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21 dicembre, San Tommaso Apostolo e Martire
Nell’odierna generale confusione dottrinale s’infiltra
nell’immaginario collettivo, purtroppo anche (o purtroppo soprattutto...)
cattolico, l’idea che sia sufficiente la morte violenta - con un qualsiasi riferimento a Cristo che,
in questi tempi di rahneriano “cristianesimo anonimo”, è quanto mai vago - per
essere iscritti nell’albo dei martiri. Non stiamo parlando solo dell’equivoco
su cui naviga la retorica dei politicanti che, facendo leva su sentimenti ed
emozioni guidati male, usa, abusa e confonde la nozione di martire cristiano
con il semplice fatto d’essere stato ucciso nei più diversi contesti, ma stiamo
parlando del disfacimento della nozione di martire cristiano per scopi ecumenici.
A ben veder, ciò che è contraddetto a livello dogmatico è
il valore soprannaturale della virtù di fede e l’unicità del suo oggetto. Al
contempo a livello apologetico è misconosciuta la possibilità di riconoscere il
vero martire di Cristo, che la stabilità d’animo, la preghiera pei persecutori,
il disinteresse e la magnanimità, ma soprattutto la forza e il coraggio infusi
nella professione della vera fede, straordinariamente uniti a mansuetudine e
misericordia, contraddistinguono da chi è naturalmente coraggioso (o perfino
solo ostinato). Non basta infatti morire col nome di seguace di Cristo. Per
dirla con Sant’Ambrogio: “anche gli eretici sembrano avere Cristo con
sé; perché nessuno di loro rinnega il nome di Cristo, ma rinnega Cristo chi non
professa tutto ciò che è di Cristo”[1].
L’insegnamento dell’Aquinate
Nella nuova prospettiva ecumenista quindi è una non
meglio precisata nozione di virtù naturale di forza, una certa capacità di resistenza
davanti al carnefice unita alla presenza del nome cristiano, che renderebbe
“martiri” e ciò malgrado il gravissimo disordine dell’adesione all’eresia o
allo scisma, che formalmente non merita certo il Cielo, ma piuttosto, in sé, il
fuoco eterno. Scompare l’armonia dell’insieme delle virtù soprannaturali,
scompare soprattutto l’oggetto che giustifica l’accettazione della morte, la
vera fede. E ciò in contrasto con l’insegnamento del sommo teologo della Chiesa: “sopportare che sia inflitta la morte non è cosa lodevole in sé, ma in quanto
è ordinato ad un determinato bene, il quale consiste nell’atto della virtù come
nel caso della fede e dell’amore di Dio”[2].
Non è dunque il fatto di subire la morte che merita, ma il fatto d’ordinarne la
sopportazione al bene supremo soprannaturale. L’Aquinate
concede che talvolta si possa parlare a buon titolo di martirio anche quando si
debbono esteriormente esercitare altre virtù riferite a Dio, nella misura però
in cui sono esternazione dell’unica vera fede, come nel caso del Battista che
deve pubblicamente rimproverare l’adulterio d’Erode. La prospettiva rimane tuttavia
sempre rigorosamente oggettiva e l’atto in questione deve essere sempre soprannaturalmente
esercitato, difendendo la fede della Chiesa[3],
solo all’interno della Quale si può meritare.
Laddove invece ciò che merita la corona del martirio non
è più la difesa dell’unica fede soprannaturale, ma il coraggio naturale o altri
aspetti d’ordine naturale e laddove il discorso si sposta verso la prospettiva antropocentrica,
quando non apertamente panteista, diventa così possibile parlare di “martirio
ecumenico”.
“Extra
Ecclesiam nulla salus” risponde la Chiesa. Essa, precisando il senso di tale
dogma, se ci dice che non vi può essere
salvezza, a fortiori afferma che non
può esservi vero martirio, poiché il martirio costituisce in certo senso la
“salvezza eroica” ovvero il “quasi maximae
charitatis signum”, come dice San Tommaso[4].
Alterare la nozione di martire, attribuendola ad esempio anche ai protestanti
uccisi, non è quindi cosa dappoco: si va infatti ad intaccare ciò che c’è di
più elevato nell’esercizio della carità, la cui soprannaturalità risulta così
deturpata insieme alla fede, al merito, alla salvezza nella Chiesa. Ma lasciamo
ai Padri di spiegarci il perché.
Il pensiero dei Padri della Chiesa attestato da Sant’Agostino
e San Giovanni Crisostomo
La Chiesa ha sempre avuto a cuore la chiarezza di tale
concetto sui Santi Martiri, su cui qualche errore era sorto fin dai primi
secoli (errori ed eresie infatti tendono a rinascere sempre nuovi e sempre
simili come le male piante). L’ufficio dell’Ottava dei Santi dedicava ben tre Lezioni,
a conclusione degli otto giorni di celebrazione dei nostri protettori celesti,
per mettere in guardia dall’errore “latitudinarista” o relativista.
Il terzo Notturno dell’8 novembre proponeva a tutti i sacerdoti
la lettura dell’omelia di S. Agostino sul gran merito delle persecuzioni. Il
Santo Vescovo d’Ippona, ricordate le condizioni già di per sé straordinarie per
esser martire cattolico, rammenta che non v’è frutto per chi muore senza
esultare: non è martire ad esempio colui che maledice il persecutore e il
destino che gli è toccato (ampia allusione alla reazione soprannaturale davanti
alla morte). Soprattutto mai è martire l’eretico, poiché anche se molti “hanno
perso l’anima pel nome cristiano” e anche se molti “hanno patito le stesse cose”
che i nostri martiri, sono tuttavia esclusi dalla corona eterna: “sed ideo excluduntur ab ista mercede”[5]. Il
motivo è basilare e Sant’Agostino lo spiega col Vangelo: è vero che Nostro
Signore ha detto “beati coloro che subiscono persecuzione”, ma ha anche
aggiunto “per causa della giustizia”. E laddove non è la vera fede non vi può
essere tale giustizia, “ubi autem sana fides
non est non potest esse iustitia”, poiché “il giusto vive mediante la fede”
dice il Santo Padre della Chiesa riprendendo San Paolo (Eb 10, 38). Non v’è
nessuna vitalità soprannaturale, nessuna “giustizia teologale” senza la vera
fede. E che gli scismatici non osino mai attribuirsi la grandezza del martirio,
prosegue il grande Africano, poiché non gli è stata promessa, poiché non hanno
la carità: “se l’avessero non dilanierebbero il Corpo di Cristo ch’è la Chiesa”.
Di quale salutare amore di Dio potranno mai gloriarsi? E “laddove non v’è carità,
mai potrà esservi la giustizia”[6],
necessaria secondo le parole di Cristo perché la persecuzione possa essere
feconda.
Il Crisostomo poi è lapidario: “nemmeno il sangue del martirio può lavare da
tale peccato (di scisma)” e se vuol “lavarsi” della colpa che torni nell’ovile
che ha abbandonato. Continua poi con la domanda:
“dimmi dunque, per qual causa si è martiri?”, per quale motivo si muore...“non è
forse per la gloria di Cristo?”[7]. E
non muore per la gloria di Cristo colui che è ucciso fuori della Sua unica
Chiesa, a nulla valendo lo scorrimento del suo sangue, se non è nella vera fede.
Non è membro dell’unico Corpo di Cristo, come già indicato da Sant’Agostino,
colui che per l’eresia o lo scisma dilania la carne di Cristo e quand’anche
debba patire sofferenze e morte, il suo non è un sacrificio oggettivamente
gradito a Dio. Potrà esserlo agli uomini o ai partigiani della setta, ma non lo
è a Dio, poiché oggettivamente muore per l’errore e non per la Verità. Non può
essere “martire” che vuol dire “testimone”, testimone di tutta la verità di
Cristo: “rendono testimonianza alla verità, non ad una qualsiasi, ma alla
verità che è secondo la pietà”, dice S. Tommaso, ovvero la verità
cattolica. “E quindi la causa di
qualsivoglia martirio è la verità della fede” [8].
L’Ipponense con poche asciutte parole dirà altrove: “martyrem
Dei non facit poena sed causa”[9] e
dopo tale lapidaria sentenza, non si sottrae alla spiegazione paziente. Non è
certo il tipo di supplizio che nobilita una morte, ma la causa, l’oggetto della
resistenza al carnefice. Sant’Agostino l’afferma a proposito delle sterili e
fuorvianti discussioni sulle atrocità donatiste o le repressioni dei cattolici:
“togliamo di mezzo gli inutili rimproveri che le due parti sogliono scagliarsi
reciprocamente per ignoranza: tu non rinfacciarmi i morti di Macario come io
non ti rinfaccerò la crudeltà dei Circoncellioni. Se questo fatto non ricade su
di te, nemmeno l’altro ricade su di me…” [10].
Veniamo al dunque, sollecita il Vescovo, “trattiamo della cosa in sé” (“re agamus, ratione agamus”)[11] e
la verità è ancora che “martyrem non
facit poena sed causa”.
Non lo si ripeterà
mai troppo - specie nei nostri tempi di soggettivismo e di conseguente relativismo
-, S. Agostino fa sempre appello all’oggettività,
alla cosa in sé e non alle contingenze. Il pensiero relativista dei Donatisti
di ieri - o degli ecumenisti liberali di oggi - vuol costantemente distogliere
l’attenzione dall’oggetto, perché sa di perdere su un tale terreno; i Padri al
contrario ce lo ricordano. Così fa il pensiero modernista dei tempi nostri, alla
luce della nuova religione dell’uomo per cui la violenza produrrebbe quasi
automaticamente il martirio. S. Agostino invece - e lo fa proprio parlando del
vero o del falso martirio, seguendo le parole di S. Luca - ci ricorda che la
violenza può essere anche un dovere e essere giusto esercitarla. Il martirio è
un’altra cosa.
Se infatti è la pena che fa il martire, i ladri e gli
assassini condannati a morte potrebbero vantarsi d’un tal titolo, fa notare il
grande Padre della Chiesa: “nam si poena
facit martyrem et latro quando occiditur martyr est”[12].
A chi ancora non comprende, S. Agostino chiede
retoricamente: davvero volete conoscere perché nel martirio ciò che conta è la
causa e non la pena? Ebbene, mettetevi allora davanti agli occhi la scena del
Calvario e pensate alle tre croci e a chi vi era appeso. La pena era uguale per
tutti, ma era “la causa ciò che separava coloro che invece la pena univa”. Uno
dei tre era il Giusto e non meritava la Croce, gli altri due invece meritavano
a giusto titolo il patibolo. Tutti e due. Giusta era la loro condanna a morte,
ma uno dei due chiese perdono e, riempito di fede e carità soprannaturali e con
la speranza teologale di chi era sospeso alla destra di Cristo, andrà in Cielo,
benché giusta fosse la sua crocifissione: “per noi è giustizia e riceviamo la
pena per i nostri delitti” (Lc 23, 40). L’altro invece, anche lui giustamente
condannato a morte per le sue malefatte, non avrà parte alla vita eterna perché
ha rifiutato Cristo. Crocifissione per tutti e tre, ingiusta per Cristo, giusta
anche per il Buon Ladrone che non va in Cielo per la pena sofferta, ma per le
disposizioni del suo cuore. Crocifissione per l’altro ladrone, che la Scrittura
ci lascia intendere bruciare all’inferno[13].
Ecco a chi Sant’Agostino associa i “martiri ecumenici”: al cattivo ladrone, che
non è certo esempio di salvezza.
Anzi, per il Padre della Chiesa il parallelo col ladrone
che muore bestemmiando sottolinea non solo che chi è ucciso violentemente nella
setta, quindi fuori dal Corpo di Cristo, non ha alcun titolo di merito, ma anche
s’avanza l’idea dell’aggravante costituita dall’ostinazione e dalla pervicacia
non soprannaturali, in quella che avrebbe potuto essere un’occasione di
pentimento, come lo fu per il Buon Ladrone.
L’Ipponense ha motivo d’essere così crudo, perché
l’eretico o lo scismatico formalmente preso, è il peggior nemico di Cristo,
peggiore anche del ladrone, indurito da una lunga vita di ruberie e d’omicidi. Essendo
un corruttore della Verità rivelata e un laceratore della carne di Cristo, il solo
“sangue del martirio” non può “lavarlo da tale peccato” (per riportare l’eco
del Crisostomo).
Ecco l’insegnamento di due Santi Padri sul “martirio ecumenico”,
di cui non solo è pastoralmente inopportuno e scandaloso parlare per i singoli,
giacché non ne conosciamo “la piena avvertenza e il deliberato consenso” e Dio
solo conosce le disposizioni dell’ultimo loro istante di vita (de internis non iudicat Ecclesia, la Quale deve dunque limitarsi a
ciò che è pubblico e formale), ma è anche speculativamente eterodosso, in
quanto viene a negare l’extra Ecclesiam
nulla salus. Sant’Agostino non avrebbe detto che voler imporre alla Chiesa
la lettura d’un martirologio ecumenico è semplicemente voler festeggiare le
bestemmie del “cattivo ladrone”, solo perché fu comune il supplizio della croce?
La Redazione
[1] Ambr., Luc. VI,
101 (CSEL 32/4).
[2] “Tolerare mortem non est laudabilis secundum
se, sed solum secundum quod ordinatur ad aliquod bonum, quod consistit in actu
virtutis, puta ad fidem et ad dilectionem Dei”, S.Th., IIa IIae, q. 124, a.3, c.
[3] S.Th., IIa IIae, q. 124, a. 5, c.
[4] S. Th., IIa IIae, q.124, a. 3, c.
[5] Aug., serm.dom. I, 5 (CCL 35).
[6]
Ibidem.
[7] Io.Chr., hom. in Eph. XI, 4.
[8] S. Th., IIa IIae, q.124, a. 5, c.
[9]Aug. serm. CCLXXXV, c. 2. Per i luoghi paralleli cfr. la nota 13.
[10] Aug., epist. XXIII, 6-7 (CSEL 34/1).
[11] Ibidem.
[12] Aug, serm. CCCXXVIII, c. 8.
[13] Ibidem: “Vultis noscere quia non
facit martyrem poena sed causa? Tres illas
cruces attendite ubi Dominus crucifixus est in medio duorum latronum. Poena
aequalis erat sed causa separabat quos poena iungebat […]Tres
erant cruces. Aequalis poena sed dispar
est causa. Unus damnandus alter salvandus, in medio damnator et Salvator.
Unum punit, alterum solvit. Crux illa tribunal fuit ». Pei luoghi paralleli cfr. : Aug. serm. CCLXXXV, c. 2, “Illud ergo praecipue commonendi estis, quod assidue commoneri, et semper cogitare
debetis, quod martyrem Dei non facit poena, sed causa. Iustitia enim
nostra, non cruciatibus, delectatur Deus: nec quaeritur in omnipotentis
veracisque iudicio, quid quisque patiatur, sed
quare patiatur. Ut enim cruce dominica nos signemus, non fecit hoc Domini poena, sed causa. Nam si poena hoc fecisset,
hoc et latronum similis poena valuisset. Unus locus erat trium crucifixorum, in
medio Dominus, qui inter iniquos
deputatus est. Duos latrones hinc atque inde posuerunt: sed causam similem non habuerunt. Lateribus
pendentis adiungebantur, sed longe separabantur. Illos facinora sua, illum
crucifixerunt nostra. […] Crux Christi in medio non fuit supplicium, sed tribunal: de cruce quippe
insultantem damnavit, credentem liberavit”. Cfr. anche Aug. epist. CCIV, 4 (CSEL 57):
"Verum nos et occupatissimi sumus et
in aliis plurimis opusculis nostris
huius modi vaniloquia refutavimus. Iam enim nescio quotiens disputando et scribendo monstravimus non eos posse habere martyrum mortem, quia
Christianorum non habent vitam, cum martyrem non faciat poena, sed causa".
Cfr. anche Aug. serm. CXXXVIII,
2 : "Nam
et apud haereticos, qui propter iniquitates et errores suos aliquid molestiarum
perpessi fuerint, nomine martyrii se iactant,
ut hoc pallio dealbati facilius furentur,
quia lupi sunt. Si autem scire vultis in quo numero habendi sunt, pastorem
bonum Paulum apostolum audite; quoniam non
omnes qui corpora sua in passione etiam ignibus tradunt, aestimandi sunt sanguinem fudisse pro
ovibus, sed potius contra oves. Si linguis, inquit,hominum loquar et Angelorum, caritatem autem
non habeam, factus sum velut aeramentum sonans, aut cymbalum tinniens. Si
sciero omnia sacramenta, et habuero omnem prophetiam, et omnem fidem, ita ut
montes transferam, caritatem autem non habeam, nihil sum. Magna ergo res est postremo fides montes
transferens. Illa quidem magna sunt; sed si ego haec sine caritate habeam,
inquit, non illa, sed ego nihil sum. Sed adhuc istos non tetigit, qui falso martyrii nomine in passionibus gloriantur". In generale si veda C. Lambot, Sermons complétés de saint
Augustin. Fragments de sermons perdus. Allocution inédite de saint Augustin, in
"Revue Bénédictine" 51, 1939, pp. 3-30).