Apoteosi di San Tommaso d'Aquino, Francisco de Zurbaran, 1631 |
La
filosofia del senso comune in dialogo con il razionalismo e lo scetticismo di
oggi.
di Antonio Livi
Sono impegnato
da anni in un lavoro di ricerca filosofica, sia storico-critica che teoretica, che
mira a una fondata rivendicazione della possibilità, anzi della necessità della
metafisica in un’epoca che sembra segnare il trionfo definitivo del pensiero
anti-metafisico (se di “pensiero” si può parlare, perché il più delle volte si
tratta di mera retorica in difesa di interessi ideologici). Il risultato di
questa ricerca consiste nella dimostrazione logico-aletica di due tesi tra loro
collegate: la prima, contenuta in un trattato intitolato Filosofia del senso comune[1],
afferma l’impossibilità di pensare se non presupponendo la verità di cinque
evidenze empiriche universali (l’esistenza del mondo, dell’io come soggetto,
degli altri soggetti, dell’ordine morale, di Dio come causa prima di tutto); la
seconda, oggetto del saggio intitolato Metafisica e senso comune[2], afferma che la vera metafisica (non quella
razionalistica, che sfocia nella dialettica hegeliana) non è altro che la
formulazione scientifica e la giustificazione epistemica delle certezze che
costituiscono il senso comune. Ho potuto poi constatare con
soddisfazione che parecchi studiosi hanno preso in attenta considerazione
questo discorso[3]
e hanno notato come questa rivendicazione della metafisica, che altri continuano
a respingere ritenendolo un tentativo anacronistico di riportare il dibattito
filosofico ad epoche pre-critiche, muova da ragioni in gran parte nuove, in
quanto basata sulla mia nozione di “senso comune”, che si rifà non tanto alla
filosofia antica e medioevale quanto piuttosto alla filosofia moderna
anti-cartesiana[4]
e alla filosofia contemporanea di scuola analitica[5].
In particolare, i commenti di Evandro Agazzi[6],
di Francesco Arzillo[7],
di Roberto Di Ceglie[8],
di Ambrogio Giacomo Manno[9],
di Maria Antonietta Mendosa[10],
di Fabrizio Renzi[11]
e di Dario Sacchi hanno messo adeguatamente in rilievo come la mia
rivendicazione della metafisica non sia una “conseguenza” della filosofia del
senso comune ma sia proprio la stessa filosofia del senso comune, che a sua
volta è espressione del realismo come metodo della filosofia[12].
Colgo l’occasione, a questo proposito, per ribadire che questo tipo di argomentazione è l’unico che possa smentire alla radice le false ragioni con le quali gli esponenti del “pensiero post-metafisico” o del “pensiero debole” pensano di potersi sbarazzare della filosofia intesa in senso forte, ossia come scienza e come sapienza. Si rifletta su un ben noto luogo comune della polemica anti-metafisica svolta da decenni da Gianni Vattimo: «Si tratta di aprirsi a una concezione non metafisica della verità, che la interpreti […] a partire dall’esperienza dell’arte, della retorica. […] L’esperienza post-moderna, postmetafisica della verità è un’esperienza estetica e retorica. […] La nozione di verità non sussiste più, e il fondamento non funziona più, dato che non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba “fondare”»[13]. Ma anche Gilson aveva detto che il pensiero non deve “fondare”: deve invece riconoscere il fondamento che c’è[14]. Il pensiero post-metafisico polemizza con il pensiero idealistico e non si accorge che le sue critiche non mettono assolutamente in discussione il pensiero metafisico vero e proprio, perché questo è caratterizzato dall’accettazione del senso comune, il che equivale a rinunciare alla pretesa di costruire l’edificio filosofico con un fondamento “posto” dalla filosofia stessa, che si vuole autosufficiente, priva di presupposti.
Ma è
proprio sulla filosofia del senso comune che avverto alcuni cenni (garbati ma
espliciti) di dissenso tra altri studiosi che hanno commentato i due miei saggi
dei quali ho fatto cenno all’inizio. Mi
riferisco in particolare a Markus Krienke, a Horst Seidl e a Pier Paolo
Ottonello. Markus Krienke, studioso tedesco di Rosmini, ritiene che la mia
filosofia, indubbiamente “post-moderna”, possa recuperare e rivalutare alcuni
elementi positivi della filosofia “moderna”, a cominciare dal ruolo
fondamentale della logica epistemica e quindi della “certezza”. Trascrivo qui
le sue precise parole in proposito:
«L’analisi
di Livi rivela lucidamente in che senso la dicotomia di soggettivismo e
oggettivismo, in quanto fondata su un concetto astratto-scientifico del
soggetto conoscente e dell’epistemologia scientifica, è stata nella modernità
ciò che ha condotto alla perdita di una prospettiva filosofico-metafisica, cioè
alla perdita della dimensione “sapienziale” della filosofia, trasformando quest’ultima
in una scienza astrattamente logica. La cosiddetta “postmodernità”, con gli
esiti nichilistici e atei derivanti da questa interpretazione, non è il
“superamento” della modernità bensì il compimento di un tale approccio
razionalistico. Per trovare una strada alternativa a questo “destino” della
metafisica, Livi richiama giustamente la dimensione aletica della filosofia e
si rifà al modello aristotelico-tommasiano della metafisica. La modernità viene
accettata in quanto ci sono pensatori che – per la loro dottrina del senso
comune – si oppongono al metodo con cui la linea dei pensatori moderni
solitamente indicati come rappresentanti del razionalismo (Cartesio, Spinoza,
Kant, Fichte, Schelling, Hegel) realizza l’approccio critico e il dubbio
metodico. Ma forse l’intuizione di Livi può anche servire proprio a rivisitare
e a rivalutare questa linea, dato che proprio gli autori moderni da lui
proposti condividono in parte l’approccio moderno rifiutandone una forzatura
unilaterale (vedi lo stesso Vico, e poi Reid e Rosmini). Così è stato proprio
Rosmini stesso ad elaborare una possibile conciliazione tra il senso comune e
un approccio trascendentale (cfr. Nuovo
Saggio) e di integrarla nella sua metafisica (cfr. Teosofia). Quello che questi autori tentano di rivalutare è proprio
l’importanza della dimensione soggettiva per qualsiasi esperienza umana e per
la certezza di quest’esperienza. Visto che Livi parla proprio della “certezza”
dei cinque “giudizi di esistenza” come prima evidenza di ogni esperienza
metafisica del senso comune, c’è da chiedersi quanto l’aspetto della “certezza”
non abbia una componente irriducibilmente soggettiva (non soggettivistica o
individualistica). In questo senso, un ulteriore dialogo con il pensiero
moderno potrebbe scoprire anche negli autori moderni degli approcci positivi e
delle possibilità di un nuovo dialogo con l’intenzione della filosofia del
senso comune»[15].
Certamente,
non può non piacere (a tutti, ma in modo particolare a uno studioso di Rosmini)
l’ipotesi che una filosofia come la mia, così recisamente contraria al metodo
razionalistico, ne condivida in fondo alcuni valori teoretici, a cominciare con
l’accentuazione del problema della certezza e di conseguenza l’impianto
immanentistico, ossia la collocazione del punto di partenza della filosofia
nella coscienza del soggetto. La possibilità di trovare una conciliazione o una
sintesi fra una filosofia “post-moderna” e la filosofia “moderna” non può non
piacere a tutti, ma in modo particolare a uno studioso di Rosmini); anche a me
piace, ma ciò nonostante la ritengo astratta e impraticabile nella concretezza
della critica filosofica in atto. Spiego ora meglio, in tre brevi
considerazioni, perché dico questo.
1. Dal mio maestro, che è Gilson, ho appreso la
necessità, oltre che l’utilità, di riconoscere l’essenza del realismo, che
consiste in uno specifico metodo di riflessione filosofica che è esattamente
l’opposto dell’idealismo, motivo per cui è assolutamente impossibile conciliare
l’uno con l’altro metodo. Non serve alla filosofia dissimulare
l’incompatibilità e simulare la conciliazione: ne va della consistenza
teoretica di un sistema di pensiero. Nel nostro caso, ammettere che si possa,
anzi si debba stabilire come punto di partenza della filosofia la coscienza del
soggetto, ossia la soggettività come tale, è esattamente il contrario di quello che la
filosofia del senso comune prescrive, ossia il riconoscimento critico che il
punto di partenza della filosofia sono le cose: le cose in quanto sono e come
tali sono conosciute, certo, ma non perché
conosciute, non come “contenuti di coscienza”, ossia come idee,
rappresentazioni.
2. Che poi alcuni autori moderni (Pascal, Buffier, Vico,
Reid, Jacobi) siano i precursori della filosofia del senso comune così come io la formulo, è vero, ma ciò non
vuole assolutamente dire che la pretesa conciliabilità tra la filosofia del
senso comune e la filosofia dell’immanenza sia stata già realizzata nella
storia moderna: vuol dire semplicemente che non c’è una sola “filosofia
moderna”, non c’è un’essenza filosofica della “modernità”, come purtroppo si
continua a pensare e a dire, creando una premessa falsa dalla quale derivano
tante false conclusioni critiche[16].
3. Infine, che un filosofo cristiano così importante come
Antonio Rosmini abbia tentato di costruire un sistema metafisico compatibile
con la fede cristiana, opposto a quello hegeliano ma allo stesso tempo in linea
con certe esigenze del soggettivismo cartesiano e del trascendentalismo kantiano,
non significa che questa sia l’unica strada percorribile, né che si sia
arrivati, attraverso questa strada, a risultati del tutto soddisfacenti dal
punto di vista critico. Io ho sempre ammirato la grandiosità del sistema
rosminiano, e allo stesso tempo ho sempre rilevato in esso degli elementi di
ambiguità metafisica[17].
Da quello che dirò più avanti si capirà meglio quali siano, nel nostro
specifico caso, questi elementi di ambiguità metafisica, e quale relazione
possano avere con il problema del punto di partenza della “filosofia prima”.
Ciò non toglie, beninteso, che la mia filosofia del senso
comune sia moderna e post-moderna, come molti critici hanno detto: ma non nel
senso, che ho appena rifiutato, di un’accettazione implicita del soggettivismo o
del trascendentalismo (ciò implicherebbe un’incoerente contaminatio tra metodo realistico e metodo immanentistico), bensì
nel senso ovvio di una sintonia con la sensibilità e la problematica del tempo
al quale appartengo. La filosofia ha indubbiamente una dimensione sociale, che
si declina attraverso la storia, e per questo ho intitolato Storia sociale della filosofia la mia
più impegnativa opera di storiografia filosofica[18]. In questo senso, allora, accetto
l’osservazione di Roberto Di Ceglie, che parla degli «intrecci di gnoseologia e
metafisica che hanno abitato la riflessione filosofica moderna» e vede la mia
tesi sul rapporto tra senso comune e metafisica in piena sintonia con questo
orientamento critico:
«Ogni
scienza, quando si realizza, afferma qualcosa di vero. Ebbene, quando questo
accade, è perché è stata rispettata la coerenza con il punto di partenza del
sapere, con i fondamenti di ogni discorso. Alla metafisica, e solo ad essa,
tocca individuare tali fondamenti e valutare l’effettiva coerenza che con essi
registra lo sviluppo dei vari saperi. Secondo una siffatta impostazione è alla
metafisica, dunque, che compete la critica dei saperi, anche di quelli
specificamente filosofici, ai quali – come a tutti gli altri, e anzi più che a
tutti gli altri – è richiesta la coerenza con la conoscenza fondamentale. Una
prospettiva quale questa appena presentata risulta allora di particolare
interesse alla luce degli intrecci di gnoseologia e metafisica che hanno
abitato la riflessione filosofica moderna. Il confronto critico, proprio quello
notoriamente richiesto a gran voce da tali sviluppi, vi trova piena
accoglienza. Lo si può facilmente arguire dal fatto che questo volume termini,
a guisa di conclusione, con un capitolo dedicato appunto ai “Confronti critici”
(pp. 127-180) con alcune delle più importanti figure del pensiero filosofico
contemporaneo. Ma lo si può ancor meglio comprendere se – come si è già
sottolineato – dell’attualità di una siffatta impostazione si considerano le
ragioni propriamente filosofiche, ovvero di nascere in seno a un dibattito
sulla definizione della filosofia prima in rapporto al suo punto di partenza,
cosa che consente, anzi richiede, un dialogo con tutte le più rilevanti linee
di sviluppo della filosofia d’età moderna e postmoderna»[19].
Dunque,
sintonia culturale e partecipazione piena allo Zeitgeist, ma non compromessi speculativi sui temi essenziali della
verità del pensiero e sul suo fondamento. Ne va – ripeto – della validità di
tutto il sistema speculativo, che non può pretendere di avere un valore aletico
se contraddice il primo principio della logica aletica, ossia il “principio di
coerenza”. Che questo sia il nucleo dei miei ragionamenti su metafisica e senso
comune lo ha notato molto bene Maria Antonietta Mendosa, che a questo proposito
ha scritto:
«La
riflessione sulla nozione epistemica della logica del senso comune implica
un’analisi comparata tra le logiche degli altri sistemi di pensiero e la logica
aletica. Il saggio fa chiarezza sulla portata puramente formale, pragmatica e
autoreferenziale delle logiche moderne e contemporanee, a partire dal cogito
cartesiano, il cui campo di applicazione non coincide quasi mai con l’orizzonte
dell’esperienza originaria. Antonio Livi rileva, in particolare, che nei sistemi filosofici di Descartes, di Kant e di
Hegel c’è un’intrinseca incoerenza materiale
che non investe solo il profilo formale del pensiero, ma anche il
profilo metafisico. La sua critica si fonda sulla contraddizione evidente che
in codesti lineamenti di pensiero esiste un’impossibilità dell’essere pensato,
e non solo enunciato, senza riammettere le certezze assolutamente vere del
senso comune»[20].
Maria
Antonietta Mendosa ha ben compreso, dunque, che non è possibile condividere le
ragioni della filosofia del senso comune e poi auspicare che essa trovi un
punto di incontro con la filosofia dell’immanenza; non è possibile condividere
le critiche che, in base al “principio di coerenza” ho rivolto a Descartes,
Kant e Hegel, e di conseguenza a Husserl[21],
e poi vedervi un’implicita accettazione del loro punto di partenza, che è
proprio ciò che io ho criticato.
Passando ora ai rilievi critici mossi da Horst
Seidl, mi sembra che l’illustre collega tedesco, partendo da (inconsapevoli)
presupposti razionalistici, non comprenda le ragioni che giustificano la mia
tesi circa la presenza dell’ente in atto (“le cose”) come immediatamente dato
alla conoscenza umana nel suo stesso inizio. Egli afferma, riportando il
discorso alla formalità astratta dell’idea di ente, che l’intelletto già dispone, a priori, di una nozione di “essere” con
la quale “interpreta” l’esperienza. Nel suo intervento su questo specifico aspetto della questione si intrecciano le sue ben note competenze in
materia di filosofia antica (Aristotele) e la sua dimestichezza con la
filosofia tedesca degli ultimi secoli, e quindi conviene esaminare in dettaglio
la sua argomentazione:
«Secondo la riflessione aristotelica degli Analitici
secondi, l’essere delle cose è il presupposto di qualsiasi conoscenza,
cioè anche di ogni esperienza, cosicché esso non può diventare oggetto di
esperienza, ma soltanto della coscienza, nel significato classico di “con-scire” ossia di “con-sapere” che accompagna ogni
esperienza. La teoria che rileva questo fatto può essere soltanto la filosofia
della conoscenza (gnoseologia, epistemologia), non una filosofia del senso
comune, cioè dell’esperienza. Di fatto, la filosofia di un Thomas Reid è di
profilo empirista, che ritiene come fondamento di ogni conoscenza l’esperienza,
non più l’ontologia classica. Tommaso d’Aquino, la cui dottrina in questo segue
quella di Aristotele, dice che “l’ente è il più noto”: ens est primum notum;
non dice: cognitum. L’ente non è conosciuto per mezzo dell’esperienza,
ma soltanto con-saputo per mezzo della coscienza. Già Parmenide, contro
l’empirista Eraclito che vedeva nell’essere delle cose una mera apparenza
sensibile, scopre, per la prima volta, che l’essere delle cose è intelligibile,
cioè oggetto dell’intelletto (con un atto intuitivo, della coscienza, diremmo
oggi), e comprende tutte le cose naturali con il participio presente “ente”.
Nella frase: ésti gàr eînai,
si deve mettere come complemento “l’ente” e tradurre: “è infatti possibile che
l’ente sia”, mentre è impossibile che il non-ente sia»[22].
Ci sono in questo discorso molte osservazioni
assolutamente condivisibili, ma anche altre che io non posso accettare, perché
non sono vere, né dal punto di vista storiografico[23]
né dal punto di vista teoretico. E, dal punto di vista teoretico, queste
osservazioni riportano a dei principi gnoseologici che conducono
inevitabilmente a considerare la metafisica come l’esplicazione di un “logos” che si aggiunge alla “empeiria” e la trascende. Questa formula
– che è esplicita in Gustavo Bontadini e nei suoi allievi, come Evandro Agazzi,
Aniceto Molinaro e Leonardo Messinese[24]
– in Horst Seidl è soltanto implicita,
ma a me sembra che le premesse siano le medesime. Le premesse sono infatti in
una concezione della conoscenza secondo la quale l’esperienza sarebbe di per sé
inintelligibile, sicché tutta l’intelligibilità del reale proverrebbe dalle
funzioni dell’intelletto. Si tratta,
evidentemente, del modulo classico del razionalismo cartesiano, che genera
l’empirismo e dà luogo infine alla negazione da parte di Kant di un «intuizione
intellettiva». La metafisica è dunque ciò che trascende l’esperienza “creando” delle categorie apposite, a cominciare dalla
nozione di essere.
Beninteso, Seidl è sempre
pronto ad approvare chi critica l’apriorismo kantiano e in particolare il
rifiuto di Kant di ammettere che ci sia una intuizione intellettiva[25]. Ma ciò non toglie che per lui l’esperienza e
l’intuizione delle categorie metafisiche siano due momenti distinti (anche se
non successivi) della conoscenza. E, dicendo questo, Seidl indirettamente dice
che non è vero che la metafisica formalizza le conoscenze di senso comune, come
io sostengo. Nella metafisica, così come la intende Seidl, non ha più alcuno spazio
il senso comune, perché esso è interpretato (contro ogni chiarimento che io ho fornito in proposito) come
sensazione e quindi ricondotto all’esperienza come mera raccolta di dati
sensibili.
La mia filosofia del senso
comune non può però essere rifiutata sulla base di questo equivoco concettuale.
Io ho sempre dedicato ampio spazio a spiegare che per “esperienza” intendo la
conoscenza immediata, in quanto conoscenza e in quanto immediata[26].
Si tratta della percezione originaria dell’essere degli enti, i quali sono percepiti
come tali (sicut entia) dall’intelletto
(simplex apprehensio e iudicium). È infatti l’intelletto che,
sulla base dei dati forniti dai sensi, in un solo atto di conoscenza ne coglie
sia la presenza, ossia il loro “esserci” (Dasein),
sia l’essenza (Wesen), ossia il loro
essere qualcosa. Questo è, per Tommaso, l’atto di «cognoscere esse rerum secundum eorum essentiam». Anche se il
termine “esperienza”, che io uso in contrapposizione a “inferenza” e a
“testimonianza”, non corrisponde in
tutto e per tutto al termine aristotelico di “empeiria” e a quello tommasiano di “experimentum”, il suo significato nella filosofia del senso comune
è ben determinato, e in sostanza corrisponde alla struttura della gnoseologica
classica, dove “nus” (in latino “intellectus”) si contrappone a “dianoia” (in latino “ratio”). Quanto poi alla distinzione che
Seidl vorrebbe operare tra il termine “notum”
e il termine “cognitum”, io proprio
non riesco a capirla. Grammaticalmente i due termini sono assolutamente
sinonimi (sono entrambi participi passati, con significato passivo,
rispettivamente del verbo “nosse” e del verbo “cognoscere”, che in latino sono appunto sinonimi). Quanto poi
al loro uso presuntamene diverso nel
lessico tommasiano, ciò non mi risulta. Tanto meno mi risulta che Tommaso veda
nell’intelletto umano un momento “costruttivo” per cui «nella coscienza» i dati
dell’esperienza acquistano dimensioni intellettive e quindi metafisiche. La
questione non è marginale. Essa tocca il punto essenziale di discrimine tra la
metafisica “razionalistica” e quella non-razionalistica. Questa impostazione
metodologica caratterizza appunto la metafisica “razionalistica”, e la
caratterizza a tal punto che essa coincide – quanto al metodo – con il pensiero
anti-metafisico o di “superamento della metafisica” che è proprio di Heidegger.
Si pensi a come Friedrich-Wilhelm von Herrmann descrive il passaggio dalla
metafisica classica (Aristotele) al pensiero heideggeriano:
«Heidegger assegna alla
domanda guida della storia della metafisica la formulazione aristotelica: “che
cos’è l’ente?”. La domanda guida cerca il “che cos’è” un quanto essere
dell’ente. È la domanda metafisica sull’essere. Da essa Heidegger estrae la
domanda più originaria: “che cos’è l’essere stesso?”, che egli chiama la domanda fondamentale perché in essa
si fonda la domanda guida»[27].
Chiedersi “come” siano gli enti della nostra
esperienza immediata ha senso, così come ha senso analizzare nel linguaggio
ordinario in quali modi si usa il termine “ente”: e questo in effetti fa
Aristotele, senza cadere nell’equivoco (tutto moderno) di “applicare” agli enti
una categoria mentale – che all’origine dovrebbe essere da essi indipendente –
che ha il nome di “essere”. Ma, una volta introdotta in filosofia la parola
“essere” (che per la metafisica classica è un modo di “dire” gli enti realmente
esistenti), non ha alcun senso domandarsi quale sia la sua “essenza”: l’essenza
è ciò che dell’ente singolo e
concreto la mente intuisce («simplex
apprehensio») come insieme di accidenti propri, che collocano (mentalmente)
tale ente in una “classe” o “categoria” (genere, specie). Deve averlo compreso
bene Flavia Silli quando scrive, commentando il mio saggio su Metafisica e senso comune:
«Risulta
di fondamentale importanza: 1) non cedere alla tentazione di ipostatizzare o,
peggio ancora di “reificare” la nozione di essere, e poi 2) preservare la
distinzione tra verità ontologica (o verità delle cose) e verità logica (verità
del pensiero); proprio perché – come insegna Aristotele – «l’essere si dice in
molti modi», anche la verità sulle cose si dovrà necessariamente intendere in
molti modi. L’immanentismo è il risultato di quelle metafisiche “univocistiche”
che annullano ogni processo analogico nell’indistinzione “qualitativa” tra
essere ed enti»[28].
Nella filosofia classica, nel realismo, la domanda
sull’essenza dell’essere è assolutamente priva di senso. Riacquista senso se si
scopre che l’essere di cui si parla è solo una parola, un termine, un elemento
del linguaggio, e il linguaggio è l’unica cosa che si può esaminare, come pensa
Heidegger implicitamente e Gadamer esplicitamente. Poi Severino assolutizza il
“circolo vizioso” del pensiero che riflette sul linguaggio-che-è-pensiero. Chi,
come Bontadini, Molinaro e Seidl, sostiene che l’essere è una categoria che si applica all’esperienza – invece di
essere derivata da essa per via di induzione – ritiene in buna fede di praticare
la metafisica in continuità con la metafisica classica, ma in realtà ha assunto
i principi metodologia della metafisica cartesiana. L’essere di cui questi
pensatori parlano non è l’essere degli enti, ma l’essere che permette di
“vedere” intellettualmente gli enti: è un «a
priori», un’idea percepita immediatamente dall’intelletto e non derivata
dalla percezione sensibile. Questa però non è metafisica: è ontologia
certamente, ma un’ontologia di stampo “ontologistico”.
Mi sono soffermato sull’intervento critico di Horst
Seidl perché esso dimostra come sia tuttora presente nel pensiero contemporaneo
l’impostazione metafisica razionalistica, sia pure in autori che ritengono di
averne preso sufficientemente le distanze. Ma lo stesso discorso di fondo
potrei fare a proposito di alcuni altri interventi, soprattutto di quello di
Pier Paolo Ottonello, il quale più esplicitamente si rifà all’ontologia di
Antonio Rosmini, con la sua «idea dell’essere»[29].
Mentre Krienke si limita a suggerire un
confronto con il Roveretano, Ottonello ritiene di poter dire che la mia filosofia del senso comune ha molti
punti di contatto con quella metafisica. Ma all’autorevole filosofo genovese,
interprete di Rosmini e scolaro di Michele Federico Sciacca, dico che, proprio
su questo specifico punto (che è poi il punto fondamentale) non si può
assolutamente accostare la filosofia del senso comune all’ontologia di Rosmini.
La ragione per la quale ho sempre pensato e continuo
ancora oggi a pensare che non ci possa essere una sostanziale omogeneità
teoretica tra la filosofia del senso comune e l’ontologia di
Rosmini è che quest’ultima, pur essendo il frutto di una mente di eccezionale
livello speculativo e di un’anima illuminata davvero dallo Spirito Santo, non contiene in sé, senza ambiguità, quei
principi metodologici che fondano davvero il realismo e la metafisica.
L’enciclopedia di Rosmini, che costituisce indubbiamente una delle imprese
speculative più rilevanti dell’Ottocento e che rivive nel Novecento grazia a Michele
Federico Sciacca, appartiene a un’epoca della filosofia cristiana che troppo risente
dell’egemonia concettuale e linguistica dell’idealismo: all’epoca di Rosmini,
l’idealismo trascendentale di Kant e l’idealismo assoluto di Hegel; all’epoca
di Sciacca, l’idealismo attualistico di Giovanni Gentile. In entrambi i casi,
non sembra che questi due pensatori cristiani abbiano potuto o voluto
abbandonare del tutto il presupposto idealistico per cui la metafisica si basa sulle
idee, a cominciare dall’idea di essere, ragione per cui è l’intuizione
intellettiva dell’essere a occupare il posto del primo principio[30].
La filosofia del senso comune consiste invece nel considerare come primo
principio non un’idea ma un giudizio, il giudizio di esistenza originario («res sunt») che esprime la percezione
dell’essere delle cose date nell’esperienza immediata. Non vedo come si possa
dunque equiparare il senso comune, così come io lo intendo, all’idea di essere
concepita come un «a priori» del
quale l’intelletto dovrebbe servirsi per “decifrare” la realtà[31].
[1] Cfr Antonio Livi, Filosofia
de senso comune. Logica della scienza e della fede, nuova edizione, Casa
Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010.
[2] Cfr Antonio Livi, Metafisica
e senso comune. Sullo statuto epistemologico della “filosofia prima”, Casa
Editrice Leonardo da Vinci, Roma 22010.
[3] Cfr Valentina Pelliccia (ed.), Per una metafisica non razionalistica.
Discussione su “Metafisica e senso comune”, di A. Livi, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2008; Philip Larrey (ed.), Per una filosofia del senso comune. Studi in onore di Antonio Livi, Italianova,
Milano 2009; Antonio Livi (ed.), La
filosofia del senso comune al vaglio della critica, Casa Editrice Leonardo
da Vinci, Roma 2010; Thomas Rego, La doctrina del sentido común en Aristóteles, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2011; Mario Mesolella (ed.), Realismo e fenomenologia, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[4] Si vedano in proposito i saggi raccolti da Mario
Mesolella (ed.), I filosofi moderni del
senso comune: Pascal, Buffier, Vico, Reid, Balmes, Rosmini, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2010.
[5] Vedi Giovanni Covino (ed.), La nozione di “senso comune” nella filosofia
del Novecento, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[6] Cfr Evandro Agazzi, recensione in Epistemologia, 35 (2012), pp 179-192.
[7] Cfr Francesco Arzillo, Il fondamento del giudizio, Casa
Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005.
[8] Cfr Roberto Di Ceglie, La filosofia del senso comune in Italia:
obiezioni e risposte, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005.
[9] Cfr Ambrogio Giacomo Manno, Il senso comune, la metafisica e la
teologia, in Valentina Pelliccia (ed.), Per
una metafisica non razionalistica. Discussione su “Metafisica e senso comune”,
di A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 31-44.
[10] Cfr
Maria Antonietta Mendosa, Epistemologia del senso comune, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma
2002.
[11] Cfr Fabrizio Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica.
Analisi della nuova proposta teoretica di Antonio Livi, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2012
[12] Questa espressione ― il realismo come
metodo della filosofia ― è particolarmente efficace, pur nella sua sinteticità,
e infatti l’ho utilizzata per tradurre in italiano il celebre saggio di Gilson
del 1935, Le Réalisme méthodique (cfr Etienne Gilson, Il realismo, metodo della filosofia, ed. Antonio Livi, Casa
Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008.
[13] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 19993, pp.
20-21: 175.
[14] Cfr
Étienne Gilson, Le Réalisme méthodique,
Pierre Téqui Editeur, Parigi s.d. (ma 1935).
[15]
Markus Krienke, Per una metafisica
post-moderna. La “filosofia del senso comune”
di A. Livi, in Valentina Pelliccia (ed.), Per una metafisica non razionalistica. Discussione su “Metafisica e
senso comune”, di A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp.
75-86.
[16]
Cfr Antonio Livi, “Il cristianesimo nella filosofia moderna, tra razionalismo e
scetticismo”, in Studium, 98 (2002),
pp. 495-522; Idem, Fede cristiana e filosofia nell’età moderna: il problema
della certezza, in Edoardo Mirri e Furia Valori (edd.), Fede e ragione, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2003, pp. 127-142; Idem, “Da Descartes a Rosmini: le categorie
cristiane nella filosofia moderna”, in Rivista
rosminiana, 97 (2003), pp. 341-366; Idem, “Filosofia e ortodossia. Il
pensiero cristiano, grembo della modernità”, in Studi cattolici, 47 (2003), pp. 84-89.
[17]
Cfr Antonio Livi, “La 'teosofia' rosminiana: il suo fascino e le sue ambiguità”,
in L’Osservatore romano, 12 luglio
2001, pp. 5-6; Idem, Vera e falsa
teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca
“filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[18] Cfr Idem, Storia sociale della filosofia, 3 voll., Società Editrice Dante
Alighieri, Roma 2006-2008.
[19] Roberto Di Ceglie, La metafisica come formalizzazione
dlel’esprienza, in Valentina Pelliccia (ed.), Per una metafisica non razionalistica. Discussione su “Metafisica e
senso comune”, di A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp.
59-64, qui pp. 63-64.
[20] Maria Antonietta Mendosa, La metafisica alla luce della logica
aletica, in Valentina Pelliccia (ed.), Per
una metafisica non razionalistica. Discussione su “Metafisica e senso comune”,
di A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 51-57, qui pp.
54-55.
[21] Cfr Idem, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Armando
Editore, Roma 1997.
[22] Horst Seidl, La metafisica tra esperienza e scienza,
in Valentina Pelliccia (ed.), Per una
metafisica non razionalistica. Discussione su “Metafisica e senso comune”, di
A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 54-50, qui p. 47.
[23] Per quanto riguarda Thomas Reid, la
verità è che egli fa ricorso alla nozione di “common sense” (trasmessagli dal francese Claude Buffier) proprio
come reazione contro la tradizione idealistica cartesiana, che in Gran Bretagna
aveva assunto le forme dell’empirismo con John Locke e soprattutto con il suo
conterraneo David Hume. Per persuadersene, basti con siderale che il “common sense” reidiano veniva a
giustificare la percezione immediata delle categorie metafisiche indispensabili
per sostenere la morale e la religione. Se Immanuel Kant prima e Antonio
Rosmini poi criticano Reid, non è perché egli sia un empirista ma perché sembra
loro poco idealista, ossia perché vedono che egli attribuisce all’esperienza un
contenuto che è già materialmente metafisico, senza ricorrere ad alcuna
categoria «a priori» né all’«idea di essere». Vedi Antonio Livi, Il senso comune tra razionalismo e
scetticismo. Vico, Reid, Jacobi, Moore, Massimo Editore, Milano 1992.
[24] Vedi Mario Mesolella (ed.),Realismo e fenomenologia, cit.
[25] Cfr. Horst Seidl, Metafisica e realismo, Lateran University Press, Città del Vaticano
2007.
[26] Cfr. Antonio Livi, Verità del pensiero. Fondamenti di logica aletica, Lateran
University Press, Città del Vaticano 2002, pp. 53-128; Idem, La ricerca della verità. Dal senso comune
alla dialettica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005, pp. 143-228.
[27] Friedrich-Wilhelm von Herrmann, La metafisica nel pensiero di Heidegger,
trad. it., ed. Aniceto Molinaro, Urbaniana University Press, Città del
Vaticano 2004, pp. 16-17. È da notare l’assoluta gratuità dei
riferimenti storiografici e l’assoluta vaghezza delle definizioni. Per chi
pensasse che il difetto di chiarezza e di logica stia nella traduzione
italiana, riporto anche l’originale tedesco: «Die Leitfrage der Geschichte der Metaphysik
gibt Heidegger die aristotelische Formulierung “Was ist das Seiende?”. Die Leitfrage fragt nach dem Wassein als dem Sein des
Seienden. Sie ist die metaphysische Seinsfrage. Dieser entnimmt Heidegger die
ursprünglichere Frage „Was ist das Sein selbst?“, die er die Grundfrage nennt,
weil in ihr die Leitfrage gründet» (ivi,
pp. 90-91)
[28] Flavia Silli, La
metafisica, essenza della filosofia, da Aristotele ai nostri giorni, in Valentina Pelliccia (ed.), Per una metafisica non razionalistica.
Discussione su “Metafisica e senso comune”, di A. Livi, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 107-116.
[29] Pier Paolo Ottonello, Livi,
la metafisica e il senso comune, in Valentina Pelliccia (ed.), Per una metafisica non razionalistica.
Discussione su “Metafisica e senso comune”, di A. Livi, Casa Editrice
Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 19-30.
[30]
Per una sintesi critica assai perspicua della metafisica di Sciacca e per il
suo debito con Rosmini, si veda il saggio di Alberto Caturelli, Michele Federico Sciacca. Metafisica
dell’integrità (Edizioni Ares, Milano 2008), che viene definito da Pier
Paolo Ottonello «nitida, organica, esaustiva ricostruzione dell’intera opera di
Sciacca» (Prefazione, p. 6).
[31] Che l’idea rosminiana di essere sia un
“a priori” cognitivo (assimilabile, almeno in parte, all’a priori kantiano), è quanto sostiene esplicitamente un interprete
come l’autore prima citato, che Pier Paolo Ottonello ritiene affidabile; egli
infatti scrive: «Nella piena maturità del pensiero moderno, sia Kant che
Rosmini hanno posto lo stesso problema, consistente nell’oggettività della
conoscenza e nella necessità di restaurare la metafisica. Per Kant i principi
del conoscere sono forma a priori
della mente, ma l’unica cosa che è a
priori è solo la forma vuota, pura condizione della conoscenza […]. Per
Rosmini la forma a priori non è solo
forma vuota, ma è Idea come oggetto intuito dalla mente e su questa base
ricostruisce la metafisica; esistono verità seconde, ma esiste una verità prima
che le rende possibili e che è data da Dio alla mente e non è da essa creata»
(Alberto Caturelli, Michele Federico
Sciacca, cit., pp. 178-179).