesa cattolica, e praticamente li aiuterà a partecipare alle Messe nei raduni ai santuari internazionali. Nel contempo bisogna anche evitare delle reintroduzioni decontestualizzate, voglio dire che c’è una ritualità legata ai significati espressi, che non può essere reintrodotta semplicemente inserendo una preghiera, si tratta di un lavoro più complesso.

    La gestualità e l’orientamento certo hanno una grande importanza, ciò che il fedele vede è riflesso di una realtà invisibile. La croce al centro dell’altare può essere il modo per ricordare cosa sia la Messa?
    In foto: il Santo Padre celebra verso la croce

    La croce al centro dell’altare è il modo per ricordare cos’è la Messa. Non parlo di una croce “minima”, ma di una croce tale che possa essere vista, la croce deve essere di dimensioni proporzionate allo spazio ecclesiale. Essa deve tornare al centro, in asse con l’altare, deve poter essere vista da tutti. Deve essere il punto d’incrocio dello sguardo dei fedeli e dello sguardo del sacerdote, dice Joseph Ratzinger nella “Introduzione allo spirito della liturgia”. Deve essere al centro a prescindere dalla celebrazione, anche se questa avviene “rivolti al popolo”. Insisto su una croce ben visibile, altrimenti, a cosa serve un’immagine che non è fruibile adeguatamente? Le immagini rimandano al prototipo. Sappiamo tutti che c’è stata anche una posizione aniconica, per esempio, Epifanio di Salamina, come pure i cisterciensi, ma l’iconodulia ha poi prevalso col Niceno II del 787, in base a ciò che diceva San Giovanni Damasceno: l’immagine rimanda al prototipo. Ciò vale ancor più oggi in quella che si chiama civiltà dell’immagine. In un frangente in cui la visione è divenuta strumento privilegiato per i nostri contemporanei, non si può esporre lateralmente una piccola croce o un abbozzo illeggibile di essa, ma è necessario che la croce, con il crocifisso, sia ben visibile sull’altare, da qualsiasi angolo lo si guardi.

    Davanti alla riscoperta delle esigenze di cui ci ha parlato c’è comunque un difficile passo che è quello delle scelte pratiche. Come muoversi?
    A mio sommesso avviso la priorità è far capire il senso del divino. L’uomo cerca Dio, cerca il sacro e ciò che ne è segno, nell’esigenza naturale di rivolgersi a Dio e di venerarlo, si cerca l’incontro con Dio nelle forme sacre del rito. Quando si smarrisce la vera sacralità del culto cristiano l’uomo continua ad andare a tastoni, ma in modo distorto perché è come smarrito. Come allora può l’uomo rispondere correttamente a questa esigenza? Anzitutto deve poter incontrare nella Chiesa ciò che è la definizione per eccellenza del sacro: Gesù eucaristico. Il Tabernacolo deve tornare al centro. E’ vero storicamente, nelle grandi basiliche o nella Cattedrali il tabernacolo era in cappelle laterali. Sappiamo bene che con la riforma tridentina si preferì rimettere al centro il tabernacolo, anche per contrastare gli errori protestanti sulla presenza vera, reale e sostanziale del Signore. Ma è anche vero che oggi la mentalità che ci circonda, non contesta solo la presenza reale, bensì contesta la presenza del divino. Nella religione naturalmente l’uomo cerca l’incontro col divino, ma questa presenza del divino, non può essere ridotta a qualcosa di puramente spirituale. Questa presenza va “toccata” e ciò non si fa con un libro, non si può parlare di presenza del divino solo nei termini relativi alla lettura delle Sacre Scritture. Certo quando la Parola di Dio è proclamata si può giustamente parlare di presenza divina, ma è una presenza spirituale, non è la presenza vera, reale e sostanziale dell’Eucaristia. Di qui l’importanza del ritorno alla centralità del tabernacolo e con esso alla centralità del Corpo di Cristo presente. Il posto centrale non può essere la sede del celebrante, non è un uomo che è al centro della nostra fede, ma è Gesù nell’Eucaristia. Altrimenti si finisce per paragonare la chiesa ad un’aula, ad un tribunale di questo mondo, al cui centro siede un uomo.
    Il sacerdote è ministro non può essere al centro, al centro c’è Cristo-eucaristia, c’è il tabernacolo, c’è la croce. Da lì si deve ripartire. Altrimenti si perde il senso del divino. Il tabernacolo è ciò che deve attirare quale centro in una chiesa.

    Il Card. Castrillon nell’omelia del 24 settembre 2007 a Saint Eloi diceva che la Chiesa ha bisogno di istituti “specializzati” nella liturgia tradizionale. Ritiene anche lei che gli istituti oggi legati all’Ecclesia Dei possano avere un ruolo nella formazione dei sacerdoti o nella riscoperta delle ricchezze della Tradizione?
    Certamente! Questi Istituti esercitano un carisma, e un carisma è qualcosa che è nella Chiesa a servizio della Chiesa. Una diocesi può trarre grande giovamento dal fatto di avvalersi del loro aiuto. Cosa sarebbe stato il Francescanesimo se il Papa non l’avesse riconosciuto e messo a disposizione per il bene di tutta la Chiesa?



    a cura di Don Stefano Carusi