21 dicembre 2015, San
Tommaso Apostolo
S. Margherita da Cortona: dal concubinaggio alla santità. La misericordia di Dio |
La
parola misericordia è oggi tra le più
abusate e l’improprio utilizzo di un termine così legato alla Sapienza e Bontà
divine ha delle conseguenze che si riflettono anche sul modo di intendere la
natura di Dio. Se da una parte è vero che vi possono essere più modi
d’intendere la misericordia, dall’altra è importante introdurre alcune
precisazioni per non approdare a gravi errori in materia di fede e di morale.
In
questo breve articolo vedremo alcune capitali distinzioni che San Tommaso fa nella
Summa Theologiae ed analizzeremo
principalmente la questione di come vada intesa la nozione di misericordia
nell’uomo e la nozione di misericordia in Dio. Poste queste distinzioni, utili
ad evitare tanto lo scoglio del panteismo che quello correlativo
dell’antropomorfizzazione eccessiva di Dio, vedremo quali siano le ragioni e le
condizioni della misericordia per i peccatori, seguendo il Dottore Angelico.
La misericordia è virtù “secondo
ragione”
San
Tommaso parla della misericordia sotto il suo aspetto più propriamente morale
nella Secunda Pars e, facendo ricorso
all’etimologia, ci spiega cosa sia e come la si debba definire. Si dice misericordia quando qualcuno, guardando
alla miseria dell’altro, ha un “misero cuore” o meglio un cuore “commiserevole”[1].
Ovvero il cuore di chi ha misericordia si immedesima con chi è nella miseria e
- a sua volta - “si fa misero”. E’ l’attristarsi con chi è triste, ci si
identifica in parte con chi sta male e col suo desiderio di bene.
Questo
movimento dell’animo è in certa misura qualcosa di innato nella nostra natura,
ovvero Dio nella Sua infinita Sapienza ha creato l’uomo dotato di passioni, le
quali in sé concorrono a condurci al fine ultimo. Per esempio davanti ad
un’ingiustizia evidente si può avere un moto di collera, che può essere santa e
giusta e stimolare all’azione per proteggere la verità o chi è ingiustamente
vessato. La perfezione della creazione ha previsto infatti che per un animale spirituale
e sociale come l’uomo, vi fossero delle “reazioni” che in sé hanno lo scopo di
stimolare la creatura sensibile al bene proprio e degli altri; tuttavia - principalmente
a seguito del peccato originale - le passioni devono essere sempre dirette
dalla ragione perché non diventino causa di peccato per la loro sregolatezza.
Per
la misericordia vale lo stesso discorso, essa quasi nasce dalle nostre viscere
davanti alla “miseria” o al dolore altrui. Vista così la misericordia è un
movimento dell’anima che San Tommaso chiama “moto dell’appetito sensitivo”. Aggiunge
il santo teologo: “in questo caso la misericordia è una passione e non una
virtù”[2].
Ovvero la nostra natura sensibile fa in modo che si scateni una “reazione
immediata” davanti alla misera situazione dell’altro, ed a ciò è connessa una spinta
interiore nella nostra anima per sollevare il misero da tale male. E’ questo il
primo modo di parlare di misericordia, è il livello “più basso”, quello della
passione, siamo ancora in un ambito di “reazione immediata”, radicata nel
sensibile, che ha bisogno - come le altre passioni - d’essere ordinata dalla
ragione.
Vi
è poi un altro modo di parlare di misericordia: in quanto moto dell’appetito
regolato dalla ragione. Questo caso si riferisce a quel movimento dell’anima
per cui razionalmente - e non solo passionalmente - ci attristiamo dell’altrui
dolore. Tale movimento per cui il nostro cuore si fa “misero coi miseri” non è
solo un grido, un’esclamazione, un palpito, ma è guidato dalla ragione, è ordinato
al fine dal nostro intelletto. L’Aquinate spiega, appellandosi all’autorità di
Sant’Agostino, che il movimento della misericordia è virtuoso quando serve la
ragione, quando resta nell’ordine e nel bene, quando è finalizzato alla
conservazione della giustizia dell’ordine divino[3].
Ovvero Sant’Agostino e San Tommaso dicono chiaramente che il fine della
misericordia non è un romanticismo compassionevole, che abbraccia tutto e tutti
come una girandola impazzita, ma è un moto che il Creatore ha iscritto nella
natura umana per una ragione precisa, che è principalmente quella di stimolare
gli uomini a sollevare il prossimo dalla miseria per entrare nel giusto ordine
voluto da Dio.
Non
a caso, sulla scorta di Aristotele, l’Angelico aveva detto poco prima che la
misericordia è più intensa quando il misero si trova nel male per questioni
fortuite, per esempio quando un male improvviso accade a chi stava sperando
nell’arrivo d’un bene, ed ancor più forte è la misericordia davanti al male che
giunge a colui che ha sempre scelto il bene. Lì è ancora più intensa perché la
vittima non è affatto colpevole, è la sofferenza del giusto, quindi più forte è
lo “stimolo” a rientrare nel giusto ordine di cose[4].
La giustizia e la misericordia di Dio
L’Aquinate,
dopo essersi occupato di ciò che è l’Amore Divino, tratta alla questione 21 della
Prima Pars della Giustizia e della
Misericordia di Dio, che sono addirittura unite da una questione unica. Non
solo, evidentemente, in Dio esse sono una cosa sola, ma sono anche unite nella
trattazione teologica perché per definire l’una non si può prescindere
dall’altra. In ogni opera di Dio brillano sempre la giustizia e la misericordia[5].
Prima
di andare alla risposta di San Tommaso è bene soffermarsi sulla prima obiezione
del primo articolo, poiché essa contiene una distinzione utile per comprendere
l’attuale confusione sulla nozione di misericordia. San Tommaso dice infatti,
col suo consueto metodo di porre la “quaestio”,
che sembrerebbe non competere a Dio la misericordia in quanto essa è una specie
della tristezza. Non essendoci in Dio tristezza non può esservi quindi nemmeno
misericordia[6].
Il
Dottore Comune, che sta ora parlando della misericordia in Dio, procede
escludendo dalla misericordia quell’aspetto di “tristezza immediata” che gli
uomini provano nel vedere il male altrui, quel “movimento del cuore” che tocca
solo la natura sensibile dell’uomo, ma non quella immutabile di Dio. Dio non si
“attrista” dell’altrui miseria come succede nella nostra natura sensibile,
tuttavia agisce per rimuoverne la causa, per sollevare il misero dal suo peso. In
Dio quindi non c’è mai quel disordine che può riscontrarsi nell’uomo riguardo
alla misericordia, ovvero non è mai mosso a pietà in modo disordinatamente
passionale, ma tutta la sua azione è sempre ordinata e giusta. Un uomo potrebbe
attristarsi e provare pena e quindi essere davvero mosso a misericordia (in
quanto passione) per un falso mendicante che finge miseria o per delle ragioni
futili o per l’amore disordinato di un bene apparente che conduce alla
dannazione eterna, e la sua anima potrebbe anche ritrovarsi in grave e
sproporzionata angoscia per la situazione “miserevole” del suo prossimo. In Dio
non può aversi tale processo, non c’è tale “affetto” derivante dalla passione,
ma c’è solo l’ “effetto” - dice San Tommaso - ossia c’è solo la volontà di Dio di
sollevare, nell’ordine della Sua giustizia, il misero dall’indigenza materiale
o spirituale[7].
Emerge quanto siano insensate quelle teorie
(spesso dal substrato panteista) che vorrebbero introdurre la sofferenza e la
passione in Dio, per poi affrontare in maniera sentimentale, quando non
apertamente edonista, anche le disposizioni della Divina Sapienza intorno alla
misericordia. San Tommaso spiega bene che non si possono attribuire a Dio se
non in metafora quelle virtù che sono in funzione delle passioni e della loro
regolamentazione, e in Dio non ci sono passioni né appetito sensitivo[8],
quindi non c’è l’ombra d’un moto di misericordia che non sia in perfetta
sintonia con tutta la Sua legge.
Dice San Tommaso “a Dio non compete il fatto
d’attristarsi dell’altrui miseria, ma il fatto di sollevare da tale miseria,
questo sì Gli compete in massimo grado”[9].
E ciò perché Dio, amando se stesso, ama le sue creature e l’ordine da Lui
stabilito in ogni cosa creata, ama i singoli nell’insieme dell’ordine creato e
nell’ordine soprannaturale della salvezza, Egli agisce quindi di conseguenza
colmando l’assenza di bene in tale ordine. La generosità di Dio si iscrive
nella giustizia, nel senso che Egli desidera dare alle creature ciò a cui esse
sono ordinate[10], massimamente quindi Dio vuole
che le creature spirituali abbiano la salvezza per mezzo della grazia. Egli,
desiderando il loro bene soprannaturale, vuol colmare prima di tutto quel “difetto”
che potrebbe condurre le anime alla perdizione. Ecco che la misericordia s’esercita
al massimo grado e brilla nella conversione del peccatore, laddove l’assenza
d’ordine morale nella sua vita - per divina misericordia - si corregge in una
vita compatibile con l’infusione della grazia e la salvezza eterna. Un’opera propriamente
divina dice Sant’Agostino, “più grande che creare il cielo e la terra”[11].
Si
dirà di più, Dio è talmente giusto nella Sua misericordia, che ancora una volta
rispetta l’ordine sapiente da Lui stabilito. Se infatti ha voluto l’uomo di
natura spirituale e quindi libero, userà sì misericordia, ma rispettando la
libertà dell’uomo[12].
Quando per esempio Dio converte il peccatore a vita nuova, si comporta un po’ come
un creditore che da un lato dà al debitore quel che deve rendere, dall’altro fa
sì che il debitore guadagni quel che è necessario a colmare la lacuna del
debito (ed anche oltre), offrendogli Lui tutti gli strumenti. In quest’ordine
di giustizia e misericordia è quindi anche necessario che la creatura libera
corrisponda alla misericordia con atti volontari e concreti. La misericordia ha
quindi un aspetto gratuito e un aspetto legato al merito.
E
c’è anche chi non merita misericordia, o meglio chi non la merita più in ordine
alla salvezza, come Giuda Iscariota che ha perso il cielo per sempre. Benché la
misericordia di Dio arrivi fino all’inferno dove le pene eterne dei dannati non
sono così gravi come meriterebbero in strettissima giustizia[13].
“Tutte le vie del Signore sono misericordia e
verità” dice il salmista (24,10). Non può essere altrimenti, ogni opera divina
procede secondo l’ordine e la proporzione della Sua Sapienza e Bontà. In ogni
opera divina deve per forza di cose esserci giustizia così come in ogni opera
divina c’è misericordiosa[14];
“in qualsiasi opera di Dio appare la Misericordia come prima radice”[15]
e ciò sia nel caso della conversione della Maddalena che della pena eterna di
Giuda.
La misericordia per il peccatore
Se
si è compresa la spiegazione di San Tommaso si capisce che il peccatore non può
muovere Dio a misericordia in quanto volontariamente viola la giustizia divina,
ma solo in quanto subisce una pena. Ed è per quest’aspetto di miseria,
d’indigenza temporale e spirituale - che sono delle pene - che Dio ha misericordia
e non certo per la malizia del peccatore, che invece è da disprezzare. Le menti
moderne, comprese quelle di certi pastori, sono invece talmente intrise del
primato dell’immanenza, al punto da trasferire nell’intelletto e nella volontà
divine quella passione disordinata di
misericordia che - lontana da ogni verità e da ogni criterio - “si commuove”
ipocritamente davanti all’ostinazione nel peccato, quasi incoraggiandola. E ciò
proprio laddove invece il Vangelo predica - perché misericordioso - la fermezza
e l’immutabilità dell’ordine divino.
Imitando
Dio quindi non si può mai commiserare il peccatore assecondandone la malizia,
ma si può provare misericordia per ciò che subisce, ad esempio per i castighi
connessi al peccato, per gli attacchi del demonio cui si è sottomesso, per la
debolezza e fragilità conseguenti al peccato originale, per le mancanze e le
colpe dei pastori che non lo hanno ammonito e lo hanno lasciato cadere nel
peccato, abbandonando i peccatori “come pecore senza pastore” (Mt 9,36) [16].
Associazione Chierici “San Gregorio Magno”
[1] S. Th., IIa IIae, q. 30, a. 1, c. : “dicitur enim misericordia ex eo quod aliquis habet miserum cor super
miseria alterius”.
[2] Ibidem, a. 3 c. : “dicendum
quod misericordia importat dolorem de miseria aliena. Iste autem dolor potest
nominare, uno quidem modo, motum appetitus sensitivi. Et secundum hoc
misericordia passio est, et non virtus”.
[3] Ibidem : “iste motus
animi, scilicet misericordia, servit rationi quando ita praebetur misericordia
ut iustitia conservetur : sive cum indigenti tribuitur, sive cum
ignoscitur penitenti”. Cfr. anche Ia IIae, q. 59, a.1, ad 3.
[4] S.Th., IIa IIae, q. 30, a. 1, c.
[5] S.Th., Ia, q. 21, a. 4.
[6] S. Th., Ia, q. 21, a. 3, arg. 1.
[7] S.Th., Ia, q. 21, a. 3, c.
[8] S. Th., Ia, q. 21, a. 1, ad 1.
[9] Ibidem, a. 3, c. “Tristari
ergo de miseria alterius non competit Deo: sed repellere miseriam alterius, hoc
maxime ei competit”.
[10] Ibidem, a.1, ad 3.
[11] S.Th., IIIa, q. 43, a. 4, ad 2.
[12] S. Th., Ia IIae, q. 113, a 3, c.: “Unde
et homines ad iustitiam movet secundum conditionem naturae humanae. Homo
autem secundum propriam naturam habet quod sit liberi arbitrii. Et ideo in eo
qui habet usum liberi arbitrii, non fit motio a Deo ad iustitiam absque motu
liberi arbitri”.
[13] S. Th., Ia, q. 21, a. 4, ad 1.
[14] Ibidem, a. 4, c.
[15] Ibidem.
[16] S. Th., IIa IIae, q. 30, a.1, ad 1.