13 maggio 2023

Il vero motivo per cui la Messa tradizionale è “problematica”

Detto concisamente da fonte autorevolissima

13 maggio 2023, San Roberto Bellarmino e Madonna di Fatima




«Nella concreta attuazione della riforma liturgica, le tesi di Lutero hanno silenziosamente giocato un certo ruolo, cosicché in alcuni ambienti si è potuto sostenere che il decreto del Concilio di Trento sul sacrificio della Messa fosse stato tacitamente abrogato. La durezza dell’opposizione contro l’ammissibilità dell’antica liturgia in parte si basava certamente anche sul fatto che in essa si vedeva operare una concezione non più accettabile di sacrificio ed espiazione».

(Sua Santità Benedetto XVI, pag. 98 dell’edizione italiana del libro postumo)



Comunità San Gregorio Magno

25 marzo 2023

Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi (Terza ed Ultima Parte)

Gli Usi Civici, le Comunanze agrarie, le Confraternite


25 marzo 2023, Annunciazione della Beata Vergine Maria


Qui la Prima e la Seconda Parte


Gli Usi civici e le Comunanze agrarie, tutela dei poveri

Nel multiforme panorama, offerto dallo Stato Pontificio, la ripartizione della proprietà terriera aveva molti tratti in comune con contemporanee amministrazioni d’Ancien Régime, ma, date le peculiarità del territorio, mostrava in alcuni casi sviluppi singolari.

Nello studio dell’organizzazione degli usi civici e delle terre di proprietà collettiva bisogna osservare che una trattazione generale si rivela riduttiva, le citate diversità ambientali avevano sortito un adattamento degli usi alla geografia.

Tutto il territorio dello Stato Pontificio vedeva il riconoscimento del diritto a possedere collettivamente; ampie estensioni di terra venivano godute da tutti gli abitanti della comunità, vi esercitavano il diritto di pascere, di fare legna, in alcuni casi di seminare per il fabbisogno familiare. Questa particolare forma di conduzione agraria doveva la sua esistenza alla necessità di tutelare 1’esistenza dei poveri. Permetteva, in una società agricola, ai nullatenenti di sopravvivere, di possedere piccole greggi o qualche armento da pascere nelle terre comuni, di scaldarsi, di cucinare e di fabbricare con il legname delle selve pubbliche, di cacciare e pescare in monti e laghi non soggetti ad una legislazione solo privatistica dei beni.

Nel tracciare la storia di questi diritti alcuni ne fanno risalire l’origine alla cultura feudale, altri si spingono a ricollegarli alle transumanze delle greggi dei popoli dell’Italia preromana; ma l’ipotesi più ragionevole appare la più ovvia, tenuta ab antiquo e formulata dal Cardinal Giovanni Battista de Luca1 agli inizi dell’Ottocento: la ragion d’essere dell’esistenza delle proprietà comuni, accanto a quelle private, è insita nel diritto naturale e ha origini remote, da quando gli uomini nella notte dei tempi avvertirono il bisogno della proprietà privata, ma riconobbero la necessità di un uso collettivo di alcuni beni. La concezione del Cardinale si sposa con la dottrina cristiana sulle ricchezze, donate da Dio agli uomini per vivere e prosperare, ma non perché pochi se ne impadroniscano in un uso a proprio esclusivo vantaggio.

I primi documenti, che attestano l’esistenza di beni comuni nello Stato della Chiesa, fanno riferimento al sec XIII, riguardano Sezze, Perugia, Orvieto; a Velletri l’emergere delle strutture del Comune è testimoniato dalla presenza dei “procuratores silvae” che amministrano le foreste comunali2. Dall’altro versante dello Stato, a Bolognola e Visso, nell’Appennino umbro-marchigiano, la proprietà collettiva, nel caso del primo centro attestata da un documento del 13533, « copre fino al 70 % del territorio comunale, costituito da foreste e pascoli; l’allevamento degli ovini e lo sfruttamento dei boschi, che rappresentano la risorsa principale delle popolazioni montanare, si basano essenzialmente sulla proprietà collettiva »4; questo tipo di sfruttamento è diffuso in molte località dell’Italia centrale e permette ai meno abbienti un diffuso allevamento ovino e suino5. Spesso lo sfruttamento regolamentato di queste risorse è alla base della nascita di una coscienza di comunità, che investirà anche abitati di dimensioni modestissime e concorrerà alla nascita di nuovi comuni.

25 gennaio 2023

A proposito del Cardinal Ricard…

 E la sua vicinanza alla Massoneria?

25 gennaio 2022, Conversione di San Paolo


Copertina di "Franc-Maçonnerie magazine" n. 26 sett.-ott. 2013


La nostra rivista non è propensa a correr dietro a certe morbosità della stampa su certe personali debolezze del clero, sulle quali, qualora si appurasse fossero vere, andrebbe maggiormente tenuta in considerazione la saggia posizione di san Giovanni Bosco. Sollecitati tuttavia da un nostro lettore in merito ad una vicenda passata ammessa dal Card. Jean-Pierre Ricard, per anni influente Presidente della Conferenza Episcopale di Francia, ci sembra sia doveroso fare una riflessione. Sappiamo che la stampa mondano-massonica ama amplificare, demagogicamente, le vicende che ruotano attorno al sesto comandamento e che, pur essendo ultralibertina quando i protagonisti delle vicende sono altri, non lascia certo che le vicende che investono il clero passino inosservate. Recentemente ha imbrattato l’immagine della Chiesa di Francia, attraversata anche da altri scandali il cui martellamento mediatico supera di gran lunga la realtà.

Che siano aspetti, laddove non si trattasse di menzogne, che hanno una loro reale intrinseca gravità morale, è evidente. E’ anche vero che fino a quando qualcuno non si incarica di diffonderli non comportano per forza di cose lo scandalo pubblico… A questo proposito una reprimenda andrebbe fatta anche a certo mondo mediatico cattolico o anche “cattolico-tradizionalista” che appare succube di criteri mondani e conformistici nel bearsi di scandali che investono certe autorità, seppur di tendenza modernista. Il nostro punto di vista è che il dibattito andrebbe mantenuto sul piano dottrinale, giacché quell’altro è scivoloso e poi “che colui che sta in piedi si guardi dal non cadere”…nessun ambiente essendo esente dalle conseguenze del peccato originale ed essendo assai poco cavalleresco impostare il livello del confronto su questo piano. Si aggiunga poi che certe tematiche sono già ampiamente additate alla pubblica riprovazione, mentre altrove regna l’oblio.

Purtroppo però il puritanesimo ipocrita dei Protestanti e dell’imperante cultura anglo-sassone che ormai ci domina, ha stravolto anche il modo di pensare di chi si crede di mentalità tradizionale, mettendo al primo posto i peccati contro il sesto comandamento (o meglio, alcuni dei peccati contro il sesto comandamento), perché ormai nessuno crede più che ci siano peccati contro la fede. Protestantesimo e cattolicesimo modernista infatti con il loro soggettivismo pensano sia più grave un “comportamento inappropriato” (sembra che, in realtà, sia questa l’accusa al Cardinale) che non la negazione di una verità di fede. Anche perché, se ognuno è libero di costruirsi la propria fede, tutti i concetti ad essa legati sono relativi e soggettivi e di peccato contro la fede non se ne può più nemmeno parlare.

31 dicembre 2022

In morte di Sua Santità Benedetto XVI


All'annunzio della morte di Sua Santità Benedetto XVI invitiamo i nostri lettori a levare ferventi preghiere per la Santa Chiesa e alla recita del De Profundis per il riposo della Sua anima.


De profùndis clamàvi ad te, Dòmine;

Dòmine, exàudi vocem meam.

Fiant àures tuae intendèntes

in vocem deprecatiònis meae.


Si iniquitàtes observàveris, Dòmine,

Dòmine, quis sustinèbit?

Quia apud te propitiàtio est

et propter legem tuam sustìnui te, Dòmine.


Sustìnuit ànima mea in verbo ejus,

speràvit ànima mea in Dòmino.


A custòdia matutìna usque ad noctem,

speret Ìsraël in Dòmino,

quia apud Dòminum misericòrdia,

et copiòsa apud eum redèmptio.

Et ipse rèdimet Ìsraël

ex òmnibus iniquitàtibus ejus.


La Redazione di Disputationes Theologicae


18 novembre 2022

Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi (Seconda Parte)

 Città e periferie pontificie: una sovranità mediata

18 novembre 2022, Dedicazione delle Basiliche di S. Pietro e S. Paolo


Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, Siena 

Parete Est (Effetti del Buon Governo in città e in campagna), le mura aperte di Siena, tra città e campagna.


Per leggere la Prima Parte cliccare qui.

Durante i secoli XI-XIII si assisté al diffuso sorgere delle autonomie comunali, i cui statuti ebbero quasi sempre il sopravvento sugli ordinamenti feudali. Giova rammentare che la tradizione urbanocentrica dell’Italia non era mai venuta meno e la densità di sedi vescovili, quindi di città, era particolarmente alta proprio nell'Italia centrale[1]. Nel periodo in questione i Papi non hanno il pieno controllo del territorio e, grazie all’esercizio di una «autorità mediata attraverso comunità e istituzioni giuridiche che insistono, a loro volta, sul territorio e che hanno col potere centrale (...) rapporti molto diversificati implicanti comunque una qualche misura di bilateralità»[2], i Comuni prosperano e si innesca «un processo di ricostruzione di una territorialità imperniata sulla città, che non ha precisi termini di paragone nelle altre aree d’Europa»[3].

 

Il consolidamento dello Stato ecclesiastico vedrà, per citare esempi significativi, l’impegno di Gregorio VII, la risolutezza di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, «ma gli Stati cittadini - si constata - sono piuttosto inglobati negli stati regionali che non sussunti e trasformati; gli ordinamenti territoriali di comunità di valle, di centri minori, di signorie territoriali sono rispettati da un potere politico centrale che ha un atteggiamento costatativo nei confronti delle istituzioni assise sul territorio, prende atto della loro esistenza, ne assume la tutela (“il sovrano tutore”)»[4]. Nel processo di rafforzamento degli Stati regionali non si sconvolge la geografia politica preesistente, ma la si rispetta e le si riconosce una funzione fondamentale, rispettando quell’idea di sovranità tipica del Medioevo, che cede ai “corpi intermedi” ampi poteri: «nello Stato Pontificio la territorialità delle città soggette (soggette ma ancora e sempre capitali provinciali, con larghe competenze in ambito giurisdizionale e fiscale) mantiene un peso molto rilevante, destinato a perdurare per molti aspetti sino alla fine dell’Ancien Régime»[5].

 

Nel 1309 ha inizio per la Chiesa il periodo della “cattività avignonese”. I Papi nella residenza coatta di Avignone devono sottostare alla pesante tutela della monarchia francese. Nelle maggiori città dell’Italia papale, sull’onda di una prassi diffusa, a profittare della situazione saranno alcune famiglie. I domini pontifici vedranno la fioritura di un numero straordinario di Signorie che a vario titolo governeranno su territori di media estensione, improvvisandosi despoti di provincia o protestandosi, in ricerca di legittimazione, feudatari della Santa Sede. L’epoca signorile vedrà l’esasperazione dell’orgoglio delle città egemoni; la fierezza dei Comuni aveva dilagato nei secoli precedenti grazie alla tolleranza dei Pontefici, ora quei capoluoghi dall’esteso contado, che avevano eretto austeri Palazzi Civici per le proprie piazze e svettanti campanili per le proprie Cattedrali, si sentivano capitali a tutti gli effetti, seconde solo all’Urbe, alla quale riconoscevano, in ambito temporale, un primato quasi più d’onore che di fatto.

 

Nel 1353 giungeva nelle terre della Chiesa il cardinale Egidio d’Albornoz come legato e vicario generale di Innocenzo IV; il compito del porporato era di ricondurre all’obbedienza città e istituzioni che avevano eccessivamente abusato della lontananza dei Papi; nell’arco di due anni il legato riuscì nella straordinaria opera di portare al riconoscimento della supremazia pontificia nel Patrimonio toscano, nel Ducato di Spoleto e nella Marca. Grande merito dell’Albomoz e causa del suo rapido successo fu «un atteggiamento privo di rigidezze dottrinali. Non esisteva un modello fisso di subordinazione comunale»[6].

 

Nella primavera 1357 il Cardinale volle la promulgazione delle Constitutiones Aegidianae, «rimaste in vigore, almeno in parte, nello Stato della Chiesa sino al 1816»[7], il cui spirito avrebbe permeato tutti i futuri rapporti tra potere centrale e istituzioni periferiche. Le Constitutiones codificarono un modello d’ordinamento amministrativo che, nel lungo termine, avrebbe dato frutti abbondanti; il Cardinale non volle interferire nelle varie forme di governo locale con le quali si imbatteva; in assenza di precisi divieti o controindicazioni le differenziazioni, specie se derivanti da tradizioni specifiche, non erano viste come elemento d’intralcio al consolidamento dello Stato.

 

Leggendo il testo, si constata che «le laudabiles et antique consuetudines»[8] vennero affiancate alla legislazione albornoziana, a patto che non fossero «a jure prohibite»[9]. Allo stesso modo gli «statuta ordinamenta, decreta aut municipales leges»[10] furono accolti di buon grado, a patto che non fossero «contra libertatem ecclesiasticam vel contra constitutiones generales nostras»[11].

Veniva sanzionato il principio del rispetto degli usi locali e delle tradizioni, alla condizione che non andassero a ledere i diritti della Chiesa.