30 aprile 2017, Santa Caterina da Siena
Nell’articolo pubblicato nei mesi scorsi (Immigrazione e ordine nella carità, l’“accoglienza” indiscriminata è la negazione dell’amore di Dio) abbiamo affrontato la questione dell’ordine nell’esercizio della carità, con particolare riferimento al problema dell’immigrazione, compresa quella islamica, specialmente in rapporto al bene comune della società naturale e soprannaturale. Il presente articolo, che è in stretta relazione col precedente di cui è uno sviluppo, vuole offrire alcuni commenti di quei passaggi che in San Tommaso descrivono l’esercizio della carità soprattutto relativamente al problema se sia giusto o meno occuparsi prima e di più dei propri connazionali che non degli stranieri. Quando un membro della nostra famiglia, un compatriota o un commilitone viene trattato allo stesso modo dello straniero, ci può essere materia di peccato ed anche di peccato grave? Vedremo la risposta di San Tommaso d’Aquino, rimanendo nel solco della questione 26 della Secunda Secundae della Summa Theologiae.
San Tommaso inquadra il problema con un argomento tratto da S. Agostino e che già contiene in nuce la risposta che poi svilupperà. Da un lato infatti sembrerebbe che si debbano aiutare tutti gli uomini in maniera uguale, ma è anche vero che non è possibile aiutare tutti e che bisogna tener conto del fatto che ad alcuni siamo uniti per circostanze di luogo e tempo o per qualsiasi altro motivo che ad essi ci stringe quasi ci fossero dati “in sorte” dall’Alto, dice l’Ipponense[1].
Da una parte è vero infatti che la ragione di tale amore verso gli uomini essendo Dio, essa ha uguale natura per tutti ed è anche vero che il bene che desideriamo per ogni uomo è quello supremo della vita eterna, la cui natura è la stessa per tutti. Ma non per questo consegue che ciascuno di noi debba amare ugualmente tutti, poiché l’esercizio della carità va ordinato anche in relazione alla situazione specifica e concreta di ciascuno di noi. Dobbiamo quindi avere verso tutti indistintamente quello che San Tommaso chiama “amore di benevolenza”, che alla lettera vuol dire volere il bene per tutti gli uomini, ma non potendo fare del bene a tutti dovremo essere ineguali nell’ “amore di beneficenza” (parola da prendere nel senso più ampio del termine di bene facere)[2]. Ovvero, senza escludere positivamente nessuno dal nostro amore di benevolenza per cui desideriamo per ciascuno il bene supremo ed eterno, dobbiamo amare in maniera differenziata il prossimo quanto alla beneficenza, che avrà diversa intensità a seconda che il prossimo sia più o meno legato a noi nelle diverse circostanze.