Testimonianze storiche ed
archeologiche
(I)
19 marzo 2015, San Giuseppe
Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.
Nell’analisi
che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la
celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei
territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di
verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura
presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale
nella disposizione dell’altare.
E’ bene
premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito
sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici -
tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico -
mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo
della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione
del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le
molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le
incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è
noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che,
almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa
la ragione che assistere ad introduzioni ex
nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza
della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca
della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla
base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di
un’assenza[1].
Per inciso giova anche rammentare che la
storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni
spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti
ha spesso falsato la panoramica e un
primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda
antichità problemi molto lontani dalle loro menti.
Status
quaestionis
La
preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la
successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per
impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un
mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il
rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di
quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio
del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si
rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3];
bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici
pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli
occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in
connessione all’altare.
E’ dato
assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la
maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più
discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di
introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa
uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e
Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria
e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore
sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata
emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.
In ambito
romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza
della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il
silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e
alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che
ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza (
per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare
il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica
di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6]
o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).
Lo studio
della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli
interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il
carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione
tardo-medievale della croce.
Difficile stabilire con certezza se una
rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in
epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non
direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col
rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato,
la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e
simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della
presenza della croce sull’altare.
Oriente e
Croce in alcune passiones e scritti
antichi
Gli atti
di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8],
offrono dei dati d’interesse; negli Acta
Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano
convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la
Croce: “[…] crucemque pinxerat in
orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum
Iesum Christum quotidie septies adorabant”[10]. Si
evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente
e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si
legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce
lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il
riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al
momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da
considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11];
abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso
al testo[12],
una prova di preghiera “versus crucem et
orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è
l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che
una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.
Il
rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto
dagli scritti di Tertulliano[13]
e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il
Dölger[14]
che il Gamber,[15]
che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran
parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con
la croce.
Nei secoli
V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la
Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et
delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in
terram et oravit coram illo”[16].
Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una
croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza
di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.
Il problema della croce sui muri è conosciuto
anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17].
Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso
Oriente in direzione di un muro[18].
L’eresiologia
fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto
della croce, pregavano verso Occidente
con un preciso intento polemico[19],
il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.
La
preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20],
avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto
passo di Matteo[21],
verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto
dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e
teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].
Nella
polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a
Frontone e riferito nell’ “Octavius”
di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione
che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias
fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod
merentur”[23].
Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali
si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel
testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse
appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo
conto della continuità con la prassi posteriore.
Alcune
testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber
Pontificalis di Roma e Ravenna
Risulta
piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani”[24]
così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche
costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25],
nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture
successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza
offerta dal Liber Pontificalis[26]
sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.
Le
donazioni costantiniane alla Basilica
Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]: sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a
sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato
numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli
altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse
compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori
dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in
proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente
propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in
uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai
vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe
conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il
dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in
epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali,
retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.
Sulla base
di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero
la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica
disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo
spazio intorno al Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio
presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito
che doveva compiersi al suo interno[29].
La
ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è
stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento,
fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il
ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile
immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in
diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero,
nella storia della Chiesa”[30].
La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle
reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle
quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul
lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la
cosiddetta “Pergula Vaticana”, è
rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una
croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia
decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo
contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo
liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva,
supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione
durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta
ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria
dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata
dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone
l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31].
L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si
celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi
del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio
presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che
si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la
liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio
privilegiato della celebrazione.
Un altro
nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed
altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nella Basilica Salvatoris e dall’epoca di Papa
Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie
e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo
essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce
gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un
relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del
Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano
entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e
quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti
verso un muro[32];
non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi
altari, ma è probabile che il celebrante
fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era
deposta.
Secondo il
Liber Pontificalis di Roma, le
donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si
susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona
alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al
corpo di S. Pietro[33],
un’altra dello stesso peso da collocare
“super locum Beati Pauli”[34];
leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit
crucem auream cum gemmis”[35];
all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri”[36];
interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare”[37];
lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem
(…) stat iuxta altare maiore”[38],
in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o
infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale
fu riargentata la “virga in qua cruce
continetur” e la quale “stat parte
dextra iuxta altare maiore”[39], la collocazione e la funzione di questo
elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce
processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che
necessitava di un supporto eventualmente fisso.
Le
donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a
ciascuno degli oratori della Basilica
Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni
Battista, una “confessio” con una
croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa
Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40]; per un altro Oratorio della Santa Croce,
quello della Basilica Sancti Petri,
Papa Simmaco dona una “confessionem et
crucem ex auro”[41].
Appare estremamente significativo che il Liber
Pontificalis parli di “confessionem
et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due
elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le
due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non
mancano donativi di croci per l’altare[42].
La
connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato
sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della
disposizione strettamente liturgica.
L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità
del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che
l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e
visibilità.
Nell’ambito
ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis
et margaritis ornavit”[43],
ricorre il termine “maiorem” ad
evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua
collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post
tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat”[44];
l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la
cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità
liturgica del manufatto metallico[45].
* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine
[1]
Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo
scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia
ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse
influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava
sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et
dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La
Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp.
349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine),
pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp.
387-453 ; Id., De la valeur
historique du dogme, in Bulletin de
littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp.
229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507.
Cfr. Pierre Gauthier, Newman et Blondel : tradition et
développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio
fidei, 147) ; Rèné Virgoulay,
Blondel face à l'historicisme :
Histoire et dogme, in De Renan à
Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode
historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. Il
problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel
(febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni
del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-Pierre Sardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la
France , 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel
con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.
[3] Marius Lepin,
L’idée du Sacrifice de la Messe , Parigi 1926, pp.
37-94.
[4]
Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine,
Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in Mario Righetti, Manuale di
storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di
taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi
riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene
essa mancasse di un solido fondamento archeologico.
[5] Michel Andrieu,
Les Ordines Romani du Haut Moyen Age
2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.
[6] Louis Grodecki,
Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.
[7]
Ibidem, p. 108, 109.
[8]
Bibliotheca Sanctorum, Roma
1961-1969, vol. VII, p. 864 s.
[9] Evodio Assemani,
Acta Hipparchi, Philothei et sociorum,
in Acta sanctorum martyrum orientalium et
occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.
[10]
Ibidem, p. 125.
[11]
Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945),
p. 52.
[12]
Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore
e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutis.
Gebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike,
Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA
115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens,
Sonnenkult und Kaisertum von den Severern
bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia
Einzelschriften 185).
[13] Tert., Apol.
XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).
[14] F.J. Dölger, Sol
Salutis.
[15] Klaus Gamber,
Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche
Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.
[16]
Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles
1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn
1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in
che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato
sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson,
La Croce, p. 53.
[17]
[Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).
[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).
[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL
1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.
[20]
E. Peterson, La Croce, p. 63.
[21]
Mt, 24, 30.
[22]
Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.
[23] Min. Fel., Oct.,
IX, 4 (ed. B.
Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma
1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann,
Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma
1992, pp. 59-60.
[24]
Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo,
Rocca San Casciano 1962, p. 24.
[25]
cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacra, passim.
[26]
Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp.
172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann,
GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno
evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà
terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e
medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit
Basilicam, Leuven 2004.
[27]
Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura
nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.
[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur
christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935, pp. 179-186.
[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica
constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur
Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss.
[30]
Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p.
327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un
cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978
(Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia
Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)
[31] S.
de Blaauw, Cultus et
Decor, t. 2, p. 470 e ss.
[32]
Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp.
566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno
di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.
[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.
[34] LP, 34, 21.
[35] LP, 62, 2.
[36] LP, 59, 2.
[37] LP, 98, 49 .
[38] LP, 98, 87.
[39]
LP, 105, 56.
[40]
LP, 48, 2-3.
[41]
LP, 53,7.
[42]
LP, 98, 50; 98, 86.
[43]
Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle
antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e
bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.
[44]
Ibidem.
[45]
G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di
Andrea Agnello”, in Corsi di cultura
sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.