21 dicembre 2016, San Tommaso Apostolo
Raffaello, San Leone Magno coi Santi Pietro e Paolo ferma gli Unni |
“Obbligo
d’accoglienza” dello straniero a qualsiasi costo anche contro il bene comune.
E’ il nuovo dogma, non rivelato da Dio, ma propagandato pressoché senza
distinzioni da tutte le centrali del potere massonico. E’ evidente che un cuore
cristiano, potendolo, presta soccorso a chi si trova in grave difficoltà, ma la
“religione dell’uomo” - che sembra ormai aver conquistato la quasi totalità dei
presidi cattolici - impone quello dell’accoglienza come un “imperativo
categorico” al quale si può solo “obbedire”. Quasi non è lecito riflettere alle
circostanze e all’opportunità di talune azioni che ufficialmente si presentano
come caritative, sotto pena di “scomunica mediatica”. Nolite cogitare.
Lo smarrimento è poi alimentato dalle dichiarazioni di
certe autorità ecclesiastiche che spesso propagandano la confusione, predicando
come dottrina cattolica concetti che sembrano piuttosto i frutti maturi del
peggior mondialismo che non della dottrina di Gesù Cristo.
Intorno alla singolare tipologia d’immigrazione dei
nostri giorni si aprono certo più questioni, che partono dal serio
discernimento sulla natura di questi flussi, all’aiuto doveroso verso i
fratelli, in primis verso i cristiani
d’Oriente; dalla necessità, per alcune realtà precise, di un possibile sostegno
in loco - anche militare -, alla
seria valutazione della presenza tra gli immigrati di molti lupi vestiti
d’agnelli. Né è da dimenticare la questione fondamentale che ruota attorno alla
nozione di “sovranità”, specie davanti a quella che si profila essere una vera
e propria “immigrazione di sostituzione”.
Di qui il problema di determinare se la questione vada trattata sotto il
profilo della mascherata invasione (più o meno islamica e più o meno violenta)
- ed in quel caso la trattazione imporrebbe una prospettiva di analisi sulla
liceità di far ricorso alla violenza per respingere la violenza, fino alla
trattazione della guerra giusta - oppure se la questione sia solo relativa a
quella che oggi con enfasi si chiama “accoglienza” e che si vorrebbe
un’emanazione alla carità cristiana.
Su quest’ultimo punto concentreremo l’attenzione in
quest’articolo, senza escludere di trattare del giusto ricorso alla forza in un
successivo intervento. Appare infatti urgente fare dapprima chiarezza su un
punto tra i più esposti alla contraffazione : l’esercizio (ordinato) della
carità cristiana.
Dopo un breve suggerimento di buon senso ai governanti,
tratto dalla riflessione scolastica, ripercorreremo rapidamente alcune
indicazioni sull’esercizio della carità ordinata, date da San Tommaso d’Aquino
nella Summa Theologiae,
particolarmente nella questione 26 della Secunda
Secundae, per cercare di trarne qualche conclusione anche d’ordine pratico.
Qual è infatti l’esercizio della vera carità in materia d’immigrazione?
La presenza di
stranieri in patria, una semplice riflessione sulla scorta di Aristotele
Prima di entrare in materia di virtù soprannaturali e
particolarmente di “carità ordinata” è utile riproporre un breve passaggio del De Regno, che ha il merito di chiarire
in poche righe la problematica dal punto di vista naturale. Nel XIII secolo la
questione degli stranieri, sebbene non diversa nella sostanza, si poneva in
altra forma e nel citato opuscolo San Tommaso, consigliando i governanti, dà
indicazioni al re su come debba comportarsi in merito alla “presenza di
stranieri”, che all’epoca era impersonata principalmente da commercianti. La
questione di fondo è se la moltitudine di stranieri è un bene o un male per la Civitas [1].
La risposta dell’autore si fonda, seguendo Aristotele,
sulla necessaria unità del corpo sociale, ad imitazione del corpo fisico. Si
sconsiglia quindi vivamente il governante dal favorire un’eccessiva presenza di
mercanti stranieri nella città, per un motivo semplicissimo: i loro diversi
usi, seppur legittimi nella loro patria, destabilizzano la società.
Compromettono l’unità della Civitas,
che su un patrimonio comune fonda la propria unità e il proprio benessere
spirituale e temporale. Gli stranieri non condividono quell’insieme di
tradizioni “identitarie” che sono il collante dello stato e che partecipano a
dare un indirizzo chiaro e condiviso alla ricerca del bene comune condotta da
tutti. Il cittadino di lunga tradizione condivide coi suoi concittadini quel
particolare modo di conoscere e amare la propria Civitas, e ciò si compie non in maniera artificiale con
cervellotici quanto utopici “progetti d’integrazione”, ma in maniera talmente
naturale che questo patrimonio comune non abbisogna di alcuna spiegazione,
tanto esso è radicato nei cuori.
Ciò non significa che per motivi ad esempio commerciali
uno straniero non possa attraversare la città o addirittura dimorarvi a lungo
fino ad divenirne un membro vitale. Anzi la sua presenza può in certa misura
costituire un bene oggettivo e apprezzabile per la Civitas. Si pensi ai Maestri Comacini del Medioevo che tagliavano
così bene la pietra da riempire l’Italia di capolavori, formando ove andassero
delle piccole comunità lombarde, le quali in seguito si sono amalgamate al
tessuto preesistente. Ma il numero deve essere contenuto, perché il bene della
società intera è superiore al bene di un singolo o di un gruppo di cittadini o
di uno o più stranieri.
Il vero bene del singolo infatti si articola con il vero
bene comune e non può mai essere in contrasto con esso. Seguendo l’analogia fra
il bene del corpo umano e il bene del corpo sociale, è chiaro che il
mantenimento in salute dell’intera persona è superiore al bene di un singolo
arto, che in certi casi può essere necessario amputare. A maggior ragione nel
caso di un elemento esterno che non è ancora organicamente unito alla persona.
Uno straniero infatti non è ancora membro del corpo sociale, se non a seguito
di un lungo processo che necessita tra l’altro l’accettazione delle condizioni
poste dalla Civitas che sceglie di
accoglierlo o meno. Il suo bene quindi è sempre sottomesso e deve sempre
articolarsi con il bene di tutta la città. Altrimenti, come è lecito il
distacco dal corpo sociale dell’elemento nocivo, a maggior ragione è lecito il
rifiuto di un corpo esterno che altererebbe la pace e l’ordine sociale.
Da un punto di vista di bene comune naturale la necessità
di premunirsi contro l’afflusso eccessivo di stranieri è un dovere del principe
e ciò in ragione della natura stessa dell’uomo, a tale considerazione bisogna
aggiungere che ratione peccati,
ovvero considerando la natura umana in quanto ferita dal peccato originale,
tale necessità si fa ancor più pressante. E ciò - anche volendo rimanere nel
punto di vista strettamente naturale - è particolarmente importante quando si
parla di immigrazione di stranieri di religione musulmana, visto il carattere
violentemente aggressivo del Corano che ne è il fondamento.
A quanto esposto
finora, mettendo da parte i deliri degli idéologues
multietnici e multirazziali e di quanti li seguono, si riconosce in genere un certo
fondamento, ma insorge spesso in campo cattolico l’obiezione - non priva d’una
buona dose d’ipocrisia - che se tale discorso può apparire ragionevole
all’intelligenza nell’ordine naturale, non è tuttavia ammissibile dopo l’avvento
della carità cristiana, la quale tutto accetta, tutto perdona e…tutto
accoglie.
Ma anche (e
soprattutto) nella carità c’è un ordine stabilito da Dio, Creatore e Legislatore
San Tommaso d’Aquino parlando della carità sottolinea che
è sommamente necessario valutare quale sia l’ordine nella carità[2].
Devo amare di più Dio o il prossimo? Devo amare di più il prossimo o il mio
corpo? Devo amare un prossimo più d’un altro o tutti in maniera identica? Devo
amare chi mi è più vicino (“prossimo” vuol dire “vicino”…) o devo amare anche i
più lontani in eguale e identica maniera? Devo amare di più la pace (anche
religiosa) nella mia patria o devo accogliere qualsiasi straniero che la
minacci in nome della carità?
Dove c’è una molteplicità, come in questo caso c’è una
molteplicità d’oggetti d’amare, ci vuole un ordine e un ordine si fa rispetto
ad un principio. Per esempio un insieme di frutti può essere ordinato da
diversi principi, secondo il colore, secondo il peso, secondo il profumo; per
fare ordine e sapere cosa mettere prima
e cosa mettere dopo ci vuole un principio. Ma qual è nella carità questo “punto
fermo” che ci permette di mettere ordine? “L’amore
della carità tende verso Dio in quanto Egli è fonte di beatitudine [...]. E quindi è necessario che in quelle cose che
sono amate per la carità ci si attenga ad un certo ordine, in relazione al
principio primo di tale amore, che è Dio”[3].
La carità e il suo esercizio si ordinano quindi solo
rispetto a Dio e non rispetto ai principi dell’antropocentrismo melenso.
Oggi purtroppo un pensiero non cattolico si è fatto
strada ovunque, al punto che per l’uomo moderno - che va di pari passo con
l’ecclesiastico modernista - si deve amare il prossimo senza stabilire un
qualsivoglia ordine e ciò talvolta anche…contro Dio o più di Dio. Oppure,
quando il panteismo ha raggiunto livelli patologici, si giunge quasi
all’affermazione esplicita che identifica il prossimo con Dio quasi
metafisicamente. A quel punto nessun ragionamento - e nessun ordine nella
carità - è più possibile. Frasi frequenti come “il povero è Dio” per esempio,
seppur pronunciate con intento retorico, alimentano - vogliamo sperare non
intenzionalmente - tale confusione. Perché se è vero che nel volto del povero
devo vedere l’impronta di Dio Creatore e l’azione di Dio Redentore, è anche
vero che una creatura non potrà mai identificarsi col Creatore e l’amore da
portare ad una qualsiasi creatura non sarà mai così incondizionato come l’amore
che si deve portare a Dio.
L’oggetto dell’atto di carità riguarda dunque
principalmente Dio, secondariamente le creature, nella misura in cui esse si
riferiscono a Dio. Quest’ordine della carità che cerchiamo quindi - dice
l’Angelico[4]
- si trova nelle cose stesse, nel loro essere rispetto a Dio. E’ un ordine
oggettivo. Il prossimo non si ama incondizionatamente come fosse Dio, la bontà
del prossimo non è assoluta, ma è “participative”,
essa partecipa della bontà divina e in
maniera diversa a seconda dei casi. Ci può essere quindi un “più” e un “meno”
nella scala, poiché la misura è data dalla maggiore o minore vicinanza a Dio
della cosa da amare.
C’è infatti anche un prossimo da odiare per amore di Dio,
dice Nostro Signore. “Se qualcuno viene a
me e non odia suo padre e sua madre e sua moglie e i suoi figli e i suoi
fratelli e le sue sorelle e perfino la sua vita non può essere mio discepolo”
(Lc 14, 26). Tali parole non sono dure se si è compreso l’ordine nella carità.
Dice San Tommaso “L’amicizia della carità
si fonda sulla comunicazione di beatitudine che consiste essenzialmente in Dio
come nel primo principio, dal quale deriva in tutti coloro che sono capaci di
beatitudine” e continua “quindi
principalmente e al massimo grado è Dio che va amato in carità (…) il prossimo in quanto partecipa con noi
quella beatitudine che viene da Lui” [5].
Quindi quando Gesù Cristo ci dice “se
qualcuno non odia suo padre e sua madre…” ci sta dicendo che non è suo
discepolo chi ama il prossimo in un ordine che non è quello voluto da Dio e che
sarà anche necessario “odiare” il proprio fratello nella misura in cui questi
allontana da Dio noi, sé stesso e gli altri. Se una persona mi impedisce
l’amore di Dio o il dilatarsi dell’amore di Dio sulla società, debbo odiare
quest’aspetto nell’altro, che va combattuto in esso, aspetto che deve almeno
essere messo in funzione di non nuocere al bene voluto da Dio, pur continuando
per esempio a pregare e ad agire per la conversione di quel fratello. Fratello
che è “odiato” nella misura in cui è lontano e ci allontana da Dio, ma che è
amato nella misura in cui nulla è perduto e può ancora avvicinarsi a Dio,
direbbe San Tommaso “in quanto è ancora capace di beatitudine”. E questa
“capacità di beatitudine” detta legge nell’ordine secondo la carità che si
fonda sulla minore o maggiore partecipazione all’amore di Dio. L’ordine non è
sentimental-passionale, a seconda di quel che incontro - o peggio che la
televisione ci vuol far incontrare sullo schermo -, ma è oggettivo. Dice San
Tommaso “non è da amare di più quello che è più facile vedere, ma quello che si
presenta a noi come da amare”[6].
Ovvero San Tommaso ci sta dicendo che come devo amare maggiormente Dio, anche
se non è visibile, che non una persona nella quale m’imbatto per strada e che è
molto lontana da Dio, allo stesso modo devo amare maggiormente una persona rispetto
ad un'altra perché so che essa è più vicina a Dio.
Quando ascoltiamo - e tra l’altro con eccessiva frequenza
- sulla bocca di eminenti ecclesiastici, frasi come questa: “Amo davvero il mio prossimo, amo davvero l’immigrato,
anche se è musulmano?”, la risposta del cristiano che ha la vera carità e
conosce la dottrina è: “sì, ma lo amo per amore di Dio e quindi secondo
l’ordine voluto da Dio”. Il che significa che ordino il mio esercizio della
carità verso di lui secondo l’amore di Dio. E devo andare al punto da volere
per lui tutto il bene possibile fino a quello supremo della sua conversione
alla vera fede, perché non bruci eternamente all’inferno e partecipi in atto (e
non solo in potenza) di quella beatitudine la quale è - come visto sopra - il
fondamento dell’ordine nella carità. Infatti nel vero ordine della carità non
si ama il prossimo soltanto perché mio simile o perché ho in simpatia la gente
di colore più dei bianchi, ma ciò che rende il prossimo degno d’essere amato
più d’un altro e la sua similitudine a Dio[7].
In carità posso - e devo - amare di più un ricco autenticamente virtuoso, che non
un povero pieno di malizia, così come mi è più “prossimo” un battezzato
benestante che un immigrato musulmano povero. C’è un ordine oggettivo da
osservare nell’amore soprannaturale, che tuttavia non esclude, a seconda delle
circostanze e se questo è il bene oggettivo, la possibilità d’aiutare
materialmente anche quel povero, benché lontano da Dio. Dai da mangiare agli affamati e dai da bere agli assetati, certo,
ma secondo un criterio oggettivo, e non mediatico-emozionale e dettato da
quelle centrali del mondialismo massonico che prima creano la miseria dei
popoli e poi la fanno “sollevare” agli altri.
L’accoglienza indiscriminata
non testimonia l’amore di Dio, ma l’amore disordinato per alcune realtà terrene
Aggiungiamo che il disordine nell’accoglienza dei popoli,
nel favorire il loro spostamento sregolato, nell’alterare la pacifica
convivenza di alcune nazioni, alcune delle quali di tradizione cristiana, non è
segno di carità. Anzi, è forse proprio uno dei segni che non si cammina
nell’amore di Dio.
San Tommaso spiega che l’amore naturale si fonda sulla
comunicazione dei beni naturali, e con tale amore non solo si ama Dio più di se
stessi, ma si ama ogni creatura secondo quel che essa è, secondo il posto
assegnatole da Dio. E tale amore attraversa ogni creatura fino alle stesse
pietre perché è un amore che ama l’insieme della Creazione secondo l’ordine
voluto da Dio, e tale amore predilige il bene dell’insieme al proprio bene
particolare. E ciò vale ancor più nell’amore di carità, secondo il quale l’uomo
deve amare di più Dio, che è il bene comune d’ogni cosa, che non se stesso[8].
Seguendo quindi il ragionamento dell’Aquinate si ama ogni
creatura - fino alle pietre - nell’ordine voluto da Dio e si amano quindi i
popoli nelle loro terre e con le loro caratteristiche e le loro tradizioni
buone, nell’ordine che Dio ha dato distinguendoli. Se si è compreso il
discorso, perché sia vero amore, la parte deve amare dapprima il tutto nella
sua disposizione delle parti e quindi cercare il proprio bene nella misura in
cui tale bene s’integra nel tutto, nella misura in cui il bene della parte
concorre al bene del tutto. E’ la parte a doversi “adeguare” al bene comune nel
determinare il proprio bene e non è il bene comune che deve essere
“rimodellato” in funzione della parte[9].
Ad esempio, in
merito al nostro argomento, l’immigrato che arriva e chiede accoglienza non può
essere visto solo in un rapporto di bene del singolo soggetto bisognoso, oppure
in una visione personalista della relazione fra me che accolgo e lui che mi
chiede ospitalità, ma l’opportunità dell’“accoglienza” va valutata secondo una
visione di bene comune e soprattutto di bene comune soprannaturale. Le
questioni di fede sono quindi basilari poiché - se è vera carità - il primo
bene da valutare sarà quello della fede, del bene comune della fede di un
popolo e del mondo intero. L’appartenenza ad una religione quindi sarà un criterio
importante da valutare nella prospettiva della “carità d’accoglienza”. Proprio
perché è in gioco il bene comune soprannaturale che la (vera) carità ha il
compito di salvaguardare.
Non solo quindi la prudenza naturale e soprannaturale
deve spingere i governanti a limitare l’accesso di chi attacca o indebolisce il
bene della fede, ma in una vera prospettiva di bene comune soprannaturale
potrebbe anche essere necessario, in talune circostanze, rifiutare
completamente l’accesso di taluni stranieri. Anzi si potrebbe aggiungere che
sarebbe da valutare attentamente anche l’opportunità d’accesso degli uomini validi
cristiani che fuggono, specie se essi stanno scappando da una guerra che invece
dovrebbero combattere per il bene comune della loro patria o della fede. Se è
il bene comune della fede e della carità che cerchiamo - pur potendo accogliere
temporaneamente donne e bambini - dovremmo anche, in certi casi, stimolare gli
uomini cristiani validi ed atti alle armi a restare nelle terre cristiane per
difenderle e per evitare il restringimento dei confini della Cristianità (o di
quel che ne resta). Anche questa è carità, e alcuni coraggiosi Vescovi siriani
l’hanno recentemente affermato a gran voce.
Quanto ai musulmani, anche ammesso e non concesso che
questa sia un’immigrazione di necessità e non un processo massonico di
sostituzione di popoli, è più che lecito frenarne gli arrivi, poiché in quanto
seguaci del Corano è ragionevole presumere che ne vogliano l’applicazione, pena
il non essere più musulmani. Impossibile comprendere come un loro arrivo
massiccio non possa nuocere gravemente al bene soprannaturale della fede e
della Chiesa stessa, a maggior ragione se si rinuncia - per assenza di carità -
anche a tentare di convertirli alla vera fede. Né si capisce come possa un
prelato cattolico - che dovrebbe ben sapere cosa è la carità - predicare
l’accoglienza a tutti i costi e rifiutandosi di fare qualsivoglia distinzione,
quasi si trattasse d’un dogma rivelato. E ciò anche tenuto conto del fatto che
non è necessario avere la fede e la carità per capire quanto sia pericolosa
l’immigrazione islamica, al punto che il cardinale Biffi rivolgendosi ai
governanti laici diceva al proposito: “Non
sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a dover far
bene i loro conti a questo riguardo”[10].
Un uomo di Chiesa ha quindi doppiamente il dovere di invitare i governanti a
limitare l’immigrazione islamica: in ragione della legge naturale e in ragione
della vera carità di Cristo.
Don Stefano Carusi
[1] San Tommaso d’Aquino, De
regno, lib. 2, cap. 3: “Nam civitas quae ad sui sustentationem mercationum
multitudine indiget, necesse est ut continuum extraneorum convictum patiatur. Extraneorum
autem conversatio corrumpit plurimum civium mores, secundum Aristotelis
doctrinam in sua politica, quia necesse est evenire ut homines extranei aliis
legibus et consuetudinibus enutriti, in multis aliter agant quam sint civium
mores, et sic, dum cives exemplo ad agenda similia provocantur, civilis
conversatio perturbatur. Rursus: si cives ipsi
mercationibus fuerint dediti, pandetur pluribus vitiis aditus”.
[2] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., IIa IIae, q. 26, pr. “Deinde
considerandum est de ordine caritatis. Et circa hoc quaeruntur tredecim”.
[3] Ibidem, a. 1, c. : “Respondeo
dicendum quod, sicut philosophus dicit, in V Metaphys., prius et posterius
dicitur secundum relationem ad aliquod principium. Ordo autem includit in se
aliquem modum prioris et posterioris. Unde oportet quod ubicumque est aliquod
principium, sit etiam aliquis ordo. Dictum autem est supra quod dilectio
caritatis tendit in Deum sicut in principium beatitudinis, in cuius
communicatione amicitia caritatis fundatur. Et ideo oportet quod in his quae ex
caritate diliguntur attendatur aliquis ordo, secundum relationem ad primum
principium huius dilectionis, quod est Deus”.
[4]
S. Tommaso d’Aquino, S. Th., q. 26, a.
1, ad 2. Cfr. anche q. 26, a. 2, ad 3: “Sed
tamen non aequaliter habet proximus bonitatem Dei sicut habet ipsam Deus, nam
Deus habet ipsam essentialiter, proximus
autem participative”.
[5] Ibidem, q. 26, a. 2, c: “Amicitia
autem caritatis fundatur super communicatione beatitudinis, quae consistit
essentialiter in Deo sicut in primo principio, a quo derivatur in omnes qui
sunt beatitudinis capaces. Et ideo principaliter et
maxime Deus est ex caritate diligendus, ipse enim diligitur sicut beatitudinis
causa; proximus autem sicut beatitudinem simul nobiscum ab eo participans”.
[6] Ibidem, q. 26, a. 2, ad 1: “non
ergo oportet quod illud quod est magis visibile sit magis diligibile, sed quod
prius occurrat nobis ad diligendum”.
[7] Ibidem, q. 26, a.2, ad 2 : “Ad
secundum dicendum quod similitudo quam habemus ad Deum est prior et causa
similitudinis quam habemus ad proximum, ex hoc enim quod participamus a Deo id
quod ab ipso etiam proximus habet similes proximo efficimur”.
[8] Ibidem, q. 26, a.3, c. : “Unde
multo magis hoc verificatur in amicitia caritatis, quae fundatur super
communicatione donorum gratiae. Et ideo ex caritate magis homo debet diligere
Deum, qui est bonum commune omnium, quam seipsum, quia beatitudo est in Deo
sicut in communi et fontali omnium principio qui beatitudinem partecipare
possunt”.
[9] Ibidem, q. 26, a.3, ad 2.
[10] G. Biffi, Intervento dell'arcivescovo di Bologna al
Seminario della Fondazione Migrantes, 30 settembre 2000 (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/7283).