29 agosto 2014, San Giovanni Decollato
II) Analisi della collegialità in Lumen Gentium 18-22
Lumen
Gentium, la controversa genesi di un testo
Della collegialità episcopale e del
potere pontificio si occupò anche il Concilio Vaticano II nella ben nota “costituzione
dogmatica” Lumen Gentium. Ricordiamo
che quell’aggettivo “dogmatica” sta ad indicare che l’argomento di cui si parla
nella Costituzione è attinente alla teologia dogmatica; si sta specificando che
ciò di cui si parla è materia dogmatica,
non per questo se ne sta parlando
dogmaticamente e definendo infallibilmente. Quell’aggettivo non significa quindi
che ogni assunto contenuto nel documento sia stato dogmaticamente definito, ma
che si sta parlando - non con insegnamento infallibile - di una materia che di
per sé è attinente al dogma. Per intendersi, ci si passi la semplificazione,
anche un professore di teologia dogmatica, seppure con minore autorità rispetto
ad una costituzione conciliare, parla di dogmatica,
ma non definisce nulla dogmaticamente,
in questo caso perché non ne ha facoltà. Diversamente, un Concilio valido ha in
sé la facoltà di definire dogmaticamente con Magistero straordinario
infallibile, ma deve esservi l’espressa ed evidente volontà di definire un
oggetto che la Chiesa ha sempre insegnato e creduto. Non è il caso di Lumen Gentium, benché non si possa certo
escludere che alcuni passi, laddove si ripete ciò che la Chiesa ha sempre
insegnato, attingano la loro infallibilità dal cosiddetto Magistero ordinario
infallibile. Più in generale per il
“valore magisteriale” dei testi conciliari rinviamo agli articoli già
pubblicati dalla nostra rivista nell’apposita sezione (cfr. Quale valore magisteriale per il Vaticano II?), senza dimenticare che il Concilio
stesso non ha chiesto per sé la dogmatizzazione generale avvenuta post eventum, come evidente dalle Notificationes ufficiali del Segretario
Generale del Concilio del 16 novembre 1964[1].
Fatta questa premessa chiarificatrice e
prima di analizzare i brani di Lumen
Gentium relativi alla collegialità e la Nota
Explicativa Praevia (voluta per correggere le erronee, quando non eretiche,
interpretazioni che si erano immediatamente affacciate), va ricordato una volta
di più che la lettura di tali testi non può non tener conto della loro genesi
nelle commissioni o nell’aula conciliare. Il lettore accorto non avrà
difficoltà a notare che due schieramenti si sono scontrati, per così dire, ogni
tre righe. Il risultato non è un testo unitariamente concepito, né una sintesi,
pur variegata, di differenti apporti, ma l’opera finale si rivela piuttosto
come un tessuto eterogeneo : sembra cucito tutto d’un pezzo, ma le stoffe, pur
essendo l’una accanto all’altra, sono differenti per colore e tessitura. Più
che d’una sintesi dunque si ha spesso l’idea marcata di una giustapposizione di
idee e di dottrine non in armonia tra loro. Talvolta è addirittura evidente che
si è cercato d’ “incastrare fra due virgole” delle locuzioni che mal si
conciliano con l’insieme della frase. Locuzioni proposte ora da uno
schieramento ora da un altro per migliorare, correggere, deviare, restringere
od allargare quanto era già stato inserito dalla “controparte”. Scontro
dottrinale che, con un po’ d’attenzione alla sintassi latina e al lessico
utilizzati, lascia tracce visibili nei passaggi linguistici che tradiscono un
autore diverso da quello del pensiero che precede o segue. Il risultato è che
la lettura è a volte faticosa ed esige un’attenzione continua per ovviare all’assenza
d’unitarietà, scientificamente scoraggiante; a fortiori dunque è d’obbligo la prudenza, nondimeno si possono
avanzare osservazioni critiche e sollevare anche seri interrogativi.
Le premesse introduttive nel Capitolo
III di Lumen Gentium
L’intera Costituzione presenta spunti
che possono riferirsi più o meno direttamente alla problematica della
collegialità, sono sparpagliati lungo tutto il documento, che oltre ad essere
oggettivamente molto lungo alterna toni talora discorsivi e narrativi talora
esegetici. Il Capitolo III, De
Constitutione hierarchica Ecclesiae et in specie de episcopatu, si occupa
dichiaratamente della questione; qui il Sinodo si ripropone di “professare
pubblicamente ed esplicitare la dottrina sui vescovi successori degli Apostoli,
i quali insieme col successore di Pietro, che è il Vicario di Cristo e il capo
visibile di tutta la Chiesa dirigono la casa del Dio vivente”[2].
Il Capitolo III, dopo un esordio dai
toni fortemente pastorali, non manca di rendere un atto d’omaggio
all’infallibile Pastor Aeternus del
Vaticano I, le cui orme - si dichiara - saranno ripercorse. Lungo tutto il n.
18 i caldi toni pastorali e la rinuncia al linguaggio scolastico lasciano per
ora nella fluidità i rapporti tra Pietro e gli Apostoli, così come la natura
del governo della Chiesa da parte di Papa e Vescovi, che il documento dice di voler
esplicitare; si ribadisce che Pietro è “principio e fondamento perpetuo e
visibile dell’unità di fede e di comunione”[3].
Al n. 19 si trova la menzione dell’insieme degli Apostoli, costituiti da Cristo
in collegio
o ceto. L’alternanza dei due termini
non è casuale e - ridimensionato dalla
compresenza della più tradizionale dicitura di coetus - comincia a comparire il più controverso termine collegium : “Apostolos ad modum collegii seu
coetus stabilis instituit, cui
ex iisdem electum Petrum praefecit”[4].
A questo punto ci si aspetterebbe una
soddisfacente spiegazione sulla natura delle distinte giurisdizioni di Pietro e
degli Apostoli, e sulle analogie con le giurisdizioni del Papa e dei Vescovi in
epoca post-apostolica, mettendo anche in evidenza gli eventuali limiti e gli
errori da evitare quando si fa uso dell’analogia Pietro/Papa e Apostoli/Vescovi.
Il lettore resta invece deluso, mentre trova al n. 20 - in forma anche stavolta
narrativo-letteraria - l’affermazione che la divina missione degli Apostoli è
la stessa dei Vescovi, cui è affidata la vigilanza su tutto il gregge (“universo
gregi”)[5]. Anche in questo caso il
problema non è tanto l’affermazione in sé, quanto la sua vaghezza : non è
affatto chiaro infatti se il riferimento sia qui ad una vigilanza giurisdizionale
su tutta la Chiesa oppure ad una vigilanza non giurisdizionale ma morale su ciò
che avviene nella Chiesa intera, oppure ancora ad una semplice vigilanza
giurisdizionale sul singolo gregge loro affidato, come sembra tranquillizzare la
successiva frase[6].
Al n. 21 si ritrova che i Vescovi sono
stati eletti “per pascere il gregge di Dio”[7],
senza specificare oltre. In un tale contesto, di per sé solenne e capitale,
sarebbe legittimo aspettarsi maggiori delucidazioni. Viene da chiedersi
infatti: quale gregge e in che modo? Si fa allusione al gregge universale, in virtù forse della loro
consacrazione valida e in fondo del potere d’ordine, oppure si parla del gregge
particolare affidato loro da Pietro
in virtù della Sua somma giurisdizione?
Ed è quantomai legittimo formulare la
domanda nei termini suddetti, poiché di seguito si legge la frase quantomeno
“vaga”, che è proprio attraverso la consacrazione episcopale che viene
conferito ai Vescovi anche il potere di governo: “insegna il Santo Sinodo che
con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento
dell’ordine […]. Oltre alla funzione di santificare, la consacrazione
episcopale conferisce anche le funzioni
di insegnare e governare”[8].
Parrebbe quindi che il testo stia affermando che il solo conferimento del
potere d’ordine porta con sé un certa giurisdizione. Giurisdizione su cosa ?
Sul gregge universale in virtù della valida consacrazione o sul particolare in
virtù della collazione papale? Il testo tace sull’estensione di tale
giurisdizione, ma specifica che il suo esercizio (si badi bene, si parla del
solo esercizio) presuppone la comunione gerarchica col capo e le membra del
collegio (notiamo anche che comunione gerarchica non è sinonimo di collazione
di giurisdizione). Ora, anche volendo metter da parte il fatto che il “Sommo Pontefice”
è appellato come “Capo del collegio”, resta l’indeterminatezza, l’imprecisione
e quindi la pericolosità d’un tale asserto. Che cosa significa dire che per
l’esercizio della giurisdizione di tutti i Vescovi (sulla Chiesa universale?)
ci vuole la “comunione collegiale gerarchica”? E’ forse un “altro modo”
ortodosso - benché numquam auditum a
saeculo - di parlare della derivazione del potere dei Vescovi residenziali
da quello sommo ed universale del Papa ? Oppure vuol dire che i Vescovi
detengono sempre “radicalmente” la giurisdizione sulla Chiesa intera in virtù
dell’ordine episcopale valido, e che l’unione della comunione fra loro e col
Capo-collegio è richiesta solo per il valido esercizio ? Ma in quest’ultimo
caso, il potere papale potrebbe ancora dirsi “sommo” e fonte del potere
vescovile o sarebbe solo una condizione
per il valido esercizio della
giurisdizione?
L’annoso problema del “subiectum quoque”
E’ tuttavia Lumen Gentium 22 il punto che è stato oggetto di maggior
controversia, perché l’espressione è decisamente più audace e problematica. Fin
dalle prime righe appare l’idea che San Pietro e gli Apostoli costituiscono un
collegio e che - “pari ratione”, ovvero
con una certa idea di proporzionalità che non implica uguaglianza fra Capo e
membri del Collegio, dovrà precisare la Nota
Praevia[9] - si sta parlando di Collegio
per quello che è l’insieme di Papa e Vescovi. Si insiste più d’una volta sulla
“natura collegiale”[10]
di quello che poche righe dopo viene chiamato - con termine più tradizionale e
più gradito allo schieramento romano - “Corpo” dei Vescovi[11].
Torna anche l’idea che la consacrazione episcopale sia sufficiente ad
“incorporare” al collegio (vi
sacramentalis consecrationis)[12],
unitamente alla comunione col “Capo del Collegio” e coi membri. Tale esigenza
di comunione col Capo-collegio tuttavia non apporta nessuna vera
chiarificazione sui rapporti giurisdizionali, sulla loro ripartizione, sulla
loro origine, sul loro esercizio.
La frase seguente ha per certi versi un
aspetto tranquillizzante: “ma il collegio o corpo dei Vescovi non ha autorità
se non lo si comprende insieme col Romano Pontefice, successore di Pietro, come
suo capo”, il Papa è “Vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa” su cui
gode di “potestà piena suprema e universale, che può sempre liberamente
esercitare”[13]. Sembra in effetti di
poter tirare un sospiro di sollievo ed in effetti tale precisazione ha tutto il
suo valore, tuttavia non ci si illuda d’essere usciti dal citato andirivieni di
frasi inserite dalle due correnti di pensiero per smorzare l’uno le
affermazioni dell’altro.
Si conferma infatti che il Papa gode
dunque di suprema potestà, anche seorsim,
anche separatamente, anche senza collegio. E’ difficile opporsi direttamente a
tale verità, stanti le definizioni infallibili del Vaticano I. Ma qui si trova
una grossa sorpresa. Affermare che il Papa è il soggetto di suprema potestà
nella Chiesa non sarebbe proprio sinonimo dell’affermazione che è il solo soggetto di suprema potestà, e
- in una prospettiva non certo tomista - si potrebbe ipotizzare la coesistenza
di un secondo organo, regnante anch’esso con suprema potestà, senza per questo (almeno
in teoria) esautorare il Papa.
Non si capisce se tale peregrina tesi
sia contenuta nella frase seguente: “l’ordine dei Vescovi, il quale succede al
collegio apostolico nel magistero e nel governo, anzi che perpetua senza
interruzione il corpo apostolico, è pure,
insieme col Romano Pontefice suo capo, e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su
tutta la Chiesa”[14].
Il testo sembra proprio dire che il collegio
è pure lui soggetto, è soggetto anch’esso (subiectum quoque ) di
piena e suprema potestà. Le frasi che seguono non spiegano gran cosa e sono alquanto
sibillinamente incastrate una nell’altra, al punto che l’imbarazzo dei
redattori si fa qui quasi tangibile per il lettore. Si continua a parlare di un
potere dei Vescovi, come “loro proprio” (propria
potestate), per il bene dei loro fedeli, “anzi della Chiesa intera”, pur rispettando
fedelmente “il primato e la preminenza” del Capo-collegio[15].
Insomma al n. 22 l’espressione linguistica e la rinuncia al linguaggio
scolastico non danno modo di reperire i chiarimenti sperati sulla natura d’un
potere vescovile che non si capisce se sia ristretto o universale.
Che vuol mai dire che anche il Collegio
- seppur in comunione col Capo-collegio - è soggetto di piena e suprema potestà
su tutta la Chiesa? Il testo sta forse affermando, seppure nella ricorrente
maniera discorsiva, che due sono i soggetti di piena e suprema potestà: il Papa
da solo e il Collegio in comunione col Papa (che in questa veste sarebbe
piuttosto - e in tal modo è chiamato anche esplicitamente - il Capo-collegio)?
L’insieme dei Vescovi in comunione col
Capo-collegio (la qual cosa potrebbe benignamente intendersi come l’insieme dei
Vescovi cattolici validamente ordinati, a prescindere se siano Vescovi
residenziali o meno) deterrebbe anch’esso
- per parlare nei termini scolastici che Lumen Gentium evita - la
suprema giurisdizione sulla Chiesa? Il Concilio sta facendo una tale
affermazione? Sta forse anche traendo le conclusioni di quanto ventilato al n.
19, ovvero che la consacrazione episcopale valida unitamente alla comunione,
sarebbe sufficiente per godere di una certa giurisdizione sulla Chiesa
universale, da esercitarsi collegialmente ed insieme al Papa?
Queste ed altre furono le domande che
suscitarono il ricorso alla famosa Nota Explicativa
Praevia. Ovvero il Pontefice Paolo VI, rispondendo alle vive sollecitazioni
di alcuni Padri e allo sfrontato passo falso di qualche novatore, dispose la pubblicazione
di un documento che doveva precedere o almeno accompagnare (“praevius”) la lettura di passaggi tanto
liberamente interpretabili, mettendo così un argine ai pericoli.
La Nota
Explicativa Praevia
La Nota
Praevia è un allegato al testo conciliare, “previo” appunto alla lettura -
ma che di fatto segue, perché fu relegato in calce e “lontano” da Lumen Gentium -, che apporta alcune
precisazioni di valore non secondario. Anche questo testo tuttavia, benché
voluto con intenti di correzione, tradisce i limiti di un certo compromesso fra
le istanze “romane” e quelle “collegialiste”, continuando a lasciare troppe “porte
aperte”.
Al n. 1 vi si precisa che collegio non è da
intendersi “in senso strettamente giuridico, cioè di un gruppo di eguali, i
quali abbiano demandato il loro potere al loro presidente”[16],
ovvero il Concilio non ha inteso parlare del Papa come di un presidente-delegato
del collegio dei Vescovi, aventi tutti eguale potere; d’altronde l’alternanza
coi termini “corpo” e “ordine” ne sarebbe la conferma[17].
Così pure si cercano di fugare i dubbi sulla trasmissione degli straordinari
poteri degli Apostoli ai Vescovi, soggetto sul quale la Costituzione era stata alquanto
reticente. Né c’è uguaglianza fra il capo e le membra del collegio[18].
Al n. 2 tuttavia non è dissipata la confusione dell’origine dell’ordine e della
giurisdizione, anzi è alimentata: “uno viene costituito membro del collegio in
virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col
capo del collegio e coi membri”[19].
Insomma ritorna in certo modo l’idea d’una collazione di giurisdizione (sulla
Chiesa universale?) in virtù della consacrazione valida anche se per il suo
esercizio - si precisa in seguito - resta necessaria la determinazione canonica
dell’autorità[20]. Si precisa anche che,
perché di “communio” si possa
legittimamente parlare, un “vago affetto” (quodam
affectu) non è sufficiente, ci vuole pur sempre una certa “forma giuridica”(iuridicam formam exigit)[21].
Al n. 3 restano altri problemi, si vuol
precisare la questione del “subiectum
quoque”. Il Collegio - si dice - cointende il suo Capo, “il quale nel
collegio conserva integro l’incarico di Vicario di Cristo e Pastore della
Chiesa universale. In altre parole : la distinzione non è tra il Romano Pontefice
e i Vescovi presi insieme, ma tra il Romano Pontefice separatamente e il Romano
Pontefice insieme coi Vescovi”[22].
Quindi Papa da una parte, Papa e Vescovi dall’altra, ma il Papa è presente da
entrambe le parti sempre a titolo di Pastore Sommo e universale, causa e fonte
d’ogni giurisdizione, oppure a due diversi titoli e con facoltà diverse? Leggendo la frase successiva a proposito del
Collegio sembra che la stessa origine della giurisdizione papale - almeno in
quanto Capo-collegio - abbia un certo aspetto derivato non già dall’investitura
di Cristo, ma dall’essere capo del Collegio. Leggiamo: “Ma siccome il Romano Pontefice è il capo del collegio, può da solo
fare alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi, come convocare e
dirigere il collegio, approvarne le norme d’azione, ecc.”[23].
A parte il fatto che le invocate azioni di specifica competenza papale che si
portano ad esempio sono quasi più simili a quelle d’un Capo parlamentare
moderno, che non del Sommo Pontefice, resta il fatto dell’oggettiva
pericolosità di quel “siccome è Capo del Collegio, può fare alcuni atti”. Pur
concedendo che non si volesse fare allusione ad un potere delegato dai membri -
quindi dal basso -, resta il fatto che il modo d’esprimersi è quantomeno inopportuno.
Né le frasi finali del n. 3 e il n. 4 [24],
pur costituendo un’effettiva limitazione alle devianze, specificano davvero la
natura profonda della giurisdizione papale e di quella collegiale, sebbene
ricordino opportunamente la sovrana libertà di cui gode il Sommo Pontefice
nell’esercizio della “sua potestà in ogni tempo a suo piacimento” e sebbene
limitino l’esercizio del collegio “ad intervalli” e “col consenso del capo”
perché non sempre è “in atto pieno”[25].
Si noti tuttavia che anche quest’ultima precisazione, benché costituisca un
reale freno all’episcopalismo, si limita ancora una volta a parlare del solo
esercizio e non della natura e dell’origine del potere evocato.
Nel Nota
bene che chiude il documento appare poi la chiara conferma del fatto che
non si voglia entrare nelle classiche distinzioni di ordine e di giurisdizione,
come esposto nella parte prima del presente studio. L’esplicita rinuncia a
pronunciarsi sulla validità o liceità della “potestà” degli “orientali
separati”[26] conferma ulteriormente
che la dottrina classica sulla distinzione fra i poteri d’ordine e
giurisdizione, sulla valida consacrazione episcopale e sulla collazione di
giurisdizione ristretta sono volontariamente aggirate. Peccato perché, non
vediamo come possa essere altrimenti, solo queste distinzioni avrebbero
permesso di fare davvero chiarezza.
Sappiamo che a dire di non pochi
teologi con la Nota Praevia la questione
potrebbe dirsi conclusa e che anche recentissimi dibattiti (aprile 2012) hanno
liquidato la questione con un generico rinvio alla Nota Praevia, la quale permetterebbe, senza alcun problema,
un’interpretazione “nella continuità” della collegialità di Lumen Gentium.
Conclusione
Per comprendere l’errore episcopalista,
per leggere davvero alla luce della Tradizione la questione della
“collegialità” vedendo in che misura e con quali contorni essa possa dirsi o
meno in armonia con la dottrina cattolica, non è possibile fare astrazione dalla
capitale distinzione - più volte sottolineata dall’Aquinate - fra potere
d’ordine e di giurisdizione. Nella prima parte di questo lavoro abbiamo
insistito su tale aspetto in linea generale, nella seconda parte abbiamo
cercato di mettere in evidenza come l’oblio di tale verità abbia permesso le
ambiguità che si riscontrano nel Capitolo III di Lumen Gentium. Ambiguità constatate dalla stessa Nota Praevia la quale - pur avendo
apportato dei freni che non furono del tutto inutili, ma che nondimeno sono
stati largamente ignorati nel post-Concilio - non ha risolto il problema di
fondo, che ruota intorno ai rapporti fra giurisdizione universale e ristretta,
somma e subordinata, ed ancora intorno alla natura del potere episcopale
d’ordine e di giurisdizione.
Oggi l’orientamento teologico - dato e non
concesso che in alcuni casi sia ancora propriamente teologico, ovvero fondato
sulla fede soprannaturale e sulla sana ragione - è su posizioni che definire
“episcopaliste” è forse un eufemismo; già si rasenta ad esempio la
teorizzazione del parlamentarismo ecclesiale, talvolta in formule che nemmeno
gli scismatici orientali avevano ancora ipotizzato. Di fatto la stessa eresia
gallicana del ‘700 è oltrepassata e l’ecclesiologia corrente - se di
ecclesiologia si può ancora parlare - affonda ormai le sue radici nel pensiero
di Hans Küng, che non spadroneggia solo a livello di intellettuali. C’è
nondimeno da interrogarsi sugli effetti di scelte del recente passato, che
consistono anche, tra le altre, nell’assenza di condanne esplicite dell’errore
e nell’affrettato deprezzamento della teologia tomista.
Don Stefano Carusi
[1] Denz.
4350-52.
[2] Denz. 4142: “Sacra Synodus
cunctis fidelibus firmiter credendum rursus proponit, et in eodem incepto
pergens doctrinam de Episcopis, successoribus Apostolorum , qui cum successore
Petri, Christi Vicario ac totius Ecclesiae visibili Capite, domum Dei viventis
regunt, coram omnibus profiteri et declarare constituit”.
[3] Denz. 4142: “Ut vero Episcopatus
ipse unus et indivisus esset, beatum Petrum ceteris Apostolis praeposuit in
ipsoque instituit perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis
principium et fundamentum”. Il riferimento è alla Pastor Aeternus del Vaticano
I.
[4] Denz. 4143.
[5] Denz. 4144: “commendantes illis
ut attenderent universo gregi, in quo Spiritus Sanctus eos posuit pascere
Ecclesiam Dei”.
[6] Denz. 4144: “presidentes gregi,
cuius sunt pastores ut doctrinae magistri, sacri cultus sacerdotes,
gubernationis ministri”.
[7] Denz. 4145: “Hi pastores ad
pascendum dominicum gregem electi”.
[8] Denz. 4145: “Docet autem Sancta
Synodus episcopali consecratione plenitudinem conferri sacramenti Ordinis, quae
nimirum et liturgica Ecclesiae consuetudine et voce Sanctorum Patrum summum
sacerdotium, sacri ministerii summa noncupatur. Episcopalis autem consecratio,
cum munere sanctificandi, munera quoque confert docendi et regendi, quae tamen
natura sua nonnisi in hierarchica comunione cum Collegii Capite et membris
exerceri possunt”.
[9] Denz. 4353.
[10] Denz. 4146: “ordinis episcopalis
indolem et rationem collegialem significant”; “Eandem vero iam innuit ipse usus”.
[11] Denz. 4146: “Collegium autem seu
corpus Episcoporum”.
[12] Ibidem: “Membrum Corporis
episcopalis aliquis constituitur vi sacramentalis consecrationis et hierarchica
comunione cum Collegii Capite atque membris”.
[13] Denz. 4146: “Collegium autem seu
corpus Episcoporum auctoritatem non habet, nisi simul cum Pontifice Romano,
successore Petri, ut capite eius intelligatur, huiusque integre manente
potestate Primatus in omnes sive Pastores sive fideles. Romanus enim Pontifex
habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius
Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper
libere exercere valet”.
[14] Denz. 4146: “Ordo autem
Episcoporum, qui collegio Apostolorum in magisterio et regimine pastorali
succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo perseverat, una cum Capite
suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite subiectum quoque supremae ac
plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi
consentiente Romano Pontifice exerceri potest”.
[15] Denz. 4146: “In ipso, Episcopi,
primatum et principatum Capitis sui fideliter servantes, propria potestate in
bonum fidelium suorum, immo totius Ecclesiae funguntur”.
[16] Denz. 4353: “Collegium non intelligitur sensu stricte iuridico, scilicet de coetu aequalium,
qui potestatem suam praesidi suo demandarent, sed de coetu stabili, cuius
structura et auctoritas ex Revelatione deduci debent”.
[17] Denz. 4353; “ Ob eandem
rationem, de Collegio Episcoporum passim etiam adhibentur vocabula Ordo vel Corpus”.
[18] Ibidem.
[19] Denz. 4354: “Aliquis fit membrum Collegii vi consecrationis
episcopalis et comunione hierarchica cum Collegii Capite atque membris”.
[20] Denz. 4354: “Consulto adhibetur
vocabulum munerum, non vero potestatum, quia haec ultima vox de
potestate ad actum expedita intelligi
posset. Ut vero talis expedita potestas habeatur, accedere debet canonica seu iuridica determinatio per auctoritatem hierarchicam”.
[21] Denz. 4355.
[22] Denz. 4356: “Collegium enim
necessario et semper Caput suum cointelligit, quod in Collegio integrum servat suum munus Vicarii Christi et Pastoris
Ecclesiae universalis. A. v. distinctio non est inter Romanum Pontificem et
Episcopos collective sumptos, sed inter Romanum Pontificem seorsim et Romanum
Pontificem simul cum episcopis”.
[23] DEnz. 4356: Quia vero Summus
Pontifex est Caput Collegii, ipse
solus quosdam actus facere potest, qui Episcopis nullo modo competunt, v. gr.
Collegium convocare et dirigere, normas actionis approbare, etc.”.
[24] Denz. 4356: “secundum propriam
discretionem procedit”; Denz. 4357 : “Summus Pontifex, utpote Pastor Supremus
Ecclesiae, suam potestatem omni tempore ad placitum exercere potest”.
[25] Denz. 4357: “A. v. non semper
est “in actu pleno”, immo nonnisi per intervalla actu stricte collegiali agit
et nonnisi consentiente Capite”.
[26] Denz. 4359: “Commissio autem
censuit non intrandum esse in quaestiones de liceitate et validitate,
quae relinquuntur disceptationi theologorum, in specie quod attinet ad
potestatem quae de facto apud Orientales seiunctos exercetur, et de cuius
explicatione variae exstant sententiae”.