31 ottobre, Vigilia di Tutti i Santi
Mons. Gherardini nel suo studio |
“Pregate
per me perché l’ora è vicina”. Ormai da quasi un anno erano queste le sue
parole di congedo sull’uscio, quando immancabilmente accompagnava alla porta
dopo un visita. E un bel sorriso, di chi era in pace, tranquillo e disteso, sapeva
pur tra mille limiti umani che la sua battaglia l’aveva combattuta, “bonum certamen certavi”. Ormai era il tempo
della vita di preghiera e riposo, nel suo “eremo” all’interno del palazzo dei
Canonici di San Pietro in Vaticano. Non sempre era stato così, anzi la
situazione di crisi della fede nella Chiesa e la preoccupazione - oserei dire
l’angoscia - di sapere cosa veramente gli chiedesse il Signore, lo avevano in
certi momenti affaticato, quasi fiaccato. Lui che sulla pericolosità dei
disegni intorno al Nuovo Offertorio della Messa si era già espresso nel lontano
1967, come amava ricordare, confessava che in certi momenti non aveva la forza
di scrivere e di parlare, al punto che era lecito chiedersi se non ci fosse
qualche intervento preternaturale che voleva ottenerne il silenzio o
l’inattività. Cito a memoria “se devo
dire tutto quel che c’è da dire sul Concilio e quel che è seguito, devo essere
duro”, diceva al telefono ancora nel 2008. Monsignor Gherardini si
interrogò a lungo sull’opportunità di un suo intervento scritto in materia. E
la scelta fu travagliata. Parlando del suo passato all’università Lateranense
diceva “avevo il terrore di dare scandalo
sulla Chiesa soprattutto ai seminaristi, tenuto conto del mio ruolo di
professore” e chi l’ha conosciuto sa che questa sua ritrosia ad esprimersi
pubblicamente su tutti i mali che affliggevano la Chiesa non era l’alibi del
carrierista, ma vera preoccupazione, derivante in parte dal suo spirito romano
ed in parte dalla formazione ricevuta dai sacerdoti della sua generazione. Poi candidamente
ammetteva “per anni mi sono arrampicato
sugli specchi per poter leggere Lumen Gentium 22 in coerenza con la Tradizione
e il Magistero”, e - con quell’onestà intellettuale che sempre accompagnò i
suoi passi - dichiarava che alla fine aveva dovuto arrendersi e confessare
apertamente che nemmeno la Nota Praevia
era soddisfacente sulla questione del Primato del Papa e della collegialità
episcopale. E lo scrisse e firmò i suoi scritti con nome e cognome anche su
tanti altri punti controversi, con umiltà, con forza, con amore alla Chiesa.
Era venuto il momento della decisione:
“sapevo di avere le capacità e giunsi alla
conclusione che Dio me lo chiedeva, non volevo presentarmi davanti a Lui e che
mi dicesse: potevi fare e non hai fatto”. Così, quasi di getto, come faceva
lui quando aveva l’ispirazione, e con la facilità di chi padroneggia pienamente
la materia, scrisse “Concilio Vaticano
II, un discorso da fare” e sempre nel 2009 per Disputationes Theologicae “Qualevalore magisteriale per il Vaticano II?”. Un articolo che era in cantiere
da un anno, ma era come se non si sentisse pronto, poi mi telefonò felice e mi
disse con voce squillante “ecco - a
tamburo battente - quel che mi chiedeva”. Sì, perché Mons. Gherardini era
anche l’uomo delle espressioni linguistiche efficaci e ricercate anche se talvolta
inusitate. Maneggiava la lingua italiana in maniera incantevole e disinvolta
anche se talvolta bisognava rileggere due o tre volte quel suo periodare “asiano”.
A chi timidamente accennasse a questo suo stile non sempre agilissimo,
rispondeva seccamente “io scrivo così”,
ma poi bonariamente ammetteva che quelle tante subordinate potevano richiedere
un certo sforzo da parte del lettore, per non parlare delle traduzioni…Ma la
complessità di ciò di cui scriveva e la delicatezza di quegli argomenti in cui
era in gioco la dottrina e l’autorità della Chiesa richiedevano un’espressione linguistica
adeguata, lontana dal razionalismo dei moderni e dalla paratassi del sic et non.