29 settembre 2010

Mons. Gherardini: per la Fraternità né compromesso né "Aventino"


Pubblichiamo un testo inviatoci da Mons. Gherardini sul domani della Fraternità San Pio X. La sua prospettiva, realisticamente fondata sulle circostanze storiche che per più motivi conosce bene, approda ad una sintetica analisi teologica che centra la “vexata quaestio” sul concetto di Tradizione. Il suo è un lucido invito ad operare nella chiarezza teologica senza avere il timore d’intavolare un discorso di lunga lena, aperto a larghe collaborazioni e a ricerche approfondite sui documenti conciliari controversi, come scriveva nel suo celebre libro Concilio Ecumenico Vaticano II, un discorso da fare. In questa prospettiva l’accordo canonico sperato non sarebbe il punto d’arrivo d’un rapido confronto punto per punto sul Vaticano II, ma al contrario il punto di partenza di un vasto programma d’analisi e di studi che coinvolgerebbe “la collaborazione di tutti i più prestigiosi, sicuri e riconosciuti specialisti in ognuno dei settori in cui s’articola il Vaticano II (e che darebbe luogo ad) una serie di congressi o ad una serie di pubblicazioni su ognuno dei documenti conciliari” (B. Gherardini, “Supplica al Santo Padre, Ibidem, p. 257).
Noi ci iscriviamo in quest’ottica, in particolare per ciò che concerne un serio rinnovamento del dibattito teologico, che dovrà comportare, da ambo le parti, la revisione dei “luoghi comuni” non dogmatici, nel supremo interesse della Chiesa universale e non nella ricerca d’uno status quo, finalizzato al solo interesse particolare.




Sul domani della Fraternità S. Pio X
Durante un amichevole incontro, alcuni amici m’han chiesto quale potrebb’esser il domani della Fraternità S. Pio X, a conclusione dei colloqui in atto fra la medesima e la Santa Sede. Ne abbiam parlato a lungo ed i pareri eran discordi. Per questo esprimo il mio anche per iscritto, nella speranza – se non è presunzione e Dio me ne guardi! - che possa giovare non solo agli amici, ma anche alle parti dialoganti.
Rilevo anzitutto che nessuno è profeta né figlio di profeti. Il futuro è nelle mani di Dio. Qualche volta è possibile preordinarlo, almeno in parte; in altre, ci sfugge del tutto. Bisogna inoltre dare atto alle due parti, finalmente all’opera per una soluzione dell’ormai annoso problema dei “lefebvriani”, che fin ad oggi han lodevolmente ed esemplarmente mantenuto il dovuto silenzio sui loro colloqui. Tale silenzio, però, non aiuta a preveder i possibili sviluppi.
Di “voci”, peraltro, se ne sentono; e non poche. Quale sia il loro fondamento è un indovinello. Prenderò dunque in esame qualcuno dei pareri espressi nell’occasione predetta e dirò poi articolatamente il mio.

19 maggio 2010

Ascensione: il dogma negato?



di Don Stefano Carusi




Dibattito teologico intorno ad alcune teorie esegetiche moderne
Nel quadro della disputatio theologica, è stata sollevata la seguente obiezione riguardo all’articolo di Mons. Gherardini sulla cristologia contemporanea:

“Ho letto su Disputationes Theologicae alcune severe critiche di Mons. Gherardini alla nuova esegesi, segnatamente contro le posizioni di Bultmann e Karl Barth, dipinti come i maestri di molti esegeti cattolici moderni. Quando a Roma ascoltavo i corsi di esegesi alla pontificia facoltà ... ho appreso che per vedere Cristo nelle apparizioni post-pasquali era necessaria la fede, senza la quale gli Apostoli non avrebbero visto nulla. Ho recentemente letto che anche il biblista Mons. Ravasi avrebbe posizioni analoghe sulla Resurrezione (…). Nel suo famoso e discusso articolo “Non è risorto si è innalzato” (Il Sole 24 ore, 31 marzo 2002) egli parla di “Ascensione-esaltazione-innalzamento” per la Resurrezione e critica il fatto che essa venga apparentata alla resurrezione di Lazzaro. So che su tali teorie già c’era stato un duro scontro scientifico col gesuita Padre Ignace de la Potterie, membro del Sant’Uffizio e del Pontificio Istituto biblico (A. Socci, Intervista a Padre de la Potterie, ne Il Sabato, 14 novembre 1992, p. 60 e ss). Oltre al punto di vista strettamente esegetico mi chiedo se il dibattito è libero anche dal punto di vista dogmatico e magisteriale (…)” .





L’obiezione è di estremo interesse, cercheremo di rispondere sinteticamente indicando in generale i limiti dogmatici che non possono essere oltrepassati e che invece sono spesso gravemente infranti. E’ noto che negli ambienti esegetici di frontiera l’incontro degli Apostoli con il Cristo risorto è re-interpretato in chiave immanentista e non più come un “fatto storico”. Lo stesso accade con l’Ascensione, che diventa quasi una “seconda descrizione” della Resurrezione, differita di quaranta giorni, e fatta propria dagli Apostoli che “prenderebbero sempre più coscienza”, nell’intimo della loro fede, del fatto che Cristo è ora accanto a Dio. Questo stato di convincimento, iniziato il giorno di Pasqua, crescerebbe fino ad avere la visione dell’Ascensione, che non è più una realtà fisica, ma quasi un’allucinazione del credente. La fede nella fisicità dell’Ascensione è spesso la cartina al tornasole del reale pensiero di certi teologi sulla fisicità della Resurrezione, per questo motivo i due grandi misteri della nostra fede possono essere uniti nel dibattito [1]. Se in effetti un corpo per poter essere al cielo deve salirvi, è perché fino a quel momento esso si trovava realmente, nel senso di “fisicamente”, sulla terra. Il corpo del Risorto è un corpo reale, in carne ed ossa, glorioso certo, ma che è reso fisicamente visibile e tangibile per volontà del Redentore. E’ vero che esso appare ai discepoli e poi dispare, ma non perché sia un’allucinazione, ma perché Cristo vuole che gli Apostoli sappiano che è Lui che vuol rendere visibile agli occhi umani il Suo corpo glorioso[2]. Così come è un potere del corpo glorioso di Cristo, che è il Verbo incarnato, il fatto di essere allo stesso tempo in un luogo ove è già un altro corpo, in effetti Gesù per entrare nella stanza anche a porte chiuse deve attraversare il muro (Gv 20, 19); ciò non significa che Gesù non avesse corpo fisico, ma significa che il corpo glorioso del Verbo non è sottomesso alle leggi naturali della materia, esso può esistere nello stesso luogo ove sia un altro corpo (in questo caso la parete)[3]. Dio non è condizionato dalle leggi naturali della materia, così come non lo era nella Sua nascita virginale (dogma messo in discussione dalle stesse scuole esegetiche per analogo motivo)[4]. Gesù risorto non è un fantasma, né un’apparizione fugace nell’immaginazione, ma è semplicemente un uomo in carne ed ossa che è anche Dio, al quale è possibile il miracolo.
Nel Vangelo di Luca poco prima della narrazione dell’Ascensione, Gesù dice: “Guardate le mie mani e i miei piedi, toccatemi ed osservate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho. E mentre diceva queste cose mostrava loro le mani e i piedi” (Lc 24, 39-40). Gesù ha passato quaranta giorni sulla terra (At 1, 3), quaranta giorni nei quali si è mostrato ai discepoli in tutta la sua palpabile corporeità. I suoi piedi e le sue mani avevano i fori dei chiodi, le parole da lui pronunciate potevano essere udite, i pesci arrostiti che mangiava erano veramente assunti come cibo. Presenza terrestre che termina con l’Ascensione: “poi li condusse fuori, fin verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e si sollevò su nel cielo” (Lc 24, 49). Il Vangelo di Marco: “ Il Signore Gesù, dopo aver loro parlato, fu assunto nel cielo e siede alla destra di Dio” (Mc, 16, 19). Secondo gli Atti: “E detto questo, mentre essi lo guardavano, si levò in alto ed una nube lo nascose ai loro occhi” ( At 1, 9).



24 aprile 2010

Intervista a Mons. Nicola Bux

La redazione di Disputationes Theologicae, nel quadro di un approfondimento del dibattito sulla liturgia e sulla cosiddetta “riforma della riforma”, ha intervistato uno dei più noti liturgisti: Mons. Nicola Bux. Nato nel 1947, ordinato sacerdote nel 1975, ha effettuato ricerche all’Ecumenical Institute, al Biblicum di Gerusalemme e all’Istituto Sant’Anselmo di Roma. Professore di teologia sacramentaria alla Facoltà teologica di Bari è tra i più stimati collaboratori del Santo Padre Benedetto XVI. Autore di numerosissime pubblicazioni di teologia dogmatica e liturgica ha recentemente dato alle stampe il noto testo “La Riforma di Benedetto XVI”. Mons. Bux è oggi Consultore delle Congregazioni della Fede e dei Santi, nonchè dell’Ufficio per le celebrazioni pontificie. E’ consulente della rivista “Communio” oltre ad essere uno specialista della liturgia orientale.




In foto: Mons. Nicola Bux

Monsignore lei è professore di teologia sacramentarla ed è anche additato come uno degli esperti di liturgia più vicini al Papa; un segno che non si può parlare di liturgia senza dottrina?
Notoriamente la liturgia appartiene al dogma della Chiesa. Tutti sanno che dalla fede della Chiesa si giunge alla liturgia e dalla preghiera si risale al dogma. Tutti conoscono l’adagio lex orandi lex credendi. E’ dal modo di pregare che si capisce in cosa noi crediamo, ma è anche dal modo di credere che deriva il modo di pregare. E’ quel che è stato ripreso e sapientemente sviluppato dall’enciclica Mediator Dei del venerabile Servo di Dio Pio XII.

    Ormai anche i più tenaci fautori di una “rivoluzione permanente” in liturgia sembrano cedere davanti alle sagge argomentazioni del Papa, delle quali c’è un’eco chiarissima nel suo libro. Siamo davanti ad una nuova (o antica se preferisce) visione della liturgia?
    La liturgia è per sua natura d’istituzione divina, essa si impernia su parti immutabili volute dal suo Divin Fondatore. Proprio in ragione di questo suo fondamento si può affermare che la liturgia è di “diritto divino”. Gli orientali non a caso usano il termine di “Divina liturgia”, poiché essa è opera di Dio, “opus Dei” dice San Benedetto. La liturgia non è una cosa umana. Nel documento conciliare sulla liturgia, al n. 22 § 3, si dice chiaramente che nessuno, anche se sacerdote, può aggiungere togliere o mutare alcunché. Il motivo? La liturgia appartiene al Signore. Durante la Quaresima abbiamo letto i passi del Deuteronomio nei quali Dio stesso stabilisce persino la suppellettile per il culto; nel Nuovo Testamento è Gesù stesso che dice ai discepoli dove preparare la cena. Dio ha il diritto di essere adorato come Lui vuole e non come noi vogliamo. Altrimenti cadiamo in un culto “idolatrico”, nel senso proprio del termine greco, cioè un culto fatto a nostra immagine. Quando la liturgia rispecchia i gusti e le tendenze creative del sacerdote o di un gruppo di laici diviene “idolatrica”. Il culto cattolico è in spirito e verità, perchè è rivolto al Padre, nello Spirito Santo, ma deve passare da Gesù Cristo, deve passare dalla Verità. Perciò bisogna riscoprire che Dio ha il diritto di essere adorato come Lui ha stabilito. Le forme rituali non sono qualcosa da “interpretare”, poiché esse sono esito della fede pensata e diventata in certo senso cultura della Chiesa. La Chiesa si è sempre preoccupata che i riti non fossero il prodotto di gusti soggettivi, ma appunto l’espressione della Chiesa intera, cioè “cattolica”. La liturgia è cattolica, universale. Quindi anche in occasione di una celebrazione particolare o in un luogo particolare, non si può pensare di celebrare in contrasto con la fisionomia “cattolica” della liturgia.

    28 marzo 2010

    La riforma della settimana santa negli anni 1951-1956



    Tra liturgia e teologia attraverso le dichiarazioni di alcuni dei suoi principali redattori
    (Annibale Bugnini, Carlo Braga, Ferdinando Antonelli)

    di
    Stefano Carusi


    “Si è sentita l'esigenza che le formule del Messale Romano fossero rivedute e arricchite. Primo passo di tale riforma è stata l'opera del Nostro Predecessore Pio XII con la riforma della Veglia Pasquale e del Rito della Settimana Santa[1], che costituì il primo passο dell'adattamento del Messale Romano alla mentalità contemporanea”Paolo VI, Costituzione Apostolica ‘Missale Romanum’, 3 aprile 1969







    Introduzione


    Nel corso degli ultimi anni la pubblicazione di numerosi studi relativi alla storia del dibattito teologico-liturgico degli anni cinquanta ha gettato nuova luce sulla formazione e sulle intenzioni, non sempre all’epoca apertamente dichiarate, di coloro che furono i redattori materiali di alcuni testi.
    Per quanto concerne l’opera di riforma della Settimana Santa del 1955-56, in questa sede ci si vorrebbe soffermare sulle dichiarazioni, oggi finalmente pubbliche, del noto lazzarista Annibale Bugnini, del suo stretto collaboratore e quindi segretario del “Consilium ad reformandam liturgiam”, Padre Carlo Braga e del futuro Cardinale Ferdinando Antonelli, per stabilire se la loro opera di riforma liturgica rispondesse o meno ad un più vasto disegno teologico e per analizzare la validità o meno dei criteri utilizzati e poi riproposti nelle successive riforme. Verranno prese in considerazione anche le annotazioni e le relazioni delle discussioni della commissione preparatrice, conservate principalmente nell’archivio della Congregazione dei Riti, le quali, recentemente pubblicate nei monumentali lavori di ricerca dello storico della liturgia Mons. Nicola Giampietro, testimoniano del tenore del dibattito.

    13 marzo 2010

    Libertà religiosa: documenti per uno "status quaestionis"

    Un'argine teologico

    L’ultima esposizione completa della dottrina tradizionale della “tolleranza” prima della votazione sulla “libertà religiosa”

    Il testo che segue, estratto dai Documenta Concilio œcumenico Vaticano II apparando, Constitutio De Ecclesia, c. 9, fa parte degli archivi pubblici del Vaticano II e della sua preparazione, esso è rimasto finora pressoché ignorato. Forse la maniera spesso ideologica con cui si tratta la storia conciliare ha contribuito al suo “seppellimento”.
    Tra l’annuncio del concilio, il 15 gennaio 1959, e la sua apertura, l’11 ottobre 1962, un’intensa attività ebbe luogo in seno alle dodici commissioni e alle tre segreterie incaricate di preparare i testi che sarebbero stati discussi dai vescovi. L’elaborazione dei documenti dogmatici sulla Chiesa, il deposito della fede, le fonti della rivelazione, la morale sociale e individuale, fu affidata alla Commissione teologica presieduta dal Cardinal Alfredo Ottaviani, che all’epoca dirigeva il Sant’Uffizio. Si trattava della costituzioni destinate a formare la spina dorsale dell’assemblea in preparazione.
    Man mano che i lavori avanzavano, fortissime tensioni si manifestarono tra la Commissione teologica e il Segretariato per l’unità dei cristiani, presieduta dal Cardinal Agostino Bea, questi aveva aggiunto al progetto sull’ecumenismo, di cui era incaricato, alcuni sviluppi sulla libertà religiosa. La questione teorica centrale dibattuta era quella dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato: essa era stata trattata tanto dallo schema sulla Chiesa, al capitolo 9, tanto da quello sulla libertà religiosa, originariamente sotto un titolo praticamente identico nei due testi, ma secondo ispirazioni diametralmente opposte.
    Il testo del Segretariato per l’unità, derivante da quello che viene chiamato il Documento di Friburgo sostituiva la dottrina tradizionale della tolleranza possibile nei riguardi dell’errore con quella del diritto alla libertà. Quando fu presentato davanti alla Commissione preparatoria centrale, nel giugno 1962, un certo numero di membri lo dichiararono inaccettabile per la dottrina cattolica, in base ai pronunciamenti del magistero a partire dalla fine del XVIII secolo. La Commissione teologica aveva da parte sua precisato il contenuto del capitolo 9 del De Ecclesia per regolare il problema della libertà religiosa, partendo dai principi. Secondo una seria ipotesi questo testo non sarebbe stato altro che la ripresa da parte del Padre Gagnebet, incaricato della redazione, di un documento che aveva già preparato per il Sant’Uffizio nel 1958. Questo scritto doveva condannare le idee di Jacques Maritain e di John Courtney Murray. Solo la morte di Pio XII ne aveva impedito la pubblicazione [1]. Sarebbe stata l’ultima condanna della libertà religiosa prima del Vaticano II.
    Si decise di riunire, nei tre mesi che restavano prima dell’apertura del Vaticano II, una commissione mista (membri della Commissione teologica e membri del Segretariato per l’unità) che, di fatto, non si riunì mai. Quale compromesso d’altronde avrebbe mai potuto elaborare?
    Tutto dunque si sarebbe svolto durante il Concilio: o il capitolo 9 del De Ecclesia sarebbe stato approvato e allora avrebbe invalidato il testo sulla libertà religiosa, oppure quest’ultimo sarebbe stato votato e la dottrina del capitolo 9 sarebbe perita. Si può tranquillamente affermare che ciascuno di essi rappresentava rispettivamente la punta acuminata di due progetti opposti concernenti il concilio che stava per aprirsi. Come è noto, durante la prima sessione, nell’autunno 1962, “la scuola teologica romana”, secondo l’espressione all’epoca in voga, fu immediatamente messa in minoranza e, di conseguenza, l’insieme degli schemi preparati dalla Commissione teologica furono spazzati via senza essere esaminati. Il testo sulla libertà religiosa del Segretariato per l’unità restava quindi senza un concorrente. Esso fu adottato il 7 dicembre 1965.
    Proponiamo qui la traduzione del capitolo 9 del De Ecclesia nella sua ultima redazione, cioè tale come fu messo nella mani dei Padri conciliari prima dell’apertura dell’assemblea, e che costituisce i tal modo una sorta di limite: con tutto il suo apparato di referenze, che ho stimato utile riprodurre integralmente, esso è l’ultima e certamente la miglior sintesi di ciò è stata la dottrina della Chiesa sulla questione fino al Concilio.


    Abbé Claude Barthe




    Le relazioni tra la Chiesa e lo Stato e la tolleranza religiosa


    1.Il principio della distinzione tra la Chiesa e la società civile e della subordinazione del fine dello Stato al fine della Chiesa

    L’uomo, destinato da Dio ad un fine soprannaturale, ha bisogno tanto della Chiesa che della società civile per giungere alla perfezione. E’ proprio della società civile, alla quale l’uomo appartiene in ragione della propria natura sociale, di pervenire, in quanto essa è diretta verso i beni terrestri, a quel fine grazie al quale i cittadini possono condurre sulla terra una vita “calma e tranquilla” (I Tim 2,2). Quanto alla Chiesa, alla quale l’uomo deve incorporarsi in virtù della sua vocazione soprannaturale, essa è stata fondata da Dio affinché, crescendo sempre più, possa condurre i fedeli al loro fine eterno attraverso la propria dottrina, i sacramenti, la preghiera e la proprie leggi[2]. Ciascuna di queste società è dotata dei mezzi necessari per compiere la sua missione: tanto l’una che l’altra sono perfette, ciò significa che ciascuna di esse, nel proprio ordine rispettivo, è sovrana, e di conseguenza non sottomessa ad un’altra, dal punto di vista del potere legislativo, del potere giudiziario e del potere esecutivo[3].
    La distinzione fra queste due società riposa, come vuol la tradizione costante, sulle parole del Signore: “date a Cesare quel che è di Cesare date a Dio quel che è di Dio » (Mt 22,21). Ma quando queste due società esercitano i rispettivi poteri sulle medesime persone, oppure sullo stesso oggetto, non è permesso loro d’ignorarsi, e conviene sommamente che esse agiscano in concerto, per il più gran profitto di esse e dei membri che ad esse appartengono[4].
    Il Santo concilio volendo insegnare quali relazioni debbano esistere tra i due poteri in ragione della loro natura, dichiara che anzitutto bisogna tenere fermamente che sia la Chiesa sia la società civile sono state stabilite a beneficio dell’uomo[5], benché all’uomo non serva a nulla il gioire della felicità temporale, che il potere civile deve assicurare, qualora dovesse perdere la sua anima (Mt 16, 26 ; Mc 8, 36 ; Lc 9, 25). Per questa ragione il fine della società temporale non deve mai essere ricercato ad esclusione o a detrimento del fine ultimo [6], che è l’eterna salvezza.


    2. Il potere della Chiesa, i suoi limiti e le funzioni che la Chiesa adempie nei confronti del potere civile

    Il potere della Chiesa si estende a tutto ciò per mezzo del quale gli uomini raggiungono l’eterna salvezza, ciò invece che riguarda solamente la felicità temporale rileva, in quanto tale, dal potere civile. Ne consegue che la Chiesa non si occupa delle realtà temporali, salvo in quanto esse sono ordinate al fine soprannaturale. Ma in ciò che è ordinato tanto al fine della Chiesa che a quello dello Stato, come per esempio il matrimonio e l’educazione dei figli, i diritti del potere civile debbono essere esercitati in maniera che i beni superiori dell’ordine soprannaturale non soffrano alcun danno, della qual cosa la Chiesa è giudice. Non per questo la Chiesa si immischia in alcun modo negli affari temporali, che, fatta salva la legge divina, possono legittimamente essere organizzati in differenti modi. Custode del suo proprio diritto, rispettosa di quello altrui, la Chiesa stima particolarmente che non è suo compito il determinare quale forma costituzionale conviene maggiormente al governo della nazioni cristiane: essa non dà la sua preferenza ad alcun tipo d’organizzazione dello Stato tra quelli esistenti, a partire dal momento in cui la religione e la morale sono preservate[7]. Essa non impedisce il potere civile di far uso liberamente dei propri diritti e delle proprie leggi, allo stesso modo rivendica per sé la libertà che le appartiene [8].
    I governanti non devono ignorare quanto numerosi siano i benefici che la Chiesa procura alla società civile nel compimento della propria missione [9]. E’ la Chiesa stessa che contribuisce a far si che i cittadini siano dei buoni cittadini, inculcando loro la virtù e la pietà cristiana, in modo che il bene dello Stato sia solidamente assicurato, così come fa notare S. Agostino, nella misura in cui essi siano tali quali sono loro prescritti dalla dottrina cristiana [10]. Essa esige parimenti dai cittadini che obbediscano alle legittime prescrizioni che sono fatte loro “non solo per timore del castigo, ma in coscienza” (Rm 13, 5) [11]. Essa ingiunge d’altronde a coloro ai quali è affidato il governo dello Stato di non esercitare il loro ruolo per desiderio di potere, ma per il bene dei cittadini e come se dovessero rendere conto a Dio (Eb 13, 17) di questo potere che essi hanno ricevuto dalla Sua mano [12]. Essa inculca il rispetto religioso della legge naturale e della legge soprannaturale, per mezzo delle quali deve essere organizzato, nella pace e la giustizia l’insieme dell’ordine sociale, tanto fra i cittadini che fra le nazioni [13].

    3. i doveri religiosi del potere civile

    Il potere civile non può mostrarsi indifferente dinanzi alla religione. Poiché è stato istituito da Dio per aiutare gli uomini ad acquistare una perfezione che sia veramente umana, deve non solo offrire ai cittadini la facoltà di procurarsi i beni temporali, tanto materiali che culturali, ma deve fare in modo che possano avere agevolmente e in abbondanza i beni spirituali che sono loro necessari per condurre religiosamente la loro esistenza umana. Tra questi beni, nessuno è più importante di quello di poter conoscere Dio, di riconoscerlo come tale, e di adempiere i doveri che Gli sono dovuti: tale è, in effetti, il fondamento di ogni virtù privata e ancor più di ogni virtù pubblica [14].
    Questi omaggi dovuti alla maestà divina devono essere resi non solo dai cittadini presi individualmente, ma ugualmente dai poteri pubblici che rappresentano la società civile negli atti pubblici. Dio, in effetti, è l’autore della società civile e la fonte di tutti i beni che sono distribuiti da essa sui suoi membri. La società civile deve dunque onorare e venerare Dio [15].
    Quanto alla maniera secondo la quale Dio deve essere onorato, nella presente economia, essa non può essere che quella stessa di cui Dio a decretato di far uso nella vera Chiesa di Cristo. Di conseguenza, lo Stato deve associarsi al culto pubblico celebrato dalla Chiesa, non solo attraverso l’intermediario del cittadini, ma anche attraverso quello degli uomini che, preposti all’esercizio del potere, rappresentano la società civile [16].
    E’ evidente dai segni manifesti dei quali la Chiesa è stata dotata dal suo divino fondatore, in relazione alla sua divina istituzione e la sua missione, che il potere civile ha la possibilità di conoscere la vera Chiesa di Cristo [17]. In maniera tale che il dovere di ricevere la rivelazione proposta dalla Chiesa non incombe solo ai cittadini in particolare, ma anche al potere civile. Così esso, nelle leggi che è suo compito dettare, deve conformarsi ai precetti della legge naturale e tenere nel giusto conto le leggi positive, tanto divine che ecclesiastiche, per mezzo delle quali gli uomini sono guidati alla beatitudine eterna [18].
    Ma così come nessun uomo può onorare Dio nella maniera stabilita da Cristo se non riconosce che Egli ci ha parlato in Gesù Cristo [19], allo stesso modo la società civile non può farlo che nella misura in cui i cittadini, e il potere civile, in quanto esso rappresenta il popolo, siano assicurati del fatto della rivelazione.
    Il potere civile deve garantire in maniera speciale alla Chiesa una piena e completa libertà e non impedirle in alcun modo di poter adempiere interamente la propria missione: esercitare il proprio magistero sacro, regolare e celebrare il culto divino, amministrare i sacramenti e prendersi cura dei fedeli. La libertà della Chiesa deve essere riconosciuta dal potere civile in tutto ciò che si riferisce alla sua missione, che si tratti in particolare del reclutamento e della formazione dei seminaristi, della nomine dei vescovi, della libera e mutua comunicazione tra il Romano Pontefice, i vescovi e i fedeli, che si tratti dell’istituzione e del governo della vita religiosa, della pubblicazione e della diffusione degli scritti, del possesso e dell’amministrazione dei beni materiali, e in maniera generale di tutte le attività che la Chiesa, tenendo conto dei diritti civili, stimi opportuni per condurre gli uomini verso la loro salvezza eterna, senza dimenticare l’insegnamento profano, le opere sociali, e l’insieme degli altri mezzi [20].
    Infine incombe al potere civile il grave dovere di escludere dalla legislazione, dal governo dell’attività pubblica, tutto ciò che la Chiesa stima d’ostacolo al conseguimento del fine ultimo ; soprattutto, deve fare in modo che sia facilitata la vita che si fonda sui principi cristiani, l’esistenza più conforme a questo fine ultimo per il quale dio ha creato gli uomini [21].


    4. Principio generale d’applicazione della dottrina esposta

    La Chiesa ha sempre riconosciuto che il potere ecclesiastico e il potere civile hanno dei mutui rapporti differenti a seconda che il potere civile, agendo a nome del popolo, conosca o no Cristo, e per mezzo di Lui la Chiesa che ha fondato.


    5. Applicazione per lo Stato cattolico

    La dottrina sopra esposta dal santo concilio non può essere applicata nella sua integralità che nella Città nel seno della quale i cittadini, non solo sono battezzati, ma fanno anche professione di fede cattolica. In questa situazione, sono i cittadini stessi che decidono liberamente che la vita sociale sarà informata dai principi cattolici, in maniera tale che, come dice San Gregorio Magno, “ la via del cielo si apra più largamente” [22].
    Ma, anche in queste condizioni favorevoli, nessun motivo autorizza il potere civile a costringere le coscienze ad accettare la fede divinamente rivelata. In effetti, la fede è libera per essenza, ed essa non può essere l’oggetto di nessuna costrizione, così come lo insegna la Chiesa dicendo: “Nessuno può essere costretto, malgrado la sua volontà, ad abbracciare la fede cattolica” [23].
    Ma ciò non impedisce in nessun modo che il potere civile debba procurare le condizioni intellettuali, social e morali, grazie alle quali i fedeli, ivi compresi coloro che non hanno grandi conoscenze, possano facilmente perseverare nella fede che hanno ricevuto. Per questa ragione, così come il potere civile stima che sia suo compito di prendersi cura della moralità pubblica, allo stesso modo, alfine di preservare i cittadini dalle seduzioni dell’errore e perché lo Stato sia conservato nell’unità di fede, che è il bene supremo e la fonte di una moltitudine di benefici, anche nell’ordine temporale, il potere civile può esso stesso regolare le manifestazioni pubbliche degli altri culti, e difendere i propri cittadini dalla diffusione delle false dottrine a causa delle quali, a giudizio della Chiesa, la loro eterna salvezza è messa in pericolo [24].

    6. La tolleranza religiosa nello Stato cattolico

    Poiché si deve agire nel quadro della preservazione della vera fede secondo le esigenze della carità cristiana e della prudenza, bisogna fare in modo che i dissidenti non siano respinti, ma piuttosto attirati verso la Chiesa, e che né lo Stato, né la Chiesa soffrano danno. In maniera tale che si deve sempre aver presente il bene comune della Chiesa e quello dello Stato, per la realizzazione dei quali il potere civile, in funzione delle circostanze, può essere tenuto a mettere in atto una giusta tolleranza. Quest’ultima deve d’altronde essere consacrata dalla legge. Il potere civile vi sarà tenuto, o per evitare mali maggiori, come lo scandalo, i disordini civili, l’ostacolo alla conversione, e altri di questo tipo, oppure per procurare un maggior bene, come la collaborazione sociale, una vita comune pacifica tra concittadini che differiscono tra loro per religione, una più grande libertà della Chiesa, il compimento più facile della missione soprannaturale di quest’ultima e altri simili benefici [25]. In questo si deve tener conto non solo del bene concernente l’ordine nazionale, ma anche del bene della Chiesa universale e del bene comune internazionale [26]. Attraverso la tolleranza, il potere civile cattolico imita l’esempio della divina Provvidenza, che non impedisce i mali da cui essa può trarre beni maggiori [28]. Ciò deve essere particolarmente osservato laddove, da più secoli, vivono comunità non cattoliche [28].


    7. Applicazione per lo Stato non cattolico

    Negli Stati nei quali la maggior parte dei cittadini non professa la fede cattolica, oppure non conosce il fatto della rivelazione, il potere civile non cattolico, in materia religiosa, deve almeno conformarsi ai precetti della legge naturale [29].
    In questo contesto, la libertà civile deve essere concessa dal potere non cattolico a tutti i culti non opposti alla religione naturale. Ma questa libertà non si oppone dunque ai principi cattolici, poiché, essa è conforme tanto al bene della Chiesa che a quello dello Stato. In tali Stati, nei quali il potere non professa la fede cattolica, incombe particolarmente ai cittadini cattolici d’ottenere, grazie alle virtù e alle attività civiche per mezzo delle quali essi promuovono, in unione coi loro concittadini, il bene comune dello Stato, che una piena libertà sia concessa alla Chiesa perchè compia la sua missione divina [30]. In effetti lo stesso Stato non cattolico non soffre alcun danno dalla libera attività della Chiesa e ne ricava al contrario numerosi e considerevoli vantaggi. I cittadini cattolici dunque devono fare in modo che la Chiesa, e il potere civile, sebbene ancora giuridicamente separati, si prestino volentieri una mutua assistenza.
    Nella finalità che i cittadini cattolici, agendo nella difesa dei diritti della Chiesa, non nuocciano alla Chiesa, e ancor meno allo Stato, fosse in ragione della loro inerzia, oppure usando di uno zelo indiscreto, è necessario che si sottomettano al giudizio dell’autorità ecclesiastica, la quale ha competenza per giudicare, in funzione delle circostanze, di tutto ciò che concerne il bene della Chiesa [31] e per dirigere l’azione che i cittadini cattolici attuano per la difesa dell’altare [32].


    8. Conclusione

    Il Santo concilio, sapendo bene che i principi concernenti le mutue relazioni tra il potere ecclesiastico e il potere civile non devono essere applicati che se il governo risponde a ciò che è stato esposto più in alto, non può tuttavia permettere che essi siano velati dalle distorsioni di un laicismo erroneo, o addirittura sotto pretesto di salvaguardia del bene comune. Essi poggiano infatti sui diritti inattaccabili di Dio, sulla costituzione e la missione immutabile della Chiesa, così come sulla natura sociale dell’uomo che, restando identica in tutti i tempi, specifica il fine essenziale della società civile, nonostante le diversità dei regimi politici e la varietà delle situazioni storiche [33].




    La dottrina conciliare della libertà religiosa

    « Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Detta libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte sia di individui, che di gruppi sociali che di qualsivoglia potestà umana, in maniera che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità con la sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Dichiara inoltre che il diritto alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità stessa della persona umana quale la si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia per mezzo della stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto nell’ordine giuridico della società e diventare diritto civile. » (Dignitatis humanae, n. 2 § 1).





    [1] J. A. Komonchak, dans Giuseppe Alberigo (sous la direction de), Histoire du Concile Vatican II (1959-1965) — t. 1 : « Le catholicisme vers une nouvelle époque — L’annonce et la préparation », version française sous la direction d’Etienne Fouilloux, Cerf, 1997, p. 336.
    [2] Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), DzH 1866 ; Pie IX, Etsi multa luctuosa, 21 novembre 1873, ASS 7 (1872), DzH 1841.
    [3] Benoît XIV, Ad assiduas, 4 mars 1755, Bullarium t. IV, Rome 1758, p. 163 ; Pie VI, Auctorem fidei, 28 août 1794, DzH 1505 ; Pie IX, Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867), pp. 164-165, DzH 1697-1698 ; Syllabus, 8 décembre 1864, prop. 20 et 54, ASS 3 (1867), p. 170 ; prop. 20, ibid., p. 171, prop. 54, ibid., p. 174, DzH 1720 et 1754 ; Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), p. 174, DzH 1869 ; CJC 1917 : nombreux sont les canons qui supposent la qualité de société parfaite de l’Eglise, comme les can. 109, 120, 121, 265, 1160, 1322 § 2, 1495 § 1, 1496, 2214 § 1, 2390 ; Pie XI, Ubi arcano, 23 décembre 1922, AAS 14 (1922), pp. 697 ss. ; Quas primas, 11 décembre 1925, AAS 17 (1925), pp. 604 ss., DzH 2197 ; Divini illius Magistri, 31 décembre 1929, AAS 22 (1930), pp. 52-53, DzH 2203 ; Pie XII, discours du 2 octobre 1942, 29 octobre 1947, AAS 36 (1944), p. 289, 29 octobre 1947, AAS 39 (1947), p. 495, 7 décembre 1955, AAS 47 (1955), p. 677.

    [4] Au sujet de la nécessaire concorde entre les deux sociétés : Grégoire XVI, Mirari vos, 15 août 1832, ASS 4 (1868), p. 344, DzH 1615 ; Pie IX, Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867), p. 161, DzH 1688 ; Syllabus, 8 décembre 1864, prop. 55, ibid., p. 174, DzH 1755 ; Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), pp. 166, 173, DzH 1866-1867 ; Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), pp. 603 et 611 ; S. Pie X, Vehementer nos, 11 février 1906, ASS 39 (1906), pp. 12-13, DzH 1995 ; Pascendi, 8 septembre 1907, ASS 40 (1907), pp. 614-615, DzH 2092 ; Pie XI, Divini illius Magistri, 31 décembre 1929, AAS 22 (1930), pp. 55-56, DzH 2205 ; Pie XII, discours du 20 février 1949, AAS 41 (1949), pp. 75-76, 14 octobre 1951, AAS 43 (1951), p. 785, 12 mai 1953, AAS 45 (1953), pp. 399 ss., 7 septembre 1955, AAS 47 (1955), p. 679 (références explicites à la doctrine de Léon XIII, avec citations de Diuturnum illud, Immortale Dei et Sapientiae christianae) ; lorsque les ambassadeurs auprès du Saint-Siège lui présentaient leurs lettres accréditives, Pie XII a très souvent rappelé la nécessité de cette concorde, ainsi : 7 décembre 1939, AAS 31 (1939), p. 705, 15 novembre 1940, AAS 32 (1940), 22 novembre 1941, AAS 33 (1941), 10 mai 1945, AAS 37 (1945), p. 147, 29 janvier 1952, AAS 44 (1952) p. 185.
    [5] Léon XIII, Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (1889/90), p. 385 ; Pie XI, Divini Redemptoris, 19 mars 1937, AAS 29 (1937), p. 79 ; Pie XII, Summi pontificatus, 20 octobre 1939, AAS 31 (1939), p. 433 ; discours du 24 décembre 1941, AAS 34 (1942), pp. 12, 14, 20 février 1946, AAS 38 (1946), pp. 145 ss., 13 septembre 1952, AAS 44 (1952), p. 786. Cette doctrine a été explicitement proposée au sujet de l’Eglise, par Pie XI, discours aux prédicateurs de Carême, La Civiltà Cattolica, 78, vol. I (1927), pp. 554-555, et par Pie XII, dans Mystici Corporis, 29 juin 1943, AAS 35 (1943), pp. 222 ss.
    [6] Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), p. 164 : « Comme donc la société civile a été établie pour l’utilité de tous, elle doit, en favorisant la prospérité publique, pourvoir au bien des citoyens, de façon non seulement à ne mettre aucun obstacle, mais à assurer toutes les facilités possibles à la poursuite et à l’acquisition de ce bien suprême et immuable auquel ils aspirent eux-mêmes » ; Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), p. 595 ; S. Pie X, Vehementer nos, 11 février 1906, ASS 39 (1906), p. 5, encyclique dans laquelle il écrivait au sujet de la loi française qui prononçait la séparation de l’Eglise et de l’Etat, qu’elle « limite l’action de l’Etat à la seule poursuite de la prospérité publique durant cette vie, qui n’est que la raison prochaine des sociétés politiques ; et elle ne s’occupe en aucune façon, comme lui étant étrangère, de leur raison dernière, qui est la béatitude éternelle proposée à l’homme quand cette vie si courte aura pris fin. Et pourtant l’ordre présent des choses, qui se déroule dans le temps, se trouvant subordonné à la conquête de ce bien suprême et absolu, non seulement le pouvoir civil ne doit pas faire obstacle à cette conquête, mais il doit encore nous y aider » ; Pie XII, Summi pontificatus, 20 octobre 1939, AAS 31 (1939), p. 433, encyclique dans laquelle il déclare que l’Etat a notamment pour fin « d’aider les citoyens à obtenir la fin surnaturelle à laquelle ils sont destinés » ; Jean XXIII, Grata recordatio, 26 septembre 1959, AAS 51 (1959), p. 676.
    [7] Léon XIII, Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (1889-90), p. 396.
    [8] 1er des « IV Articles » condamnés par Alexandre VIII, Inter multiplices, 4 août 1690, DzH 1322 ; de nouveau condamné par Pie VI, Auctorem fidei, 28 août 1794, DzH 1598-1599 ; Pie IX, Ad Apostolicae, 22 août 1851, repris dans le Syllabus, prop. 24, ASS 3 (1867), p. 171, DzH 1724 ; Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885/86), pp. 166-167, DzH 1866 : « Ainsi, tout ce qui dans les choses humaines, est sacré à un titre quelconque, tout ce qui touche au salut des âmes et au culte de Dieu, soit par sa nature, soit par rapport à son but, tout cela est du ressort de l’autorité de l’Eglise », cité par Pie XII dans le discours du 7 septembre 1955, AAS 47 (1955), pp. 677-678. D’où il résulte que l’Eglise a compétence pour juger des lois civiles sous l’aspect religieux : Léon XIII, Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (1889/90), p. 397 ; lettre du cardinal Merry del Val au cardinal Sevin, AAS 1913, p. 559 ; Pie XI, Ubi arcano, 23 décembre 1922, AAS 14 (1922), p. 698 ; Pie XII, discours du 2 novembre 1954, 12 mai 1953, AAS 46 (1954), pp. 671-673, 12 mai 1953 : AAS 45 (1953), p. 400.
    [9] A de nombreuses reprises, depuis l’époque de la Révolution française, les Souverains Pontifes ont exposé les grands périls qu’il y avait pour l’Etat à négliger la religion et la loi du Christ. On peut évoquer par exemple : Pie VI, allocution au Consistoire, 29 mars 1790, avec citations de S. Augustin, Epist. ad Marc. 38, 15, PL 33, 532, et Contra Faustum, 21, 14, PL, 42, 398 ; id., Lettre à Louis XVI, 17 août 1790 ; id., après l’exécution de Louis XVI ; Grégoire XVI, Mirari vos, 15 août 1832, ASS 4 (1868), p. 343, avec citation de saint Augustin In Ps 124, 7, PL 37, 1654 ; Pie IX, Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867), pp. 166-167 ; dans le schéma préparé pour le premier concile du Vatican (Mansi 51, 545 ss.) : la religion forme de bons citoyens par la vertu et la piété ; le devoir de l’obéissance civile est établi sur l’autorité divine ; elle enseigne aux princes à gouverner non pour leur propre avantage, mais pour le bien commun ; Léon XIII, Diuturnum illud, 29 juin 1881, ASS., 14 (1881), pp. 3-14, qui cite S. Augustin, De moribus Ecclesiae, I, 30, PL 32, 1336 ; Cum multa sint, 8 décembre 1882, ASS 15 (1882), p. 242 : « Car quand la religion est supprimée, il arrive nécessairement qu’on voit chanceler la stabilité des principes sur lesquels se fonde surtout la sécurité publique, qui tirent de la religion leur principale force, et au moyen desquels on peut, par exemple : commander avec justice et modération, se soumettre par conscience du devoir qu’on en a, dompter ses passions par la vertu, rendre à chacun ce qui lui appartient, ne pas toucher au bien d’autrui » ; Nobilissima Gallorum gens, 8 février 1884, ASS 16 (1883), pp. 242-243 ; Humanum genus, 20 avril 1884, ibid., pp. 417-433 ; Au milieu des sollicitudes, 16 février 1892, ASS 24 (1891 /92), p. 520 ; Caritatis, 19 mars 1894, ASS 26 (1893/1894), p. 525 ; Praeclara gratulationis, 20 juin 1894, ASS 26 (1893/94), p. 715 ; Longinqua oceani, 6 janvier 1895, ASS 27 (1894/95), p. 389 ; Tametsi futura, 1er novembre 1900, ASS 33 (1900/01), pp. 283-285 ; S. Pie X, Jucunda sane, 12 mars 1904, ASS 36 (1903/04), p. 520 ; Benoît XV, Ad beatissimi, 1er novembre 1914, AAS 6 (1914), pp. 567-568 et 571 ; Anno jam exeunte, 7 mars 1917, AAS 9 (1917), p. 172 ; Pie XI, Ubi arcano, 23 décembre 1922, AAS 14 (1922), pp. 683 et 687 ; Quas primas, 11 décembre 1925, AAS 17 (1925), pp. 604-605 ; Pie XII, Summi Pontificatus, 20 octobre 1939, AAS 31 (1939) pp. 423-424 ; discours du 6 octobre 1940, AAS 32 (1940), p. 411, 10 novembre 1940, ibid., pp. 495-496 ; Jean XXIII, Ad Petri cathedram, 29 juin 1959, AAS 51 (1959), pp. 528 et 529 : « Et s’il y a une chose qu’il faut considérer comme certaine c’est que là où les droits sacro-saints de Dieu et de la religion sont négligés et foulés aux pieds, les fondements mêmes de la société humaine sont ébranlés et s’écroulent tôt ou tard, comme le notait très sagement Notre Prédécesseur d’immortelle mémoire, Léon XIII : “Il est normal [...] que la force des lois soit brisée, que toute autorité soit affaiblie quand on répudie l’ordre souverain et éternel de Dieu qui commande ou interdit” (Exeunte jam anno, 25 décembre 1888). Cette affirmation concorde avec le mot de Cicéron : “Vous, Pontifes, vous défendez la Ville par la religion plus efficacement qu’elle n’est défendue par nos murs eux-mêmes” » (De natura deorum, III, 40).
    [10] S. Augustin, Epist. ad Marcellinum, 138, 15 ; PL 33, 532 : « Ainsi donc, ceux qui disent que la doctrine du Christ est contraire à la République, qu’ils produisent donc une armée qui ressemble à celle faite de soldats qui sont tels que la doctrine chrétienne le leur ordonne, qu’ils produisent des citoyens, des maris, des épouses, des parents, des enfants, des maîtres, des esclaves, des chefs, des juges, des contribuables et des collecteurs d’impôts, qui ressemblent à ceux qui suivent la doctrine chrétienne, et qu’ils l’entendent dire qu’elle est contraire à la République. Bien au contraire, qu’ils soient bien assurés de l’entendre proclamer qu’elle est, si l’on s’y conforme, la sauvegarde de l’Etat ».
    [11] Cf. de même, Tt 3, 1 ; 1 P 2, 13-15.
    [12] Cf. de même, Sg 6, 4-6 ; Rm 3, 1.
    [13] Pie XII, Radiomessage du 24 décembre 1942, AAS 35 (1943), p. 10.
    [14] Léon XIII, Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), p. 603 : « Il faut, la nature même le crie, il faut que la société donne aux citoyens les moyens et les facilités de passer leur vie selon l’honnêteté, c’est-à-dire selon les lois de Dieu, puisque Dieu est le principe de toute honnêteté et de toute justice ; il répugnerait donc absolument que l’Etat pût se désintéresser de ces mêmes lois ou même aller contre elles en quoi que ce soit. De plus, ceux qui gouvernent les peuples doivent certainement à la chose publique de lui procurer, par la sagesse de leurs lois, non seulement les avantages et les biens du dehors, mais aussi et surtout les biens de l’âme » ; Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (1889/90), p. 385 ; Au milieu des sollicitudes, 16 février 1892, ASS 24 (1891/92).
    [15] Léon XIII, Humanum genus, 20 avril 1884, ASS 16 (1883), p. 427 : « De fait, la société du genre humain, pour laquelle la nature nous a créés, a été constituée par Dieu, auteur de la nature. De lui, comme principe et comme source, découlent dans leur force et dans leur pérennité les bienfaits innombrables dont elle nous enrichit. Aussi de même que la voix de la nature rappelle à chaque homme en particulier l’obligation où il est d’offrir à Dieu le culte d’une pieuse reconnaissance, parce que c’est à lui que nous sommes redevables de la vie et des biens qui l’accompagnent, un devoir semblable s’impose aux peuples et aux sociétés ». Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), p. 163 ; Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), p. 604 : « C’est pourquoi la société civile, en tant que société, doit nécessairement reconnaître Dieu comme son principe et son auteur et, par conséquent, rendre à sa puissance et à son autorité l’hommage de son culte ». Au milieu des sollicitudes, 16 février 1892, ASS 24 (1891/92), p. 520 ; S. Pie X, Vehementer nos, 11 février 1906, ASS 39 (1906), p. 5 : « Car le créateur de l’homme est aussi le fondateur des sociétés humaines, et il les conserve dans l’existence comme il nous y soutient. Nous lui devons donc non seulement un culte privé, mais un culte public et social pour l’honorer » ; allocution au consistoire, 21 février 1906, ibid., pp. 30-31 : « Or, Dieu n’est pas seulement le seigneur et le maître des hommes considérés individuellement, mais il l’est aussi des nations et des Etats ; il faut donc que ces nations et ceux qui les gouvernent le reconnaissent, le respectent, et le vénèrent publiquement » ; Pie XI, Quas primas, 11 décembre 1925, AAS 17 (1925), p. 609 ; Pie XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947, AAS 39 (1947), pp. 525 ss.

    [16] Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), pp. 163-164 : « Les sociétés politiques ne peuvent sans crime se conduire comme si Dieu n’existait en aucune manière, [...] ou admettre une [religion] indifféremment selon leur bon plaisir : en honorant la Divinité, elles doivent suivre strictement les règles et le mode suivant lesquels Dieu lui-même a déclaré vouloir être honoré » ; Pie XI, Quas primas, 11 décembre 1925, AAS 17 (1925), pp. 601, 609 ; Pie XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947, AAS 39 (1947), pp. 525-526.
    [17] A la difficulté soulevée à notre époque à propos de l’impossibilité pour l’Etat de choisir entre divers cultes, Léon XIII donne ainsi une solution dans Immortale Dei, 1er novembre 1885, 1. c., p. 164 : « Quant à décider quelle religion est la vraie, cela n’est pas difficile à quiconque voudra en juger avec prudence et sincérité. En effet, des preuves très nombreuses et éclatantes, la vérité des prophéties, la multitude des miracles, la prodigieuse célérité de la propagation de la foi, même parmi ses ennemis et en dépit des plus grands obstacles, le témoignage des martyrs et d’autres arguments semblables prouvent clairement que la seule vraie religion est celle que Jésus-Christ a instituée lui-même et qu’il a donné mission à son Eglise de garder et de propager » ; Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), p. 604. Jean XXIII a parlé au sujet de l’indifférentisme sous l’aspect plutôt personnel : Ad Petri cathedram, 29 juin 1959, AAS 51 (1959), pp. 501-502.
    [18] Léon XIII, Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), pp. 602-603 : il démontre que le respect de la loi divine positive est nécessaire non seulement pour les individus, mais aussi pour toute la Cité ; Tametsi futura, 1er novembre 1900, ASS 33 (1900), p. 279 ; S. Pie X, Jucunda sane, 12 mars 1904, ASS 36 (1903/4), pp. 521-522. Au sujet de la nécessaire subordination de l’Etat aux lois ecclésiastiques : Syllabus, décembre 1864, prop. 42, ASS 3 (1867), p. 172 : DzH 1742, et prop. 54, ASS ibid., p. 174, DzH 1754. Concernant la loi de l’abstention des œuvres serviles certains jours : Pie IX, Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867), p. 163. Jean XXIII, Princeps pastorum, 28 novembre 1959, AAS 51 (1959), p. 860 : « En particulier, lorsqu’il s’agit des problèmes et de l’organisation des écoles, de l’assistance sociale organisée, du travail et de la vie politique, la présence d’experts catholiques autochtones peut avoir une influence des plus heureuses et bénéfiques, s’ils savent — comme cela leur est un devoir précis, qu’ils ne peuvent négliger sans se voir accuser de trahison — s’inspirer dans leurs intentions et leurs actes de principes chrétiens reconnus par une expérience multiséculaire comme efficaces et décisifs pour procurer le bien commun » ; Grata recordatio, 26 septembre 1959, AAS 51 (1959), pp. 676-677 : « ...qu’ils n’oublient pas [les responsables des nations] les lois éternelles qui viennent de Dieu et qui sont le fondement et le pivot de la vie civique elle-même ; qu’ils soient toujours soucieux des destinées surnaturelles de chaque homme, dont l’âme a été créée par Dieu pour qu’elle puisse le rejoindre et jouir de lui éternellement ».
    [19] Pie IX, Qui pluribus, 9 novembre 1846, DzH 1637.

    [20] Diverses propositions du Syllabus concernent les droits de l’Eglise : l’Eglise société parfaite dotée de ses droits indépendamment de l’Etat, prop. 19 et 20, ASS 3 (1867/68), pp. 170-171, DzH 1719-1720 ; droit de posséder des biens temporels, prop. 26, p. 171, DzH 1726 ; droit pour les évêques de publier les Lettres apostoliques sans aucune gêne de la part du gouvernement, prop. 28, p. 171, DzH 1728 ; au sujet des immunités ecclésiastiques, prop. 30, 31, 32 et 43, pp. 171 et 172, DzH 1730-1732 et 1743 ; pouvoir sur les choses sacrées, la doctrine théologique, la formation des clercs, les écoles, etc., prop. 33, 41, 44, 45, 46, 47, 48, pp. 172-173, DzH 1733, 1741, 1744, 1745, 1746, 1747, 1748 ; libre et mutuelle communication entre le Pontife romain, les évêques et les fidèles, prop. 49, p. 173, DzH 1749 ; libre institution, présentation et déposition des évêques, prop. 50 et 51, p. 173, DzH 1750-1751 ; au sujet de la profession religieuse, prop. 52 et 53, pp. 173-174, DzH 1752 et 1753 ; au sujet du mariage, prop. 67-74, pp. 175-176, DzH 1767-1774 ; concernant la faculté de distribuer des aumônes, Quanta cura, ASS 3 (1867), p. 163, DzH 1693. Au sujet de ces droits de l’Eglise, cf. les schémas préparés par la Commission de rebus politico-ecclesiasticis du premier concile du Vatican (Mansi, 53, 853-894). Dans le Code de Droit canonique, plusieurs de ces droits sont sanctionnés : éducation des clercs, can 1352 ; écoles avec leurs organisations et leurs diplômes, can 1375 ; animation de la formation religieuse de la jeunesse dans quelques écoles que ce soit et vigilance sur la doctrine, les livres et les maîtres, sous l’angle de la foi, can 1381, 1382, 1384 ; pouvoir d’acquérir, de posséder et d’administrer des biens temporels indépendamment du pouvoir civil, can 1495 ; d’exiger la contribution des fidèles, can 1496 ; au sujet du mariage, can 1016.
    [21] Aux références données dans la note 5, il faut ajouter : Pie VII, Diu satis, 15 mai 1800, Bullarii Rom Continuatio, t. XI, pp. 21 ss. ; Pie IX, Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867/68), p. 166, Pie XI, Ad salutem, 20 avril 1930, AAS 22 (1930), pp. 219 et 220.
    [22] S. Grégoire le Grand, Epist 65, ad Mauricium, PL 77, 663. Au sujet de la conjoncture ici supposée qui permet d’appliquer la doctrine catholique, cf. Taparelli D’Azeglio, Essai théorique de droit naturel, 4e édition, Casterman, Paris-Leipzig-Tournai, t. I, pp. 388-390

    [23] Code de Droit canonique, can 1351. Parmi les sources de ce canon, on peut consulter : Benoît XIV, Postremo mense, 28 février 1747, Benedicti XIV Bullarium, t. II, Rome 1754, pp. 113-145 : on distingue entre l’infidèle non baptisé et l’hérétique qui, ayant reçu le baptême dans l’Eglise, s’en est séparé, selon la doctrine de S. Thomas, ST, IIa IIae, q. 10, a. 8 ; Pie VI, Quod aliquantulum, 13 avril 1791, avec citation des lettres de S. Augustin ad Vincentium Cartennensem, Epist. 93, PL 33, 321-347, et ad Bonifacium Comitem, Epist. 185, 8, PL 33, 795 ss. ; Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), pp. 174-175, où est cité S. Augustin : « L’homme ne peut croire s’il ne le veut », in Jn 26, 2, PL 35, 1607 ; Pie XII, Mystici Corporis, 29 juin 1943, AAS 35 (1943), p. 243 ; discours du 6 octobre 1946, AAS 38 (1946), p. 393, où est rapporté un mémorandum du Secrétaire d’Etat à ce sujet (ibid., p. 394).
    [24] La sage réglementation des cultes non catholiques et la prohibition des doctrines contraires à la foi n’a pas pour but, en effet, la conversion forcée des non-catholiques, mais la préservation de l’unité de la foi. Ainsi, Taparelli D’Azeglio, dans l’Essai théorique de droit naturel, loc. cit., p. 390, écrit : « Ce ne sera pas évidemment dans le but d’en faire des croyants ou de les rendre pieux par force, mais pour les empêcher de troubler, par de fausses doctrines ou par le scandale de leur conduite, l’unité religieuse de la société, cet élément d’une haute importance pour la félicité publique ». De même Pie XII, discours du 7 septembre 1955, AAS 47 (1955), pp. 678-679 : « Qu’on n’objecte pas que l’Eglise elle-même méprise les convictions personnelles de ceux qui ne pensent pas comme elle. L’Eglise considérait et considère l’abandon volontaire de la vraie foi comme une faute. Lorsqu’à partir de 1200 environ cette défection entraîna des poursuites pénales de la part tant du pouvoir spirituel que civil, ce fut pour éviter que ne se déchirât l’unité religieuse et ecclésiastique de l’Occident. Aux non-catholiques, l’Eglise applique le principe repris dans le Code de Droit canonique : “Personne ne peut être contraint, malgré lui, à embrasser la foi catholique” [can 1351], et estime que leurs convictions constituent un motif, mais non toutefois le principal, de tolérance. [...] L’Eglise ne dissimule pas qu’elle considère en principe cette collaboration comme normale, et qu’elle regarde comme un idéal l’unité du peuple dans la vraie religion et l’unanimité d’action entre elle et l’Etat. Mais elle sait aussi que depuis un certain temps les événements évoluent plutôt dans l’autre sens, c’est-à-dire vers la multiplicité des confessions religieuses et des conceptions de vie dans la même communauté nationale, où les catholiques constituent une minorité plus ou moins forte ». Au sujet de la liberté religieuse (liberté de conscience, de culte et de propagande), on doit citer principalement les documents suivants : Pie VI, Communicamus vobiscum, alloc. au Consistoire, 29 mars 1790 ; Priores litterae tuae, au cardinal de Loménie, 23 février 1791 ; Quod aliquantulum, au cardinal de La Rochefoucauld, 10 mars 1791 ; Pie VII, Post tam diuturnas, 29 avril 1814 ; Grégoire XVI, Mirari vos, 15 août 1832, ASS 4 (1868), pp. 341-342, DzH 1613 ; Singulari Nos, 25 juin 1834, Acta Gregorii Pp. XVI, Vol. I, pp. 433 ss. ; Pie IX, Qui pluribus, 9 novembre 1846, Pii IX Acta, P. IX, pp. 4 ss. ; Maxima quidem, alloc. au Consistoire, 9 juin 1862 ; Quanta cura, 8 décembre 1864, ASS 3 (1867/68), p. 162, DzH 1690, avec citation de S. Augustin, Epist. 105, c. II, 9, PL 33, 399 ; Syllabus, 8 décembre 1864, prop. 77 : ASS 3 (1867), p. 176, DzH 1777 ; prop. 78, ASS, ibid., DzH 1778 ; Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), p. 172 ; Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), pp. 603-605, au sujet de la liberté des cultes, pp. 605-608, liberté de parler et d’écrire, DzH 1931-1932, p. 608, de la vraie et fausse liberté de conscience, p. 612, DzH 1932 : est condamnée la liberté connexe des religions ; Benoît XV, Anno jam exeunte, au P. Hiss, supérieur général des marianistes, 7 mars 1917, AAS 9 (1917), p. 172 : parmi les principes pernicieux sur lesquels s’appuie la discipline des Etats [modernes], et par lesquels les fondements de la société chrétienne sont ébranlés, le Souverain Pontife relève celui-ci : « Les libertés, particulièrement celle d’opinion en matière de religion, ou de diffusion pour chacun de ce qui lui plaît, ne doivent être aucunement limitées, dans la mesure où cela ne nuit à personne » ; Pie XI, lettre Constat apprime, au cardinal Gasparri, 16 avril 1921, AAS 21 (1929), pp. 301-302 : au sujet des accords ébauchés entre le Saint-Siège et le Royaume d’Italie : où il est question de la liberté de conscience et de discussion ; Non abbiamo bisogno, 29 juin 1931, AAS 23 (1931) ; Lettre de la Secrétairerie d’Etat à M. Duthoit, 19 juillet 1938 (Bonne Presse, t. XVIII, p. 86) ; Pie XII, discours du 6 octobre 1946, AAS 38 (1946), pp. 394-395 ; Carissimis Russiae, 7 juillet 1952, AAS 44 (1952), p. 505 ; Jean XXIII, discours du 8 décembre 1959, AAS 52 (1960), p. 47, cf. de même pp. 49-50.

    [25] Au sujet de la tolérance, les principes énoncés par S. Thomas, ST IIa IIae, q. 10, a. 11, sont consacrés par Léon XIII, Immortale Dei, 1er novembre 1885, ASS 18 (1885), p. 174, et exposés plus longuement dans Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), pp. 609-612 ; Pie XII, discours du 6 octobre 1946, AAS 38 (1946), 6 décembre 1953, AAS 45 (1953), pp. 794-802, discours du 7 septembre 1955, AAS 47 (1955), pp. 677-678, cité note 23.
    [26] Pie XII, discours du 6 décembre 1953, AAS 45 (1953), p. 801 : « Dans de tels cas particuliers, l’attitude de l’Eglise est déterminée par la volonté de protéger le bonum commune, celui de l’Eglise et celui de l’Etat dans chacun des Etats d’une part, et de l’autre, le bonum commune de l’Eglise universelle, du règne de Dieu sur le monde entier ». Précédemment, le Souverain Pontife avait parlé aussi du bien commun civil de toute communauté d’Etats. Nous étendons ces considérations au bien commun international de toutes les nations.
    [27] Léon XIII, Libertas praestantissimum, 20 juin 1888, ASS 20 (1887), pp. 609-612 ; Pie XII, discours du 6 décembre 1953, AAS 45 (1953), pp. 798-799.
    [28] Taparelli D’Azeglio, Essai théorique de droit naturel, loc. cit., p. 391.
    [29] Taparelli D’Azeglio, ibid., p. 387.
    [30] Léon XIII, Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (1889/90), pp. 396-397.
    [31] Léon XIII, Sapientiae christianae, 10 janvier 1890, ASS 22 (l889/90), p. 400 ; Pie XII, discours du 6 décembre 1953, AAS 45 (1953), pp. 799-800.

    [32] Pie XI, discours aux universitaires catholiques : « Quand la politique touche à l’autel, alors la religion, l’Eglise et le Pape qui la représente, ont non seulement le droit mais encore le devoir de donner des indications et des directives que les âmes catholiques ont le droit de demander et le devoir de suivre » (L’Osservatore Romano, 10 septembre 1924) ; discours à la jeunesse catholique : « C’est la politique qui a touché à l’autel. Et Nous défendrons alors l’autel. C’est Notre rôle à nous de défendre la religion, les consciences, la sainteté des sacrements » (L’Osservatore Romano, 21-22 septembre 1927).
    [33] Beaucoup d’auteurs, à notre époque, ont enseigné que les principes ici exposés ne sont rien d’autre que des normes contingentes données par les Souverains Pontifes relativement à des circonstances, déjà largement dépassées : Pie VI, à Jérôme-Marie Champion de Cicé, archevêque de Bordeaux, 10 juillet 1790 : « Les devoirs [du roi] envers Dieu sont assurément invariables, et il ne peut les omettre sous aucun prétexte, quand bien même il aurait l’intention d’y revenir lorsque ces temps si pervers seront révolus ». Il n’est pas douteux que c’est bien cette doctrine immuable concernant « la constitution de la société chrétienne » que Léon XIII a entendu transmettre par son encyclique Immortale Dei. De fait, il la propose comme fondée sur la révélation et conforme à la raison naturelle. Les successeurs de Léon XIII enseignèrent qu’elle est invariable dès lors qu’elle est fondée sur trois principes : les droits de Dieu, la nature sociale de l’homme de laquelle découle la fin essentielle de l’Etat, et la nature immuable de l’Eglise : S. Pie X, Notre charge apostolique, 25 août 1910 [condamnation du Sillon] : AAS 2 (1910), pp. 612, 625, 627 ; Benoît XV, Anno jam exeunte, 7 mars 1917, AAS 9 (1917), pp. 171-175 ; Pie XI, Divini illius Magistri, 31 décembre 1929, AAS 22 (1930), pp. 65-66 : « Tout ce que nous avons dit jusqu’ici [...] a pour fondement très solide et immuable la doctrine sur la “constitution chrétienne des Etats”, si remarquablement exposée par Notre prédécesseur Léon XIII, particulièrement dans les encycliques Immortale Dei et Sapientiae christianae » — aux passages d’Immortale Dei qu’il cite, et dans lesquels sont exposés tant la distinction que les rapports entre les deux pouvoirs, et aussi ce qui concerne le pouvoir indirect de l’Eglise, Pie XI ajoute : « Quiconque refuserait d’admettre ces principes et de les appliquer à l’éducation en viendrait nécessairement à nier que le Christ ait fondé son Eglise pour le salut éternel des hommes, et à soutenir que la société civile et l’Etat ne sont pas soumis à Dieu et à sa loi naturelle et divine. Ce qui est évidemment impiété, contraire à la saine raison... » — ; Lettre de la Secrétairerie d’Etat à M. Duthoit, 12 juillet 1933 (Bonne Presse, t. X, p. 241) ; Divini Redemptoris, 19 mars 1937, AAS 29 (1937), p. 81 ; Pie XII, Summi Pontificatus, 20 octobre 1939, AAS 31 (1939), pp. 432-433 : « La souveraineté civile, en effet, a été voulue par le Créateur, comme l’enseigne sagement Notre grand prédécesseur Léon XIII dans l’encyclique Immortale Dei, afin qu’elle réglât la vie publique selon les prescriptions d’un ordre immuable dans ses principes universels, qu’elle rendît plus aisée à la personne humaine, dans l’ordre temporel, l’obtention de la perfection physique, intellectuelle et morale, et qu’elle l’aidât à atteindre sa fin surnaturelle » ; discours du 6 octobre 1946, AAS 38 (1946), p. 393, 29 octobre 1947, AAS 39 (1947), p. 495, 7 décembre 1955, AAS 47 (1955), pp. 677-678 : « Léon XIII a enfermé, pour ainsi dire, dans une formule, la nature propre de ces relations, dont il donne un exposé lumineux dans ses encycliques Diuturnum illud, Immortale Dei et Sapientiae christianae ». Au sujet de l’opposition entre le laïcisme actuel et la doctrine chrétienne, Jean XXIII parle ainsi dans Grata recordatio, 26 septembre 1959, AAS 51 (1959), p. 677 : « Il faut en outre rappeler qu’on voit se répandre aujourd’hui des modes de pensée, des positions philosophiques et des attitudes pratiques, absolument inconciliables avec la doctrine chrétienne. Nous continuerons, avec sérénité, mais aussi avec précision et fermeté, à affirmer ce caractère inconciliable. Mais Dieu a fait que les hommes et les nations puissent se racheter (Sg 1, 14). C’est pourquoi Nous avons confiance que, une fois que l’on aura abandonné les postulats arides d’une façon de penser et d’agir cristallisée, imprégnée, comme chacun le sait, des mensonges du “laïcisme” et du “matérialisme”, on cherchera et on trouvera les remèdes opportuns dans cette saine doctrine qui se trouve chaque jour davantage confirmée par l’expérience. Or, cette doctrine proclame que Dieu est l’auteur de la vie et de ses lois, qu’il est le protecteur des droits de la dignité et de la personne humaine et que, par conséquent, il est [comme dit la sainte liturgie] “notre salut et notre rédemption” ».

    29 gennaio 2010

    MONS. GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE - ALCUNI SCRITTI DI MONS. BRUNO FORTE SUSCITANO IL DIBATTITO


    Il Decano di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Mons. Prof. Brunero Gherardini, già autore su
    "Disputationes Theologicae", di un sintetico e puntualissimo articolo su “Il valore magisteriale del Vaticano II”, interviene ora con un contributo di grande stimolo scientifico. Senza tergiversare, l’illustre teologo stronca come gravemente eterodossa la cosiddetta “cristologia liberale”. Quest’ultima, partendo da ambienti esegetici influenzati da Strauss e Bultmann o dal pensiero del “protestantesimo liberale” in genere, ha guadagnato molti teologi contemporanei. Mons. Gherardini analizza questa “nouvelle théologie” nella sua simbiosi con il pensiero “anti-metafisico” di certa filosofia tedesca. Egli concentra la sua analisi sul terreno strettamente teologico, esprimendo, con dovizia di documentazione, il suo energico dissenso dalla teologia di Mons. Bruno Forte.



    IL DIO DI GESU' CRISTO

    di Mons. Brunero Gherardini


    Rudolf Bultmann


    Quanto sto per scrivere è ben lungi, nell'intenzione e di fatto, da ciò che comunemente è detto processo alle intenzioni. Per principio mi sforzo sempre di considerarle tutte - le intenzioni - pure e sante. Ovviamente, "donec contrarium probetur", nel qual caso anche una presunzione di santità o ne trae le conseguenze, o si rassegna al ridicolo. S'aggiunga poi che l' intenzione, anche se pura e santa, non trasferisce automaticamente la propria ineccepibilità morale nel suo prodotto, il quale ha un suo realismo oggettivo, e quindi una sua moralità, prescindendo dall'intenzione formale che lo vuole e verso il quale si protende. Una bestemmia è sempre, in sé e per sé, una bestemmia, anche se pronunciata paradossalmente per render gloria a Dio.

    Una tale premessa era necessaria per capir il giudizio, certamente ed irriducibilmente negativo, che sto per pronunciare. Il giudizio non riguarda né le persone che han detto certe cose, né le intenzioni per le quali le han dette, ma esclusivamente le cose che sono state dette, anche se son pervenute all'orecchio e all'intelligenza di qualcuno solo perché qualcun altro le ha dette. Nel sottolineare chi, metto in luce di esse il soggetto con le sue circostanze di luogo e di tempo, senza peraltro condannarlo, nemmeno se - come nel caso di cui qui m'interesso - la mia coerenza teologico-morale mi porta alla condanna inequivoca di ciò ch'è stato detto.

    1 - Che cos'è stato detto - Mi riferisco soprattutto, ma non esclusivamente, ad un'espressione non nuova in assoluto, essendo talvolta comparsa, anche se formulata in modo diverso, in un passato non troppo lontano da non pochi degli addetti ai lavori. Proprio perché né faccio, né voglio far il processo alle intenzioni, dirò che si tratta ormai d'un modo-di-dire entrato nel gergo teologico e dai più recepito ed usato quasi certamente senz'avvertirne né la provenienza, né il significato. Provenienza e significato, a dir il vero, più vicini alla cosiddetta Liberaltheologie che non al Credo cattolico.

    L'espressione alla quale mi riferisco suona in questi termini: i l D i o d i G e s ù C r i s t o .

    Forse il non addetto ai lavori, oppure il non attento all'esigenza d'un linguaggio il più possibilmente proprio per farne tramite, pur sempre inadeguato, dell'Ineffabile, neanche s'accorge d'aver a che fare con un'espressione che dir impropria è un complimento. Il fatto ch'essa allude a Dio ed a Gesù Cristo è più che sufficiente a soddisfar il facile palato di quei teologi - ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato sempre cangiante dell'immanenza. Ho trovato un po' dovunque - in Italia, in Europa, nelle Americhe - le opere di siffatti maestri, brillantemente esposte nelle vetrine di librerie ovviamente cattoliche. Segnalate come nouvelle vague théologique, esse apron la teologia postconciliare alla metodologia storico-critica, chiudendola ermeticamente a quella "ex auctoritate et ex traditione". N'è nata la famosa teologia dal basso, non più legata ai dati della divina Rivelazione, né più tributaria della " soffocante" metodologia scolastica che, appropriandosi della Rivelazione stessa, imponeva i suoi criteri interpretativi e le conseguenza cui perveniva. Teologia dal basso, cioè al servizio non del "Dio che ha parlato e si è rivelato", ma del Dio che vien rivelandosi di volta in volta, qui ed ora, nel dispiegarsi di questo momento storico, nelle alternanze della coscienza religiosa, nel sentimento e nella commozione dell'animo umano, nella sua sete di giustizia e di pace, a coronamento dei suoi desideri e delle sue aspettative. Una teologia, insomma, a misura d'uomo, per l'uomo, in conformità al "suo" mistero umano ed alla "figura di questo mondo" (1Cr 7,31) che ne plasma l'identità. Una teologia, infine, tutta protesa a sondare, sulla scia della rivelazione in fieri, non più il mistero di Dio nel mistero del suo Verbo incarnato, ma il mistero dell'uomo come cartina di tornasole del mistero di Dio.

    A dir il vero, questa nuova teologia di nuovo ha ben poco. Nel 1835, un Repetent di Tubinga, David Friedrich Strauss, difese la tesi secondo la quale il Cristo del NT non era il Gesù della storia, ma l'oggetto della fede, quale il Libro sacro aveva accolto dalle dichiarazioni di fede della Chiesa nascente[1]. Gli scritti di questo Repetent s'innestano su altri con caratteristiche analoghe ed insieme fanno da apripista ad una corrente - la Leben-Jesu-Forschung - che dà un volto ai secoli XIX e XX, ridimensionando la figura storica di Gesù: il Signore, il Risorto assiso alla destra del Padre e presente col suo Spirito nella vita della Chiesa vien considerato come il frutto della fantasia credente, nettamente distinto e diverso dal biondo Rabbi della Galilea, dalla sua concreta ed individua esistenza all'interno d'una storicità ben determinata e sulla cui psicologia indagaron Ethelbert Stauffer[2] e, con esiti ben diversi, i cattolici Paul Galtier e Pietro Parente[3]. In effetti, è questa la griglia attraverso la quale può intravedersi la scaturigine culturale del Dio di Gesù Cristo. E' la griglia del criticismo teologico che è riuscito nell'impresa di staccare la "paràdosis" del Credo dalla sua dipendenza dalle fonti e di queste medesime fonti ha talmente sconvolto il costitutivo formale da farne un fantomatico coacervo di presupposti ben al di là dei dati più elementari del NT. Dinanzi ad un siffatto isolamento critico-scientifico dell'Uomo-Dio dalla vita e dalla fede della Chiesa, la parola di Karl Barth, un protestante mai tenero verso la Chiesa cattolica, assume il timbro d'un autorevolissimo e profetico richiamo perché si smetta di dar la caccia al "fantasma d'un Gesù storico nello spazio vuoto dietro il NT"[4].

    Uno dei massimi responsabili di codesta caccia, quel Rudolph Bultmann che tanta fortuna incontrò in campo cattolico ed altrettanta ne procurò e ne procura ad alcune editrici cattoliche, pone il problema cristologico a cavallo tra due categorie: il mito e la storia. Prima di lui, altri - e fra questi in special modo il ben noto W. Bousset[5] - si sottrassero alla suggestione e d'un'interpretazione cristologica a partire dalla suprema regalità del Padre e videro nel Christus Kyrios una pura e semplice espressione mitologica, che trasformò l'uomo Gesù in essere divino. Da qui l'impegno, tutto liberale, di "smitizzare" il Cristo della fede per ritrovar i lineamenti storici di Gesù.

    D'un personaggio, cioè, che non ha nulla in comune, nella realtà dei fatti, con il Figlio preesistente di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, crocefisso risuscitato ed assiso alla destra del Padre. E che non può esser affatto il Kyrios presente nella Chiesa con la forza del suo Spirito e con l'efficacia dei suoi sacramenti. Tutto ciò, infatti, è mito che ha trasformato Gesù in Cristo e di cui questo Cristo va spogliato perché torni ad esser Gesù.

    La peculiarità di R. Bultmann si mise in luce nel distinguersi dalla smitizzazione liberale: egli parlò di smitologizzazione - s'è possibile tradurre così la sua intraducibile "Entmythologisierung", un lemma composito che può capirsi solo se scomposto -. Le componenti principali son "Mythos" e "Logos", precedute dal prefisso inseparabile "ent" che richiama la funzione dell'alfa privativo in greco, e seguite dal suffisso indicante l'azione privativa introdotta da "ent". Basterebbe una tale scomposizione a far capire che il programma bultmanniano, pur procedendo in direzione liberale, è tutt'altro rispetto alla smitizzazione della teologia liberale: non spazza via il mito e meno ancor il senso e l'intenzione di esso, ne tutela anzi la trascendenza liberandolo dalla "ratio" (Logos) che ne altera il senso, elevandolo a valore soprannaturale come supporto e spiegazione del Cristo della fede, un uomo che la fede avrebbe trasformato in essere divino[6]. In comune con i liberali, tuttavia, anche Bultmann aveva il traguardo del ridimensionamento del Cristo della Fede sul Gesù della storia. Nemmeno per lui i titoli messianici neotestamentari Messia, Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, Signore, Salvatore e via dicendo, dimostrerebbero che Gesù è "un'ipostasi divina"; una loro interpretazione in tal senso, secondo lui, "razionalizzerebbe" Dio e misconoscerebbe che "la divinità di Cristo è un evento" sempre nuovo "e non oggettivabile con nessun fatto del passato" e proprio per questo "opposto ad ogni oggettivazione"[7]. La conclusione, pertanto, non poteva esser diversa dalla seguente: "La formula Cristo è Dio è falsa in ognuno di quei sensi - ariano, niceno, ortodosso o liberale - che intendono Dio come una grandezza oggettivabile. Essa è corretta solo se intende Dio come l'evento dell'azione di Dio"[8].

    E', questa, una costante bultmanniana. La si riscontra perciò anche in altri interventi. Nel seguente, p. es.: "Accanto a Dio non c'è un'altra persona divina che, come tale, completi la fede giudaica nell'unico Dio. La fede non è l'affermazione di speculazioni metafisiche sulla divinità di Cristo e sulle sue (due) nature. La fede in Cristo non è nient'altro che la fede nell'azione di Dio in Cristo"[9].

    Era proprio necessario arrivare fin qui per capire che cosa significhi "il Dio di Gesù Cristo". Esso non ha senso se non nella separazione fisica e qualitativa di Gesù Cristo da Dio. Ha senso se si parte dal dato di fatto di codesta irriducibile dualità: da una parte Gesù Cristo e Dio dall'altra. L'uno non è l'altro e viceversa. L'uno può parlare dell'altro, ma senza che ciò lo identifichi con l'altro. Quando si legge "Io ed il Padre siamo un'entità sola" (Gv 10,30) si è di fronte non ad un'autoaffermazione sulla divinità di Cristo, sbocciata sulle sue labbra come rivelazione del suo mistero, ma a parole con cui la Chiesa avrebbe divinizzato Gesù, oggettivando nella sua fede il Padre ed il Figlio. In altri termini, l'espressione "il Dio di Gesù Cristo" è formalmente identica a quella veterotestamentaria sul Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe (Es 3,6) che il NT (Mt 22,32; Mc 12,26) ripete alla lettera e con identico significato. Quello, cioè, di Dio unico trascendente e sovrano, che può prendersi cura d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, solo perché si distingue nettamente - qualitativamente, metafisicamente - da loro. L'espressione non assume un significato diverso se applicata a Gesù Cristo. Come non fa d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe altrettante divinità né accanto a Dio, né in competizione con Lui, così l'incauta e blasfema espressione "il Dio di Gesù Cristo" non innalza il personaggio chiave dell'Evangelo al rango della divinità ed ignora - o forse nega - il dogma delle due nature in lui ipostaticamente unite. E come nel primo caso, oltre alla trascendenza di Dio, la formula esprime la fede d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe nel Dio che s'è coinvolto nella loro storia personale ed in quella del loro popolo, così nel secondo caso la formula esprime:


    • Iddio metafisicamente distinto e separato da Gesù Cristo in base ad un'infinita differenza qualitativa di kierkegaardiana memoria;
    • La condizione puramente umano-creaturale di Gesù Cristo che, alludendo a Dio, indica in Lui il totalmente altro da sé;
    • la fede con cui Gesù Cristo si rapporta continuamente a Dio, espressa nella sua predicazione su Dio Padre, Amore, Giustizia, Pace.



    2 - Chi l'ha detto - Mi spiace sinceramente di dover far nome e cognome, ma non posso sottrarmi al diritto del lettore di conoscer come stian esattamente le cose. Il nome, dunque, ed il cognome da fare è quello di BRUNO FORTE. Non che sia l'unico; il contorno in cui si trova è anzi piuttosto cospicuo e costituito da personaggi spesso di primo piano. Di primissimo, peraltro, è lui: arcivescovo di Chieti-Vasto dal 26 giugno 2004 e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della Fede, l'annuncio e la catechesi; taccio sui titoli accademici, notevoli ma men interessanti di quelli istituzionali. Solo per far capire che non è il primo venuto, ricorderò che, dopo il dottorato in teologia presso la facoltà teologica dell'Italia meridionale, conseguì diplomi di perfezionamento a Tubinga e a Parigi, e coronò il suo curricolo con la laurea in filosofia presso l'università di Napoli. In un non dimenticato articolo su "Divus Thomas" del 1986/87, il suo ex professore e predecessore nella detta facoltà teologica, Mons. Prof. Giuseppe De Rosa, scrisse una ragionata e lunghissima stroncatura del libro Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della Storia [10]. Scrivendo poco dopo una mia "recensione d'una recensione", riconobbi tutte le fondate ragioni del De Rosa, ma tentai pure di dar al mio scritto un tono leggermente più blando. Da inguaribile ingenuo qual sono, devo oggi riconoscere che la severità del prof. De Rosa aveva i suoi buoni motivi. Bruno Forte continuò a scrivere con penna agile e disinvolta, a tratti quasi felpata, ma sempre terribilmente al limite della rottura, in certi casi anzi, come nella sua fantateologia trinitaria, ben al di là di esso. Volutamente l'ho per anni ed anni ignorato, pur leggendo i suoi scritti e perfino ammirando la leggiadria formale in cui è solito immerger i suoi tremendi errori. Ché, d'errori si tratta, non di bazzecole. Speravo che qualche nuovo De Rosa se n'avvedesse e si comportasse con lui sull'esempio del primo. Speranze perdute. Il suo nome, presto in evidenza nelle sfere che contano[11], e sapientemente usato da editori interessati, suscitò progressivamente risonanze mondiali. Fu maestro in convegni e congressi ad altissimi livelli. Cooptato in Accademie e Commissioni di studio. Fatto vescovo e Presidente, proprio lui, della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede. Punto di riferimento (sembra) obbligato del pensiero teologico italiano. Lui soltanto o anche i suoi errori?


    La frase dalla quale si è partiti appartiene a lui. A lui, lo si noti bene, non come privato dottore, ma com'espressione e sintesi del pensiero e dell'insegnamento della CEI. Si trova, infatti nella Presentazione d'una Lettera ai cercatori di Dio, che S. E. Rev.ma Mons. B. Forte, a nome della Commissione episcopale da lui presieduta, ottenuta l'approvazione del Consiglio Episcopale Permanente in data 22-25 settembre 2008, inviò ai destinatari nella Pasqua del 2009. Si riprometteva, con essa, di mettersi al fianco di quanti cercano "il volto del Dio vivente": dei credenti che crescono nella conoscenza della Fede e di quanti, pur non credenti, avvertono come serio il problema di Dio e delle cose ultime. Ma intendeva sollecitare l'interesse anche di coloro che non si pongono mai un tale problema, "nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti"[12].


    Solenne e nobile, dunque, l'intento ed altrettanto il punto di partenza. L'uno e l'altro, però, miseramente naufragati nei gorghi liberali della frase incriminata. Solo nella Presentazione della Lettera la frase ricorre per ben due volte: "Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l'annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo"? E poco dopo: "La commissione Episcopale si augura che la Lettera possa...suscitare reazioni...che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da lui"[13]. Non si pensi a due casi isolati: aprendo la lettera e scorrendone le pagine, ritroviamo o la stessa frase[14], o parole equivalenti[15].


    Difficile equivocare sul significato obiettivo della frase, che proprio in quant'ho premesso trova il suo Sitz-im-Leben; deriva infatti dal cristianesimo desoprannaturalizzato della Liberaltheologie, la quale a sua volta è figlia naturale della tradizione illuminista. Il Sitz-im-Leben è addirittura confessato: a p. 55ss. tutto è detto in chiave liberaltheologisch. I discepoli infatti si convincono che Gesù è risorto e ne reinterpretan la vita, alla luce della sua risurrezione, come "appartenente al mondo di Dio". Non mancan, sia ben chiaro, parole e ragionamenti meno scioccanti, o addirittura pienamente ortodossi; è il costume dei "neoterici", come direbbe Amerio: un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma resta il fatto della distinzione tra il Cristo della Fede ed il Gesù della storia e, col fatto, il senso che gli ho dato chiudendo il mio precedente paragrafo. Con profondo rammarico devo prender atto, perciò, che si tratta d'una frase da riprovare per un doppio motivo: perché non confessa in Cristo il Figlio naturale di Dio e perché lo stacca dalla circuminsessione amorosa tra Dio Padre Figlio e Spirito Santo, sovvertendo insieme il dogma trinitario e quello cristologico.


    Parlo di significato obiettivo, ben sapendo o comunque augurandomi che le intenzioni soggettive non abbian avuto altro di mira che di facilitare l'incontro salvifico col Signore Gesù, l'eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, della sua stessa sostanza, perfettamente Dio e perfettamente uomo, avendo preso l'umana carne dal grembo immacolato della Vergine Madre, per esser il rivelatore il mediatore il redentore il salvatore del genere umano. Sì, questo so e questo m'auguro che sia pure nelle intenzioni, meglio ancora se nelle convinzioni di Fede, del Vescovo che ha firmato la Lettera ai cercatori di Dio, per essa avvalendosi, lo confessa lui stesso, "di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione"[16].


    La confessione non mi consola. Devo dedurne che la situazione è molto più grave di come appare: così stando le cose, ne deduco che gli errori appartengono non ad una sola persona, ma ad un insieme di persone, per giunta considerate competenti ed ufficialmente incaricate di collaborar in base alla loro competenza. Com'è possibile che la competenza ingeneri l'errore? Di quale competenza si tratta? E quale teologia può esser il terreno di coltura per una competenza che semina l'errore?



    3 - Gli errori - Parole come "errore" ed "eresia" non si dicon a cuor leggero: sconsideratamente superficialmente astiosamente. Son parole gravissime che si riferiscono a posizioni dogmatico-teologiche altrettanto gravi. La prudenza, non meno che la carità, son in casi del genere due condizioni previe e non discutibili.


    Purtroppo, nel caso in esame - "et flens dico", Fil 3,18 - esse sono le due sole parole oggettivamente adeguate, con la conseguenza che inadeguata sarebbe ogni altra parola. Debbo anzi riconoscere - ancora "flens dico" - che aveva ragioni da vendere, il vecchio De Rosa, quando per primo mise il dito sulla piaga. La pseudoteologia di questo Ecc.mo personaggio, al quale la CEI affida le sorti della dottrina cattolica, del suo annunzio e della sua catechesi, e quindi della nostra Fede oltre che della nostra salvezza, è tutt'un coacervo di posizioni decisamente erronee ed insostenibili. Il suo punto di partenza - la teologia dal basso - lo pone a braccetto con i massimi responsabili dell'odierna miopia teologica: attraverso Rahner e la pletora dei soliti ripetitori risale a Heidegger, Husserl, Hegel, non senza strizzatine d'occhi en passant a Barth, Bultmann, Moltmann, Schillebeeckx, Block, né senza sintomatiche reminiscenze di Gioacchino da Fiore, di Vico, di Croce, di Spinoza e del suo emulo moderno Teilhard de Chardin.


    Un tale punto di partenza è una pista di lancio verso il ribaltamento radicale della dogmatica classica: Dio è considerato sullo sfondo dell'uomo e misurato sulle sue naturali necessità e limitazioni, invischiato in esse, sofferente per esse e non meno sofferente del Figlio suo che le fece proprie. Le sue simpatie per il teopaschismo o monofisismo teopaschita lo metton al passo dei Patripassiani, per i quali "si ipse est Filius qui et Pater, crux Filii Patris est passio"[17], ma lo coinvolgono pure, inevitabilmente, nella loro condanna[18]. La sua concezione del Dio non più personale ne mette in evidenza i tratti hegeliani, quelli d'un Dio dichiarato, anzi definito "storia": un Dio che diviene, si pone e si rinnova nell'ondiflua immanenza mondana. L'immutabilità e l'impassibilità di Dio son pertanto superate di slancio: ferri vecchi e del tutto inutilizzabili dai moderni laboratori di teologia dogmatica.


    La derivazione hegeliana di questo "pezzo da novanta" si rivela nell'aver egli confuso cristologia e soteriologia in un impalpabile pancristismo, grazie al quale il Signore Gesù dovrebb'esser al centro della realtà, tutta in lui ricapitolata (cf Ef 1,10), ed è invece la ragione e la molla di quel divenire dialettico che, con Feuerbach, porta alle conseguenze estreme la dialettica hegeliana, trasformando la teologia in pura e semplice antropologia.


    Si tratta d'un quadro appena abbozzato, che l'ineludibile esigenza d'un'analisi critica vorrebbe più specificato ed approfondito; il presente semplice abbozzo è dovuto al fatto che questo scritto, non essendo formalmente un'analisi critica, non risponde alle sue esigenze. Tuttavia, i pochi tratti del quadro generale qui delineati costituiscono, secondo me, un sufficiente sfondo sul quale l'espressione "Il Dio di Gesù Cristo" si colloca come a casa propria. E' la casa equivoca dell'ammodernamento teologico, in tanto tale, cioè teologia svecchiata e rinnovata, in quanto ha dato lo sfratto:



    • a quella divina Rivelazione che la Chiesa dichiara conclusa con la morte dell'ultimo apostolo
    • alla Tradizione che n'è nata come supporto della vita e della giovinezza perenne della Chiesa;
    • al Magistero ecclesiastico come organo, solenne ed ordinario, di codesta Tradizione;
    • alla teologia dei grandi dottori, costruita sulla Rivelazione e sulle definizioni dogmatiche per darle sicurezza "in lumine fidei, sub Ecclesiae Magisterii ductu"[19].

    Portando sulle spalle la pesante responsabilità d'un tale sfratto, non so con quale faccia sia possibile presentarsi a Dio, per affidargli la famosa Lettera e chiedergli di "farne strumento della sua grazia"[20].



    B. Gherardini



    [1] Nato il 27 genn. 1808 a Ludwigsburg, alunno di F. Chr. Baur, elaborò nel 1831/32 a Berlino le lezioni di Schleiermacher sulla vita di Cristo ed altrettanto fece nel 1832/35, come Repetent a Tubinga, con la vita di Cristo di Hegel, finché, proprio nel 1835/36, pubblicò il suo famoso Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet in due volumi, dei quali già il primo suscitò un tale vespaio che Strauss ci rimise il posto di Repetent. Nel 1837 pubblicò l'apologia dello suo scritto incendiario: Streitschriften zur Verteidigung meiner Schrift über das Leben Jesu und zur Charakteristik der gegenwärtigen Theologie. Il fossato che già prima era stato aperto tra il-Cristo-della-fede ed il-Cristo-della-storia, si dilatò fin all'inverosimile sotto la spinta d'esigenze c.d. storico-scientifiche: la fede è una cosa, la scienza un'altra. La Leben Jesu diventò una corrente, sulla quale riferì con onestà critica il poliedrico esegeta-teologo-medico-organista-missionario (fondatore del discusso ed ammirato ospedale di Lambarené) ed appartenente egli stesso alla Liberaltheologie, SCHWEITZER A., Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J.C.B.Mohr (P. Siebeck), Tubinga 19516, il quale, ricercando i prodromi del fenomeno, li individuò anzitutto in H. S. Reimarus ed in alcune espressioni vetero-razionaliste, nel colto razionalismo di H.F. G. Paulus, in quello romantico-sentimentale di Schleiermacher e quindi in quello "scientifico" di Strauss, al quale dedica le p. 69-128 prima di passare alle successive Vite di Cristo. Per una mess'a punto complessiva, cf RISTOW H.-MATTHIAE K. (a c. di), Der historische Jesus und der kerygmatische Christus, Ev. Verlagsanstalt, Berlino 1960.
    [2] STAUFFER E., Die Theologie des Neuen Testaments, Stoccarda 19473. Altrettanto VOGEL H., Christologie, 1.Monaco 1949, sp. p. 22.
    [3] GALTIER P., L'unité du Christ: Être, Personne, Conscience, Parigi 19392; ID., La conscience humaine du Christ, in "Gregor." 32 (1951) 526ss, sp. p. 562; in polemica con lui, ma ad altissimi livelli, intervenne PARENTE P., col suo capolavoro L'Io di Cristo, Morcelliana, Brescia 1955, terza ed. Istituto Padano Arti Grafiche, Rovigo 1981; ID., Unità ontologica e psicologica dell'Uomo-Dio, Collez. Urbaniana 3/2, Roma 1952.
    [4] BARTH K., Kirchliche Dogmatik, I/2 Zollikon-Zurigo 19453, p. 71: "...nach dem Phantom eines historischen Jesus im leeren Raum hinter dem Neuen Testament".
    [5] BOUSSET W., Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus, Gottinga 19212.
    [6] Cf spec. BULTMANN R., Theologie des Neuen Testaments, Verlag J. C. B. Mohr (Siebeck) Tubinga 19583; ID., Die Geschichte der synoptischen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 19615; ID., Glauben und Verstehen, 3 voll., J. C. B. Mohr (Siebeck), Tubinga 1961-62. Tra le innumerevoli opere d'interpretazione o di presentazione, scelgo l'unica che più d'ogni altra riesce a far capire il programma della "smitologizzazione" bultmanniana: MALET A., Mythos et Logos - La pensée de Rudolph Bultmann, Labor et Fides, Ginevra 1962. Come puntuale ed onesta controversia fra due grandi si veda anche BARTH K., Rudolph Bultmann: ein Versuch, ihn zu verstehen, Zurigo 19643; al riguardo si confronti anche lo scambio epistolare Karl Barth-Rudolph Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, a c. di B. Jaspert, Zurigo 1971, spec. lett.94/95 p. 169ss,
    [7] BULTMANN R., Glauben und Verstehen, II. p. 258: "So ist auch Christi Herr-Sein, seine Gottheit, immer nur je Ereignis. Eben das ist der Sinn dessen, daß er das eschatologische Ereignis ist, das nie zu einem Ereignis der Vergangenheit objektiviert werden kann, auch nicht zu einem Ereignis in einer metaphysischer Sphäre, das vielmehr jeder Obiektivation widerstreit".
    [8] Ibid.
    [9] Ibid., I, p. 331.
    [10] Ed. paoline, Cinisello Balsamo, 1981.
    [11] Proprio a me l'Em.mo Card.Ursi, certo non volendo, ne dette la notizia.
    [12] Dalla presentazione di Lettera ai cercatori di Dio, Paoline Editoriale Libri, Milano 20093 , p. 3.
    [13] Ibid. p. 3-4.
    [14] P. es. a p. 44, 65; a p. 85 la frase entra nel titolo del III cap.
    [15] Un solo esempio, fra i tanti: "La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo Figlio di Dio" (p. 68). Non evidente, ma reale è qui la dissociazione del Cristo della Fede dal Gesù della storia, il quale non vien adorato perché "Figlio di Dio" e quindi Dio egli stesso, ma la sua divina figliolanza è fatta dipendere dalla Fede dei credenti.
    [16] Ibid. p. 3.
    [17] S. LEONE M., Ep. "Quam laudabiliter", 21 luglio 447, DS 284.
    [18] Ibid.
    [19] Optatam totius, 16/a.
    [20] Presentazione, cit. p. 4.