30 aprile 2018, Santa Caterina da Siena
Giovanni Di Paolo, Santa Caterina da Siena nella Curia pontificia d’Avignone
non recede dalla “guerra” per il “giusto giudizio”
Sulla guerra giusta San Tommaso
d’Aquino ha scritto alcune scultoree parole che sono un’indicazione particolarmente
attuale ai capi di Stato, ma anche un suggerimento morale a ciascuno di noi,
specie quando si tratta di non sottovalutare il dovuto esercizio della virtù di
forza. Un cristianesimo “dolciastro” infatti ha fatto spesso dimenticare che in
alcuni casi c’è un vero e proprio dovere di scendere in guerra se è in gioco il
bene della patria, ma anche se è necessario ristabilire la giustizia, e ciò -
dice San Tommaso - anche rischiando di persona. Pubblicheremo alcuni brevi articoli
su temi politici che ci toccano da vicino sul piano naturale e soprannaturale, ma
anche internazionale, ecclesiale e personale.
Fare
la guerra (anche nel senso più ampio del termine) non è un peccato
San Tommaso inizia la sua trattazione
sulla guerra affermando che esiste un’opinione secondo cui far la guerra o nel
senso più ampio opporsi con la forza o resistere ai soprusi sia sempre peccato.
E riporta il pensiero di Sant’Agostino che aveva già dovuto dissipare dubbi a
tal proposito ricordando che nel Vangelo non si trova nessuna interdizione ai
militari di esercitare il loro mestiere[1].
Bisogna però che la guerra sia giusta,
sottolinea l’Aquinate, e tale giustezza deriva da almeno tre caratteristiche.
Nelle guerre che riguardano i regni non è consentito a chiunque muovere guerra,
ma essa deve essere una decisione che promana dall’autorità, ovvero dal
legittimo principe che ha fra i suoi ruoli quello di condurre l’azione bellica.
Un privato infatti per un eventuale ristabilimento della giustizia, nelle
condizioni ordinarie, ricorre al giudizio del superiore e non ha facoltà di
dichiarare una guerra. La tutela della tranquillità dell’ordine in sé compete
al principe, che muove guerra a chi lo turba sia dall’interno che dall’esterno
(un caso a parte è quello dell’autorità che va contro il bene comune,
argomento sul quale torneremo). E’ per questo motivo che il principe porta la
spada, per difendere la giustizia e per essere quel “vindex” di cui parla San Paolo (Rm 13,4). “Vendicatore” è qui da
prendere nel senso più classico del termine ovvero nel senso di “vendicare
l’ira divina”, che è sinonimo di ristabilimento della giustizia, essendo egli
il protettore del povero che deve tutelare dai soprusi degli iniqui. Oltre ad
essere un’azione del principe, la guerra giusta deve avere una fondamentale
caratteristica, la “causa iusta”,
ovvero che colui cui si dichiara guerra lo meriti, è per questo che
Sant’Agostino dice che sogliono definirsi guerre giuste quelle che vendicano l’ingiustizia
commessa da una società che si rifiuta di riparare e persiste nella prevaricazione.
In terzo luogo la guerra giusta deve accompagnarsi dalla retta intenzione di
colui che combatte, ovvero lo scopo deve essere la promozione del bene e
l’estirpazione del male o quantomeno il freno ad esso, per reprimere i cattivi
e risollevare i buoni. Non basta infatti che il legittimo principe stia
difendendo una giusta causa, poiché - sempre seguendo S. Agostino - sarebbe
illecita una tale guerra se l’intenzione fosse ad esempio il desiderio di
nuocere, la crudeltà nell’esercitare la vendetta, un’indole implacabile, la
ferinità nel condurre la guerra o la brama di potere[2].
Ma
come conciliare quanto detto col comando divino di non restituire male per male?
Il Santo vescovo d’Ippona dice che per essere fedeli al Vangelo quando si è
obbligati a condurre una guerra - ma ciò potrebbe dirsi anche per una
resistenza da attuarsi nelle più diverse forme - è necessaria una generale
disposizione dell’animo alla mitezza ed anche a rinunciare a difendersi. Tuttavia
in certi momenti si rende necessario l’intervento della forza, specie se è in
gioco il bene comune o il bene di coloro contro i quali si combatte. E qui
emerge un altro aspetto troppo spesso dimenticato, ovvero il dovere di amare il
prossimo fino al punto di dichiarargli guerra. Per il suo bene. Ovvero
togliergli la libertà di fare il male impunemente e soprattutto sottrargli
quella tranquilla felicità di malfattore, che rafforza la spavalderia degli
impuniti e la loro mala volontà, può essere un gesto d’amore. Parafrasando
Sant’Agostino si potrebbe aggiungere che oltre a combattere in favore del bene
comune, si combatte quel nemico interiore che lotta all’interno del nostro
nemico[3]. E
ciò per il suo vero bene. Questa la carità che deve animare l’azione di
opposizione - se necessario anche con la spada - all’ingiustizia.
Sempre
tuttavia, ricorda S. Agostino a Bonifacio, tenendo presente che il fine della
guerra è la pace: “la pace non è
ricercata per fare guerra, ma la guerra si conduce per conseguire la pace. Sii
quindi nel guerreggiare sempre d’animo pacifico, affinché vincendo tu possa
condurre al bene della pace coloro che avrai sottomesso”[4].
L’importanza di esporsi in prima persona nella guerra
giusta
In un luogo
parallelo San Tommaso ricorda che alcune guerre vanno combattute e che, a
seconda del proprio stato, in alcuni casi non ci sono scuse che si possano
addurre. Se c’è un bene importante da perseguire si deve andare fino in fondo,
esercitando appunto la virtù di forza, che fa andare anche incontro alla morte
o quantomeno si deve esser pronti a rischiarla. La propria vita, ma anche -
specie in guerre che si fanno senz’armi - altri beni come l’agiatezza o la
reputazione, devono essere messi a servizio della causa del bene, il che
significa che l’uomo deve essere pronto ad affrontare anche la morte nella
difesa del bene comune con la guerra giusta[5]. E
qui San Tommaso aggiunge, dando un’indicazione a ciascuno di noi sul dovere di
combattere anche se non fossimo soldati in difesa del patrio suolo, ma semplici
militanti nella guerra per il trionfo della fede attaccata o della giustizia naturale conculcata. Ci sono
infatti due tipi di guerra giusta, uno che è quello generale quando si combatte nelle schiere militari ed un altro che
è particolare, ovvero può riguardare
la privata persona di ciascuno di noi. Ciò si verifica quando un uomo non
recede da un giusto giudizio (“non
recedit a iusto iudicio”)[6],
rimane saldo in una scelta giusta, senza tremare davanti al pericolo della
morte o di qualsivoglia altra minaccia. La virtù di forza esige infatti la
prestanza d’animo contro le intimidazioni e i pericoli persino mortali, non
solo in un’eventuale guerra ufficialmente dichiarata dall’autorità, ma anche
nella nostra “guerra particolare”, che a giusto titolo può esser detta “guerra”
dice il Dottore Comune[7]. Anche la difesa di un giudizio oggettivamente giusto
può - e talvolta deve - andare fino alla guerra. Non solo perché ci può essere
il dovere per il bene comune d’esercitare la virtù di forza ristabilendo la
verità, ma anche per non commettere un peccato contro l’intelligenza, sottomettendo
questa grande virtù alla tranquillità del quieto vivere e del proprio interesse
personale.
La Redazione di Disputationes
Theologicae
[1] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., IIª-IIae q. 40 a. 1 s. c.
[2]Ibidem,
c.
[3] Ibidem, ad 2. “Ad secundum dicendum quod
huiusmodi praecepta, sicut Augustinus dicit, in libro de Serm. Dom. in monte,
semper sunt servanda in praeparatione animi, ut scilicet semper homo sit
paratus non resistere vel non se defendere si opus fuerit. Sed quandoque est aliter agendum propter commune bonum,
et etiam illorum cum quibus pugnatur. Unde Augustinus dicit, in Epist. ad
Marcellinum, agenda sunt multa etiam cum invitis benigna quadam asperitate
plectendis. Nam cui licentia iniquitatis eripitur, utiliter vincitur, quoniam
nihil est infelicius felicitate peccantium, qua poenalis nutritur impunitas, et
mala voluntas, velut hostis interior, roboratur”.
[4] Ibidem, ad 3. “Ad
tertium dicendum quod etiam illi qui iusta bella gerunt pacem intendunt. Et ita
paci non contrariantur nisi malae, quam dominus non venit mittere in terram, ut
dicitur Matth. X. Unde Augustinus dicit, ad Bonifacium, non quaeritur pax ut
bellum exerceatur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo bellando
pacificus, ut eos quos expugnas ad pacis utilitatem vincendo perducas”.
[5] Ibidem, IIª-IIae, q. 123 a. 5 c. “Sed
pericula mortis quae est in bellicis directe imminent homini propter aliquod bonum,
inquantum scilicet defendit bonum commune per iustum bellum”.
[6]
Ibidem, “Potest
autem aliquod esse iustum bellum dupliciter. Uno modo, generale, sicut cum
aliqui decertant in acie. Alio modo, particulare, puta cum aliquis iudex, vel
etiam privata persona, non recedit a iusto iudicio timore gladii imminentis vel
cuiuscumque periculi, etiam si sit mortiferum”.
[7] Ibidem, “sed etiam quae imminent in particulari impugnatione, quae communi nomine bellum dici potest”.
[7] Ibidem, “sed etiam quae imminent in particulari impugnatione, quae communi nomine bellum dici potest”.