Un aspetto del
recente Sinodo sulla famiglia
21 dicembre 2014, San Tommaso Apostolo
Cosa
si cela dietro la tesi che si è tentato d’imporre al recente Sinodo, la
cosiddetta “tesi Kasper” sull’ammissione alla Comunione eucaristica dei
divorziati “risposati”? I fattori sono molteplici e senz’altro, come ha
coraggiosamente sottolineato Socci, si tratta di una resa totale alle richieste
dei “poteri mondani”. Non a caso il Card. Pell, uno degli ecclesiastici che più
si sono distinti nella battaglia contro questi conati, ha detto: “è una posta in palio nello scontro fra ciò
che resta del cristianesimo in Europa e un neopaganesimo aggressivo. Tutti gli
avversari del Cristianesimo vorrebbero che la Chiesa capitolasse su questo
punto” (e, detto per inciso, come è motivo di grande gioia vedere che qui
c’è stata una tenace resistenza da parte di ampi settori dell’area moderata
agli abusi di potere, è al contempo motivo di dolore costatare le mancate
resistenze in tanta area Vetus Ordo).
In
questo breve studio vorremmo mettere in evidenza un aspetto non secondario. La
questione posta è : tali posizioni, aldilà degli addotti pretesti pastorali,
non sono forse in una certa coerenza teologica con il Luteranesimo?
La radicale gravità
delle questioni implicate
La
fede è un edificio armonioso, in cui tutti i misteri si legano mirabilmente e
si abbracciano in quello che si suol chiamare “nexus mysteriorum”; talmente i dogmi sono legati fra essi e uniti
intimamente, in quanto riflesso dell’unità di Dio, che se si destabilizza una
sola “torre” del “castello della fede”, tutto l’edifico rovina in terra (Leone
XIII, nella Satis cognitum, ricorda che
si perde la fede negandone un solo articolo).
Le citate tesi “kasperiane” infatti, non possono che essere intimamente
connesse alle nozioni di grazia, stato di grazia, grazia santificante. Sorge dunque un grave interrogativo teologico:
quale “teologia” della grazia, quale “teologia” delle virtù teologali - ma
anche quale sacramentaria - è compatibile con la tesi di dare la Comunione ad
anime in stato di peccato mortale?
E’
notorio che la “teologia della grazia” è da tempo ammorbata dall’immanentismo,
dall’abbandono della sana visione metafisica di San Tommaso e più
specificamente dalle influenze di certo protestantesimo (ora il luteranesimo
in senso stretto, ora quelle sue varianti che sono il protestantesimo liberale
e il modernismo). A tal proposito in precedenti articoli sono state denunciate
le influenze acattoliche, protestanti ed idealiste, in ambito dottrinale,
esegetico, pastorale, ma anche ecclesiologico (cfr. Il Dio di Gesù Cristo, L’Ascensione il dogma negato, L’ecclesiologia di Hans Kung).
In
questa trattazione, dopo una sintetica esposizione della dottrina cattolica
della grazia in confronto a questo filone del pensiero protestante, abborderemo
la conseguente nozione luterana della salvezza senza merito, per poi concludere
sulle conseguenze di tale eresia - rielaborate in seguito anche dal pensiero
modernista - che portano diritte alla demolizione delle nozioni cattoliche di Sacramento oltre che di Grazia e alla rovina della stessa virtù di Speranza. Speranza, che tanto
si vorrebbe valorizzare e che invece è sostituita dal suo contrario, ovvero la capitolazione davanti alla situazione
socio-culturale del momento.
Prima
di proporre una risposta ai quesiti sollevati, non sarà inutile ripetere che
tali argomenti - ivi compresa la comunione ai concubini, peccatori pubblici -
non sono materia di libera discussione fra i teologi, semplicemente perché la
risposta, quando non è insita nel diritto naturale, è già stata data dalla
bocca stessa del Redentore da almeno duemila anni, costantemente insegnata
dalla Chiesa (e ribadita anche dal Magistero recentemente espresso) e
solennemente definita - riguardo alle connesse nozioni di grazia e peccato - dal
Concilio di Trento, con infallibile Magistero. Aggiungiamo anche che la quasi
totalità delle tesi oggi proditoriamente rimesse in discussione quasi si stesse
discettando su opinabili argomenti, quando non esplicitamente rivelate o
definite, sono quantomeno metafisicamente connesse al rivelato e molte di esse sono
patrimonio del Magistero ordinario infallibile. L’inveterata tecnica modernista,
invece, continua nell’aprire “dibattiti liberi” (peraltro con una libertà a senso
unico…), laddove la sentenza cattolica è già pronunciata. Di fatto i fedeli
sono gettati nel dubbio e nella confusione dei criteri, si diffonde più o meno
indirettamente l’eresia, ma evitando d’incorrere direttamente nelle condanne
della Chiesa, come già metteva in guardia la “Pascendi”.
Il transitus nella giustificazione
cattolica e la nozione protestante di “grazia”
La
Rivelazione ci insegna che, da figli delle tenebre che eravamo, possiamo essere
lavati, purificati, vitalizzati, resi giusti, figli di Dio, liberi, luminosi,
nuovi. La teologia tomista parla a ragion veduta di un “transitus”, di una “translatio”: l’anima del peccatore che diventa giusto passa dallo stato di inimicizia con
Dio a quello d’amicizia. La “giustificazione è un passaggio dallo stato di
peccato a quello di grazia” [1]. E
il Concilio di Trento infallibilmente definisce: “la giustificazione del
peccatore è il passaggio da quello stato in cui l’uomo nasce figlio del primo
Adamo allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio [Rm 8, 15] per mezzo
del secondo Adamo Gesù Cristo Salvatore nostro” [2].
Il
cambiamento - in dottrina cattolica -
è reale: l’ingiusto (nell’immagine biblica colui che non è in grazia) diventa
giusto (uomo in stato di grazia). L’Aquinate insegna che bisogna pensare alla
giustificazione “secundum rationem motus” [3],
ciò vuol dire che c’è stato un “movimento”.
Si è passati da un termine dal quale si partiva al termine opposto, e tale
punto d’arrivo è in questo caso l’infusione della grazia che prima non c’era.
C’è quindi un’entità nuova nel giusto, poiché la colpa è tolta e nell’anima è infusa
la grazia [4].
La
grazia santificante, questa nuova entità che abita nel giusto “ricreato”, “rinnovato”,
“rigenerato”, è dunque nel giustificato una nuova realtà [5].
Realtà creata, essa infatti non è lo
Spirito Santo contro l’opinione del Lombardo; realtà interna, essa non è estrinsecamente imputata senza un
cambiamento nel profondo dell’anima; realtà
permanente, essa è qualcosa d’abituale, non è solo una grazia attuale transitoria,
essa è soprannaturalmente stabile; realtà
ontologica, essa non è l’insieme d’atti morali buoni, ma è realtà metafisicamente
presente nell’anima del giusto, la cui anima subisce un reale “cambiamento”, ed
è assente nel peccatore [6]; realtà soprattutto soprannaturale, essa
è una certa partecipazione alla natura e alla santità stessa di Dio (2 Petr, 1,
4), non è una disposizione naturale al bene morale, tanto meno è una finzione
della coscienza che l’uomo potrebbe “autocomunicarsi”, come nelle dilaganti prospettive
panteiste [7].
La Scuola parlerà per la grazia santificante - con termine d’insuperata
precisione - di “habitus entitativus”.
L’uomo
rinnovato, risanato quindi ed elevato all’ordine soprannaturale, riacquista la
realtà dell’amicizia con Dio, è mondato ed elevato anche perché possa in questa
vita accedere degnamente al Sommo Sacramento, l’Eucarestia, ove si unisce con
Gesù Cristo stesso. E’ l’anticipazione terrestre dell’unione con Dio nella
gloria e ci vuole quindi una certa “connaturalità” da parte di chi s’unisce.
L’uomo si congiunge al suo Creatore e Redentore che si degna elevarlo a tale
contatto e deve corrispondere essendone per così dire “degno”, ovvero essendo
in grazia (senza peccato originale né attuale grave). Presentarsi senza la
veste candida davanti allo Sposo - tanto più se l’atteggiamento è deliberato,
pertinace e pubblico - sarebbe offendere tutto il disegno della Redenzione e
disprezzarne i doni soprannaturali. Grave offesa da parte del fedele che
comunicherebbe, ancor più grave da parte del sacerdote che se ne renderebbe
complice e persino promotore. Se la veste è sporca del peccato va lavata, ed è
ciò che fa l’infusione della grazia col Battesimo o con la Confessione, ma non
vi è possibilità di conciliare peccato e grazia, c’è solo possibilità di transitus, ovvero di passaggio da uno
stadio cattivo ad uno buono. E’ la giustificazione dell’empio, che, divenuto
figlio della luce, può accedere alla Mensa del Cielo.
Non
così per il protestante. Le tesi interpretative sul pensiero di Lutero sappiamo
essere innumerevoli, anche in ragione delle stranezze espressive del
soggettivismo protestante (poi ripreso da Illuminismo e Modernismo) e delle
evoluzioni non sempre coerenti dell’agostiniano apostata, ma almeno un punto fa
generalmente l’unanimità dei critici ed è quello che in questa sede ci
interessa: l’uomo dopo il peccato originale può essere al contempo giusto e
peccatore, “simul iustus et peccator”
secondo la nota espressione. Ovvero colui al quale sono imputati i meriti di
Cristo - e che sarebbe quindi un giusto - non per questo è rinnovato dalla
grazia santificante, non è vestito della veste candida dopo aver dismesso
l’abito sporco del peccato, non è un’anima nuova, un “homo novus”, ma è una “carogna” ( i termini sono luterani) che è
“avvolta” dal manto bianco dei meriti di Cristo pur restando “putredine” nel di
dentro [8].
Restando nell’immagine, esso è un qualcosa di abominevole all’interno - “peccator” -, ma gli vengono
estrinsecamente imputati i meriti di Cristo che lo rendono in certa maniera “simul iustus”. Egli quindi, senza
abbandonare il suo peccato, può essere un giusto.
La salvezza senza
merito
Per
il luterano poco importano lo stato effettivo dell’anima, le sue disposizioni,
i suoi sforzi e soprattutto i suoi sacrifici, sostenuti dalla grazia
cooperante, per evitare il peccato o per emendarsene, quel che conta è un’illusoria
fede-fiduciale nella propria salvezza, a prescindere dall’applicazione della
volontà, dai propri meriti e soprattutto, di fatto, dal difficile sacrificio di
sé e dei propri capricci. La radicale corruzione ha portato Lutero alla
teorizzazione di una salvezza “sola fide” [9],
una “fede” la cui nozione - che ha oggi invaso il mondo cattolico - è falsa,
perché non è la fede dogmatica, per cui è essenziale l’adesione ai contenuti
della Rivelazione, ma la fede-fiduciale in cui quel che conta è l’aspetto per
così dire “sentimentale”. Quindi “pecca
fortemente, ma credi ancor più fortemente” (“pecca fortiter, sed crede fortius”), ovvero più si è incalliti nel
peccato, più si continua a peccare e più si dimostra la propria assoluta e
completa fiducia nei meriti di Cristo, gli unici capaci di salvare, indipendentemente
dal libero arbitrio dell’uomo, il quale non può far altro che “sperare” con
forza [10]. “Pecca fortemente, ma credi ancor più
fortemente”, ovvero se lo stato di peccatore e nemico di Dio è permanente e se è
e sarà inesorabilmente tale, se solo resta la giustificazione imputata da
Cristo, che copre col suo bianco mantello l’uomo, putredine peccatrice e
incapace di merito volontario, non resta altro che continuare a peccare, o
addirittura è meglio stabilizzarsi nel rifiuto della legge morale di Dio,
peccando ancor di più.
Il ruolo dei
sacramenti e particolarmente dell’Eucarestia
Nella
descritta prospettiva luterana della grazia imputata, della negazione del
merito per un uomo “simul iustus et
peccator”, il sacramento ha inevitabilmente perso la funzione cattolica di segno che produce la grazia che rappresenta [11],
poiché la causalità che esercita in merito alla grazia non è certo fisico-strumentale.
Il Battesimo e la Confessione non operano strumentalmente il citato “transitus” ontologico, né è possibile
pensare ad un aumento di grazia per
mezzo dell’assunzione del Corpo di Cristo sostanzialmente presente nelle specie
consacrate. In effetti il giusto - e peccatore al contempo - non s’affida
all’efficacia dei sacramenti, cercando di riceverli il quanto più degnamente
possibile, né tantomeno s’appoggia sugli effetti della degna assunzione dell’Eucarestia,
ma confida nel “risveglio” nella sua anima della fede-fiduciale nella propria
salvezza. Salvezza alla quale lui, a rigor di logica, non può cooperare, perché
è imputazione dei meriti di Cristo, ma nella quale deve tuttavia fermamente “credere”
(vi è qui una certa incoerenza interna delle tesi protestanti). E i sacramenti,
ormai snaturati, sono ridotti alla funzione di ravvivare questa “convinzione”.
In
merito all’Eucarestia inoltre, non essendo nemmeno più il Corpo di Cristo
transustanziato ed essendo la Messa ridotta ad una “Cena evocatrice”, il
problema dell’unione fra il Corpo Santissimo di Cristo e l’anima di un
peccatore incallito non si pone più in questi termini.
La morte della vita
(e della speranza) cristiana : “pecca
fortiter…et communica fortius”
L’eresia
luterana ha strutturato attorno alle sue teorie sulla grazia che si oppongono
al dogma cattolico, delle tesi che sono una diabolica contraffazione della vera
fiducia nella Misericordia di Dio e che hanno sempre avuto un evidente - e
satanico - “fascino”, poiché esse permettono di coniugare il nome cristiano e
la stessa partecipazione ai “sacramenti”, con la persistenza (persino
legittimata di principio) negli sbandamenti peccaminosi più gravi. Sono i
frutti, come accennato, della teoria del “simul
iustus et peccator”.
In
un’epoca come la nostra, immersa nell’edonismo e soprattutto nell’immanentismo
che rifiuta di ragionare in termini metafisici tanto per gli oggetti naturali
che soprannaturali, la citata prospettiva non può che riscuotere consensi, come
di fatto accade. Una larga parte del mondo cattolico aggredito dai fermenti del
protestantesimo liberale, del modernismo e del relativismo mondano, sembra
anch’esso aver smarrito le corrette nozioni di grazia, stato di grazia, grazia santificante. Tutto il patrimonio
cattolico su tale argomento viene sistematicamente riletto in chiave
antimetafisica, rinunciando non solo all’utilissima nozione scolastica di “habitus entitativus”, ma anche alle stesse
definizioni del Concilio di Trento. Non resta altro che una lettura
immanentista della grazia, la quale - se non è apertamente descritta nei
termini di Martin Lutero - è quantomeno associata ad uno stato
fiducial-sentimentale, piuttosto che ad una realtà entitativa presente
nell’anima del giusto ed assente nel peccatore.
Conseguentemente,
se la grazia non è un’entità alla quale si giunge dopo il Battesimo o la Confessione
(col proposito d’abbandonare il peccato), ma piuttosto - nel migliore dei casi
- una disposizione della coscienza di ciascuno, indipendentemente dalla volontà
d’abbandonare il peccato, si capisce allora perché si possa “peccare fortiter…et…communicare fortius”.
Perché si possa accedere alla Comunione senza smettere di peccare, anzi
incancrenendo e fossilizzando lo stato di peccatore. La vita dell’anima in grazia
non essendo più sinonimo d’infusione soprannaturale di Vita trinitaria, nell’evoluzione
odierna del pensiero protestante e modernista, diventa piuttosto una auto-comunicazione
che l’uomo dà a se stesso: “sentendosi” degno d’accedere all’Eucarestia (in
maniera soggettivista) lo diventa, e ciò indipendentemente dalla sua vita
morale reale. Così il sacramento è diventato più o meno quel mezzo ordinato solo
a produrre il “sentimento religioso”, come volevano i modernisti condannati da
San Pio X [12].
Modernisti che a detta del Santo Papa - di cui ricorre il centenario della
morte e la cui protezione sulla Chiesa invochiamo - pur evitando le espressioni
condannate dal Concilio di Trento, stanno semplicemente affermando con Lutero
che i Sacramenti servono solo a nutrire la (presunta) fede [13]. E
su questa via l’uomo, seguendo i passi del soprannaturale
trascendentale di Rahner - loro “grande” maestro - “si fece Dio”.
Don Stefano Carusi
[1] S. Th., Ia IIae, q. 113, a. 1, c: “iustificatio importat transmutationem quandam de statu iniustitiae ad
statum iustitiae”.
[2] Denz. 1524.
[3] S. Th., Ia IIae, q. 113, a. 1, c. : “potest fieri iustitia in homine secundum rationem motus qui est de
contrario in contrarium. Et secundum hoc, iustificatio importat transmutationem
quandam de statu iniustitiae ad statum iustitiae praedictae”.
[4] S. Th., Ia IIae, q. 113, a. 6, c., ad 2.
[5] S. Th., Ia IIae, q. 110, a. 1, c.
[6] A. Piolanti, Dio nel mondo e nell’uomo, Città del
Vaticano 1994, pp. 522-533.
[7] Ibidem, p. 547 e ss.
[8] Ibidem, pp. 413-419.
[9] B. Gherardini, Riflessioni su Martin Lutero, in Divinitas 28 (1984), passim.
[10]Ibidem.
[11] S. Th., IIIa, q. 62, a.1, ad 1; Denz. 1666.
[12] Denz. 3489.
[13] Ibidem.