26 ottobre 2025
Sant’Atanasio e il primato della fede
10 agosto 2025
Quando la volontà forza l’intelligenza…a sbagliare (seconda parte)
Indicazioni per un un’epoca di soggettivismo sfrenato
10 agosto 2025, San Lorenzo
Per leggere la Prima Parte cliccare qui.
Si potrebbe obiettare che
i limiti della nostra intelligenza sono tali per cui l’errore è qualcosa da
mettere in conto e ciò non per forza di cose in maniera volontaria. Certamente.
Scrive Jolivet che “l’intelligenza lasciata unicamente all’azione del suo
proprio oggetto, sarebbe infallibile, giacché appartiene alla sua natura
affermare unicamente ciò che essa comprende e solo fin dove comprende, dubitare
di fronte all’incertezza, negare di fronte alla falsità, attenersi esattamente
a quello che vede. Ma non si dà intelligenza senza volontà e senza una relativa
libertà. Inoltre nell’uomo la intelligenza è associata alla sensibilità, alle
passioni, agli interessi che influiscono su di essa, l’orientano ai propri fini
e la inducono a giudicare senza vedere. Di qui l’errore che deriva sempre da
ignoranza, in quanto esso consiste precisamente nell’affermare ciò che non si
vede, o ciò che non si sa, a generalizzare imprudentemente, a seguire analogie
ingannevoli, a fare induzioni senza sufficiente fondamento. L’errore è senza
dubbio formalmente un atto della mente, ma di una mente preoccupata e come
appannata, contrariata dai sensi o da altre facoltà, e tale da cercare ove non
è il criterio della verità”[1].
L’autore parla di una
“mente preoccupata” come predisposta a sbagliare, infatti le inquietudini e la
volontà di risolverle o quantomeno di chiarirle, dove invece permane di fatto
la nebbia, dispongono all’errore, perché vi è il fortissimo rischio di una
“forzatura” della volontà nel giungere ad un giudizio. Giudizio forzato, che
non è per forza di cose positivo o in favore di colui che giudica, anzi delle
volte può essere anche estremamente negativo (e persino apertamente nocivo a
chi lo formula), purché sia chiaro. Infatti in tempi di “culto dell’idea
chiara” di derivazione razionalista, anche laddove l’idea non può esser chiara,
c’è una spinta a fare una luce “da sole di mezzogiorno” anche quando si è solo
“nella penombra dell’alba” ed è così che interviene la volontà, influenzata
dalle passioni (oggi si direbbe con terminologia più equivoca “dai
sentimenti”). Ed è per questa via che il razionalismo di oggi, visto che non si
è accontentato di una conoscenza vera, ma troppo sfumata e troppo poco nitida per
i suoi gusti, finisce, dall’esigente razionalismo da cui è partito ad un
giudizio quasi totalmente “volontarista/sentimentalista”. 
Dal rifiuto di una
conoscenza vera, benché “sfumata”, cui si attribuiva giustamente anche una
parte d’incertezza per quei lati che richiedevano prudenza, si è passati ad una
conoscenza anche totalmente falsa, purché sia chiara. E questo è avvenuto non
per un’evidenza dell’intelligenza, ma per un intervento della volontà, delle
passioni, della foga irrazionale talvolta, del sentimentalismo. 
Dal razionalismo
all’irrazionalità imposta per via sentimentale il passo è breve.
Quanto questo
procedimento sia colpevole dipende dai singoli casi e dalle disposizioni di
ciascun soggetto, di sicuro è - oggettivamente parlando - la via maestra
dell’errore. Via tra l’altro nella quale è facile essere ingannati da persone -
o dai media senza scrupoli - e soprattutto dall’Ingannatore per eccellenza. Non
a caso Sant’Ignazio di Loyola nel Discernimento
degli Spiriti dice di non cambiare le proprie risoluzioni, prudentemente
prese, quando si è nel turbamento passionale. La famosa regola n. 5, che invita
ad aspettare quando si è turbati dalla desolazione e a rinviare il giudizio al
momento in cui il campo è sgombero dalle passioni.
Da qui la vera umiltà,
che sempre si sposa alla verità, di sospendere il giudizio laddove non c’è
possibilità reale di pronunciarne uno perentorio, o quantomeno l’importanza
della semplicità e dell’onestà di esporre la problematica quale essa è - con la
descrizione dei lati in luce e di quelli in ombra - e di preferire, pure se non
è la risposta completa alla domanda, anche solo un “abbozzo di verità”, purché
sia stato dedotto con procedimenti onesti. E che è sempre meglio dei prodotti
del sentimentalismo passionale.  
Il razionalismo odierno
non ammette verità conoscibili laddove non vede con la chiarezza delle scienze
matematiche e - per esempio intorno al “problema di Dio”, come lo chiamava
Cornelio Fabro - o ne rifiuta categoricamente l’esistenza, perché non lo vede e
non riesce a spiegarlo nella maniera idealista che si era prefisso, oppure si
getta con foga amorosa e irrazionale persino nei deliri delle peggiori sette.
Qui è importante comprendere che entrambe le scelte, quella dell’adepto delle
sette deliranti e quella dell’ateo militante che si dice un razionalista, sono
prodotto del volontarismo e spesso del volontarismo sentimentale. Lo stesso
ateo militante, che si descrive come un intransigente della ragione, ha forzato
l’intelligenza con la sua volontà perché restringesse i suoi limiti, fino a
negare Dio e la possibilità di conoscerlo, mentre invece - almeno come Causa
prima e Fine ultimo - è ampiamente nei limiti di un’intelligenza non corrotta
dai criteri che “il pensatore” si è intenzionalmente autoimposti. Il
“sentimentalismo” originario dell’ateo razionalista, l’ha condotto - con
intervento della volontà - all’errore dell’intelligenza.
Commentando un testo di
Ribot così Jolivet sintetizza l’errore derivante dalla logica dei sentimenti:
“La logica dei sentimenti
consiste, infatti, nel partire non da una verità o da un fatto certo per trarne
legittime conseguenze, ma da un’asserzione posta in anticipo come conforme a
quanto ci si augura o si desidera, e che si giustifica in tutte le maniere.
Questa logica tende a risultati più che a conclusioni, poiché i giudizi che
essa ispira sono governati ed imposti non dalle esigenze oggettive del reale,
ma dai bisogni affettivi e dagli interessi”[2].  
Quando la volontà forza
arbitrariamente l’intelligenza, lì nasce la vera chiusura mentale.
Don Stefano Carusi
8 giugno 2025
Quando la volontà forza l’intelligenza…a sbagliare
Indicazioni per un un’epoca di soggettivismo sfrenato
Pentecoste 2025
Tutti
noi constatiamo, con un semplice ritorno onesto su noi stessi, che in molte
occasioni alcune delle tappe che hanno preceduto le nostre scelte e i nostri
posizionamenti intellettuali erano viziate. Non parliamo qui semplicemente
dell’influsso delle passioni su tutto il nostro agire morale, non si tratta del
caso, più semplice da spiegare, nel quale il diabetico quasi irresistibilmente
attratto dalla torta al cioccolato ha finito per cedere, riconoscendo la sua
debolezza, mangiandosi non solo la fetta a lui concessa, ma quattro fette di
dolce. Ma parliamo del caso, più complesso da definire e ancor più da
riconoscere in se stessi, del diabetico che non volendo riconoscere la sua
debolezza davanti ai dolci, pur di mangiare la quarta fetta di torta, finisce per
elaborare una struttura di pensiero falsa, per cui in quella torta non ci sono
zuccheri dannosi per lui, quindi può procedere serenamente - viste le premesse scelte da lui - magari anche alla
quinta, alla sesta, alla settima fetta.    
Abbiamo detto “viste le premesse scelte”, proprio ad indicare che se le
premesse sono state scelte, o
quantomeno troppo scelte, è chiaro
che la conclusione è stata più o meno deliberatamente pilotata. Abbiamo detto “più o meno deliberatamente”, perché il
fenomeno è complesso e, specie in tempi di soggettivismo sfrenato come gli
attuali e di imperialismo mediatico di internet, il ritorno di ciascuno sui
moti della propria volontà è diventato molto più nebuloso e non sempre
pienamente avvertito.
L’immanentismo
imperante infatti fa sì che si percepisca come esistente quasi solo ciò che si sente emotivamente, ciò che si vive nel profondo, trascurando o
addirittura eliminando tutta quella parte della realtà oggettiva che non si
associa ad emozioni travolgenti o che rimane in qualche modo scomoda. 
Mentre
l’imperialismo mediatico aggiunge un altro fattore di pressione
sull’intelligenza, essa si ritrova letteralmente assediata e non riesce in
molti casi quasi più a funzionare rettamente nei suoi rapporti con la volontà,
dalla quale si trova ad esser piegata a conclusioni imposte dalla supposta
“idea della massa”, o meglio sarebbe dire, come abbiamo ricordato più volte
anche su queste colonne, dei suoi abili manovratori, che non potendo
influenzare direttamente l’intelligenza, la viziano passando dalla volontà.
Su
intelligenza e volontà, diceva con semplicità il Cardinal Caffarra prima di lanciarsi
negli aspetti teoretici, “anche una
scarsa attenzione alla nostra vita interiore ci mostra che si tratta di
reciproco influsso causale: nessuno capisce niente, se non vuole capire;  nessuno può volere ciò che ignora”[1].  
“Nessuno capisce niente, se non vuol capire”.
Si può scegliere di non capire, addirittura “di non capire niente” per così dire. Infatti, si può anche fare la
scelta terribile di inabissarsi volontariamente nel vuoto intellettuale in ciò
che vi è di più importante nella vita dell’uomo: il Fine ultimo. E per chi non
vuol capire il Fine ultimo, non sarebbe esagerato dire, con le debite precisazioni,
che si è messo nella condizione di “non
capire niente”. La provocazione del Cardinal Caffarra è calzante e
l’approfondisce nel riferimento al passaggio classico di San Tommaso del Contra Gentes (l. IV, cap. 54), per cui
alcuni uomini sono quasi bloccati nella riflessione sul Fine ultimo. Non ce la
fanno a pensare.
Ma
cosa può bloccarli, visto che qui non si parla di limiti intellettuali, anzi
questo blocco può avvenire - e di fatto avviene - in persone intelligentissime,
in luminari delle scienze, in accademici, che finiscono per “non capire niente”? E perdipiù
volontariamente. 
L’infinita
distanza dal Fine ultimo, dice San Tommaso, può essere un deterrente alla
ricerca intellettuale, ovvero alcuni uomini si scoraggiano (ma ricordiamo che
lo scoraggiamento comporta in genere una parte di volontarietà) nell’indagare
una realtà così alta e distante. Pensare a Dio e che siamo fatti per Lui è un
pensiero troppo profondo per loro. E, esageratamente concentrati sul proprio
stato di creatura, non osano alzare lo sguardo verso il Creatore, per
piccolezza d’animo, ma anche per comodo. Infatti il misconoscimento della
grandezza della natura umana, della sua natura eminentemente spirituale, e
quindi in fondo fatta per contemplare Dio, fornisce loro un alibi per gettarsi
senza remore in quella che San Tommaso chiama la “beatitudine bestiale”[2],
ovvero nel convincersi che sono più fatti per una beatitudine da porco, da cane
o da volpe, che non da essere spirituale, e per mantenere in vita questo
“utile” convincimento, che in fondo riduce gli impegni a quelli che hanno in
comune con gli animali, bisogna in certo modo volere “non capire niente”. 
Avendo
scelto di guardare quanto sono legati
alla sensibilità e al corpo, che hanno in comune con gli animali, scelgono di essere appagati nelle cose
corporali e nei diletti delle carne. Una ricerca quindi che li conducesse ad
alzare lo sguardo potrebbe compromettere quell’universo di piacevoli
conclusioni che si sono costruiti.
Quindi
l’intelligenza - che di per sé tenderebbe molto più in alto, al Vero - viene da
un moto volontario frenata, deviata, diciamo pure corrotta, perché non indaghi
troppo quel Bene intelligibile, quella Verità suprema. Avviene un
restringimento di campo, per cui quella materia è meglio non indagarla e la
volontà chiude gli spazi dell’intelligenza. Avendo già deciso, mette dei
paletti all’intelligenza e le impone: “è
meglio che in questo campo tu non ragioni”. 
Ne consegue che tutto il processo
intellettivo viene viziato, deviato e ristretto, perché non sarà più possibile
un ragionamento “da ciò che già conosce,
per procedere alla scoperta di ciò che ancora ignora”, non partirà più da
alcune evidenze e, procedendo di verità in verità, giungerà fino a conclusioni
nuove, ma partirà da ciò che ha scelto
di essere per poi costruire un castello altissimo, ma senza fondamenta se non
ciò che intende essere[3].
Poiché ho scelto (più o meno
arbitrariamente) che la realtà è questa, allora il mio ragionamento non può che
restringersi in questo campo e procedere per questa sola via, da me scelta.  
Fine I Parte
Don Stefano Carusi
[1] C.
Caffarra, La reciproca influenza di intelletto
e volontà nella conoscenza della verità morale, in Pontifica Accademia
Romana di San Tommaso d’Aquno, IX Congresso Tomistico Internazionale (24-29
settembre 1990). Testo accessibile in rete, consultato il 5 giugno 2025: https://www.caffarra.it/intellettoevolonta90_76.php
[2] Contra Gentes, l. IV, cap. 54, n.3
[3]
Cfr. C. Caffarra, cit.
30 marzo 2025
Tristezza, depressione e la Domenica di Laetare
Qualche consiglio di San Tommaso d’Aquino
La
domenica di Laetare, in mezzo alla
Quaresima tutta in viola, vede il sacerdote eccezionalmente con gli ornamenti
rosa, l’organo risuona e i fiori, banditi nei quaranta giorni di penitenza,
tornano solo in questo giorno sull’altare, proprio a rallegrare - a metà
percorso - il fedele che ha preso sul serio la Quaresima e che il digiuno
prolungato può aver intristito. Bisogna riprendere forza prima della Passione e
del Venerdì Santo ed avere un assaggio della Pasqua. La liturgia coi suoi segni
è pedagogica di verità più profonde e in questo caso ci conduce a fare
un’analisi della gioia e quindi anche di ciò che vi si oppone, la tristezza,
ovvero ciò che in termini più moderni e talvolta equivoci viene definito “depressione”. 
E’
un peccato la “depressione”? Me ne
devo confessare come una colpa? Forse e il discorso va certamente approfondito.
Tuttavia al termine vago “depressione”
è preferibile utilizzare quello classico di tristezza/tristitia, perché meno si presta a confusioni, oppure quello di accidia nel caso più specifico[1].
Come
fa la tristezza ad essere un peccato? San Tommaso ci dice che la tristezza può
essere qualcosa di cattivo a più titoli, ma lo è particolarmente secondo
l’effetto che procura, ovvero quando ci prostra e ci fa ritirare dal bene. Quando
ha per effetto di “buttarci giù” al punto di impedirci di fare il bene a noi
possibile, quasi paralizzandoci, diventa infatti estremamente nociva[2].
E quando diventa volontaria o peggio, per quanto paradossale sembri, quando è
volontariamente intrattenuta, ovvero quando con un intervento della mia volontà
trascino quello stato o non lo combatto, come la ragione mi indicherebbe di
fare, può essere un vero e proprio peccato da confessare[3].
Esso è più o meno grave a seconda della consapevolezza e della volontarietà che
sempre si lega ad un atto umano. A meno di eventi eccezionali e rari infatti,
la volontà interagisce in ogni nostra azione. Va quindi distinta la tristezza in
quanto passione, dall’atto volontario
o addirittura dal vizio intrattenuto.
Se
ad esempio ho appreso della morte di una persona cara o se un grave male
sopraggiunge è naturale essere tristi, in questo caso siamo di fronte a ciò che
in teologia tomista si dice una passione,
ovvero qualcosa che l’anima in certo modo “subisce” e che la influenza in un
senso o nell’altro senza che vi sia colpa o merito. Le passioni infatti, in sé,
non sono peccato finché non interviene la volontà[4].
Anzi la moderata tristezza come passione può avere le sue ragioni e,
contrariamente a quel che il mondo edonista di oggi propala, può addirittura
essere cosa buona e giusta esser tristi se un male interviene, ma ad alcune
condizioni. Anche la Madonna Santissima sotto la Croce provò tristezza. Come si
può non essere tristi se il proprio Figlio viene crocifisso tra malfattori, in
più così ingiustamente? Ma la tristezza di Maria non fu mai immoderata, restò
sempre nella misura e nell’ordine della ragione senza “prostrare l’anima”, la
quale al contrario, pur fra le lacrime, rimaneva sempre piena di speranza nella
Resurrezione. In un caso proporzionato quindi la tristezza deve anche avere il
suo legittimo spazio[5].
11 febbraio 2025
Pastorale? Ecco qua!
Riceviamo e pubblichiamo
11 febbraio 2025, Madonna di Lourdes
Vorrei condividere con voi questo grande dolore che porta il mio cuore! Conosco e vissuto nel peccato, riconciliata alla grazia, quindi lungi da me giudicare, ma portare la verità!
Ho una nipote che da tanti anni si è dichiarata omosessuale ufficialmente anche con tutta la famiglia. Da qualche anno vive con una ragazza e ultimamente parla di matrimonio e fecondazione.
Un po’ di tempo fa avevo provato a parlarle cercando di farle capire che questo rapporto non va bene, le avevo fatto vedere delle testimonianze anche di persone note che con l’aiuto della preghiera hanno capito l’inganno, ma senza risultati, anzi ultimamente si vantano di ciò di cui si dovrebbero vergognare, si esibiscono in atteggiamenti amorosi anche davanti ai bambini che rimangono confusi…
Un giorno una persona le faceva notare che nella Bibbia c’è scritto che l’omosessualità è un abominio agli occhi di Dio,…ha risposto che non la conosci…perché anche il Papa accoglie tutti tutti…e benedice ogni unione, che dobbiamo accogliere e non giudicare. Adesso anche il predicatore pontificio afferma certe oscenità e aumentare la loro certezza di essere nel giusto!
Come possono vedere il loro peccato, se chi ti dovrebbe correggere e portare alla verità afferma il contrario?
Chiedo per amore cristiano ai sacerdoti, a chiunque ha facoltà di far ritirare questo documento, di intervenire affinché la verità venga detta per la salvezza di tutte queste persone.
Sia lodato Gesù Cristo
Lettera firmata
10 dicembre 2024
Il documento finale del Sinodo sarebbe “magisteriale”?
La nozione di “Magistero” tra autocrazia e pseudosinodalità
10 dicembre 2024, Traslazione della Santa Casa di Loreto
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| Foto AFP | 
Il 25 novembre 2024 è uscita una “Nota di accompagnamento del Documento finale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del Santo Padre Francesco”, nel quale emerge di fatto la volontà d’imporre le conclusioni del Sinodo ricorrendo addirittura alla nozione di “Magistero ordinario del Successore di Pietro” con tanto di altisonanti riferimenti normativi al Catechismo. Tuttavia - con un meccanismo che i fedeli alla Tradizione ormai conoscono da tempo - da una parte si lascia intendere in maniera imprecisata che si dovrebbe obbedire al “magistero di Pietro”, dall’altra non si viene meno alla retorica democratico-sinodale per cui la verità sarebbe un consenso maturato raccogliendo “i frutti di un cammino scandito dall’ascolto del Popolo di Dio” nel quale “la Chiesa tutta è stata chiamata a leggere la propria esperienza e a identificare i passi da compiere per vivere la comunione, realizzare la partecipazione”. Un po’ di retorica modernista sul popolo in cammino che prende (auto)coscienza di sé e si (auto)fabbrica la verità strada facendo, nel confronto orizzontale senza autorità, ed un po’ di “sano autoritarismo giacobino”, per cui si obbedisce e basta. “Autoritarismo giacobino” abbiamo detto e non legittimo esercizio del Potere della Chiavi, non per irriverenza, ma per una ragione fondamentale : l’oggetto. Mentre gli autocrati rivoluzionari imponevano una nozione di obbedienza fondata sulla loro stessa autorità, la Chiesa Romana esigeva la giusta sottomissione a verità di fede (l’oggetto del credere) rivelate da Dio e di cui le autorità erano solo custodi. Quindi imporre in maniera autoritaria ciò che non è verità di fede, ma prevalentemente affermazioni politically correct, ricorrendo contemporaneamente ad una vaga nozione di verità del “Popolo in cammino”, o meglio dei suoi autorizzati interpreti, e ad un’ancor più vaga nozione di Magistero, senza giustificare minimamente quale sia il legame di certe novità con la Rivelazione divina, è un’operazione quantomeno scorretta.
Segnaliamo anche, a chi non ha perso il ragionamento con consequenzialità logica, che nella Nota a tratti sembra quasi di leggere che in fondo, con autorità magisteriale si sta definendo che…non c’è una verità stabile da credere…ma sarebbe doveroso che tutti obbedissero. Ricordiamo che per il modernista, la contraddizione non è mai stata un problema, specie se in suo soccorso viene l’autoritarismo…Sta di fatto che il sito della diocesi di Torino già dal 26 ottobre scorso titolava secco: “Il Documento finale del Sinodo ha valore di Magistero”.
Una tecnica molto “sudamericana” e ben poco “cattolico-romana”, che però di fatto già preoccupa alcune coscienze poco formate, che si troverebbero nel dilemma se, criticando a ragion veduta il documento sinodale, non rischiano di “disobbedire al Magistero”. A parte l’ipocrisia di certi procedimenti ricordiamo che - sebbene in maniera altalenante ed ambigua - lo stesso documento non è andato oltre la nozione di “insegnamento autentico”, su questo punto ricordiamo quanto scritto da Mons. Gherardini su queste pagine, mutatis mutandis, in merito al “valore magisteriale del Concilio Vaticano II”, ovvero che il “magistero autentico” (o “insegnamento autentico”) non comporta necessariamente l’infallibilità, sia esso proveniente dal Romano Pontefice, dal Concilio unito a lui e da un Sinodo di Vescovi approvato dal Papa. Tale insegnamento, qualora di insegnamento si tratti, può ragionevolmente essere criticato e si può anche richiedere che esso venga ritirato, laddove vi siano fondati motivi e laddove emerga la contraddizione col costante insegnamento della Chiesa o addirittura col diritto naturale, come nel caso scandaloso di Fiducia Supplicans.
Invitiamo a rileggere sulla nozione di “Magistero”, “Magistero autentico” e possibile fallibilità di esso i nostri articoli:
Notiamo infine come anche in questo Sinodo non sono mancate resistenze, segno dell’indefettibilità della Chiesa.
La Redazione
 

 


