31 ottobre 2017

Mons. Gherardini, il sacerdote, il maestro, l’amico

Il nostro ricordo
31 ottobre, Vigilia di Tutti i Santi

Mons. Gherardini nel suo studio


Pregate per me perché l’ora è vicina”. Ormai da quasi un anno erano queste le sue parole di congedo sull’uscio, quando immancabilmente accompagnava alla porta dopo un visita. E un bel sorriso, di chi era in pace, tranquillo e disteso, sapeva pur tra mille limiti umani che la sua battaglia l’aveva combattuta, “bonum certamen certavi”. Ormai era il tempo della vita di preghiera e riposo, nel suo “eremo” all’interno del palazzo dei Canonici di San Pietro in Vaticano. Non sempre era stato così, anzi la situazione di crisi della fede nella Chiesa e la preoccupazione - oserei dire l’angoscia - di sapere cosa veramente gli chiedesse il Signore, lo avevano in certi momenti affaticato, quasi fiaccato. Lui che sulla pericolosità dei disegni intorno al Nuovo Offertorio della Messa si era già espresso nel lontano 1967, come amava ricordare, confessava che in certi momenti non aveva la forza di scrivere e di parlare, al punto che era lecito chiedersi se non ci fosse qualche intervento preternaturale che voleva ottenerne il silenzio o l’inattività. Cito a memoria “se devo dire tutto quel che c’è da dire sul Concilio e quel che è seguito, devo essere duro”, diceva al telefono ancora nel 2008. Monsignor Gherardini si interrogò a lungo sull’opportunità di un suo intervento scritto in materia. E la scelta fu travagliata. Parlando del suo passato all’università Lateranense diceva “avevo il terrore di dare scandalo sulla Chiesa soprattutto ai seminaristi, tenuto conto del mio ruolo di professore” e chi l’ha conosciuto sa che questa sua ritrosia ad esprimersi pubblicamente su tutti i mali che affliggevano la Chiesa non era l’alibi del carrierista, ma vera preoccupazione, derivante in parte dal suo spirito romano ed in parte dalla formazione ricevuta dai sacerdoti della sua generazione. Poi candidamente ammetteva “per anni mi sono arrampicato sugli specchi per poter leggere Lumen Gentium 22 in coerenza con la Tradizione e il Magistero”, e - con quell’onestà intellettuale che sempre accompagnò i suoi passi - dichiarava che alla fine aveva dovuto arrendersi e confessare apertamente che nemmeno la Nota Praevia era soddisfacente sulla questione del Primato del Papa e della collegialità episcopale. E lo scrisse e firmò i suoi scritti con nome e cognome anche su tanti altri punti controversi, con umiltà, con forza, con amore alla Chiesa.


Era venuto il momento della decisione: “sapevo di avere le capacità e giunsi alla conclusione che Dio me lo chiedeva, non volevo presentarmi davanti a Lui e che mi dicesse: potevi fare e non hai fatto”. Così, quasi di getto, come faceva lui quando aveva l’ispirazione, e con la facilità di chi padroneggia pienamente la materia, scrisse “Concilio Vaticano II, un discorso da fare” e sempre nel 2009 per Disputationes Theologicae “Qualevalore magisteriale per il Vaticano II?”. Un articolo che era in cantiere da un anno, ma era come se non si sentisse pronto, poi mi telefonò felice e mi disse con voce squillante “ecco - a tamburo battente - quel che mi chiedeva”. Sì, perché Mons. Gherardini era anche l’uomo delle espressioni linguistiche efficaci e ricercate anche se talvolta inusitate. Maneggiava la lingua italiana in maniera incantevole e disinvolta anche se talvolta bisognava rileggere due o tre volte quel suo periodare “asiano”. A chi timidamente accennasse a questo suo stile non sempre agilissimo, rispondeva seccamente “io scrivo così”, ma poi bonariamente ammetteva che quelle tante subordinate potevano richiedere un certo sforzo da parte del lettore, per non parlare delle traduzioni…Ma la complessità di ciò di cui scriveva e la delicatezza di quegli argomenti in cui era in gioco la dottrina e l’autorità della Chiesa richiedevano un’espressione linguistica adeguata, lontana dal razionalismo dei moderni e dalla  paratassi del sic et non