A cura della Redazione di “Disputationes Theologicae”
La commissione teologica della FSSPX affacciata al balcone del S. Uffizio
I colloqui dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, non é più un mistero nemmeno per gli ostinati, non vanno nel senso sperato. I toni entusiasti si sono spenti e le belle speranze sembrano infrante, da un lato e dall’altro. Oltretevere sono tornate in voga espressioni che non si sentivano più da qualche tempo: alcuni dicono a chi orecchie per intendere che “la Fraternità San Pio X è allo scisma, è fuori della Chiesa”. Eppure dopo due anni di regolari discussioni bisognerà pur trovare il modo di uscirne decorosamente. Le soluzioni possibili non sono moltissime, secondo la più plausibile Roma prima dell’estate dovrebbe proporre a Mons. Fellay la sottoscrizione di un documento e con esso si offrirà la struttura canonica ideale, quella dell’Ordinariato personale con l’esenzione dai Vescovi diocesani.
Da due anni ormai si discute e i chiarimenti dottrinali e magisteriali su Concilio e post-Concilio non sono avanzati di una virgola. Fra mille proclami, a tutt’oggi non sappiamo nemmeno se Mons. Fellay ha già accettato il Concilio per farsi togliere la scomunica. Infatti non solo non è stata mai pubblicata integralmente la lettera con la quale domandava, a seguito d’accordo bilaterale, la revoca della scomunica, ma circolano ancora due testi diversi (e nessuno si vergogna): in una versione i quattro vescovi accettano fino al Vaticano II con riserve, nell’altra versione, distribuita ai fedeli in un secondo tempo, accettano solo fino al Vaticano I. Nemmeno Roma ha finora diffuso la versione ufficiale della lettera nella sua integralità, la qual cosa sarebbe già un buon punto di partenza per rendere note le rispettive posizioni, senza nascondimenti, ma per ora si preferisce - da ambo le parti - parlare di dispute dottrinali d’altissimo livello.
E’ la Fraternità ad aver preteso gli incontri dottrinali dai quali sarebbe dovuto uscire una soluzione ai problemi posti dal Vaticano II. Da ormai dieci anni infatti gioca al rialzo di fronte alle proposte di Roma, che non erano in fondo così inaccettabili come è stato detto. La Fraternità non si é accontentata di divenire un organismo canonico sui iuris, con libertà riconosciuta di discutere teologicamente l’influsso di alcune idee della teologia moderna su certi atti ufficiali, ma non infallibili, e con la facoltà di celebrare solo la “Messa gregoriana”. No, ha preteso di più: ha preteso una resa di Roma sul terreno teologico, la Sede di Pietro avrebbe dovuto pubblicamente riconoscere i propri errori davanti a Suoi sottoposti, perché si potesse parlare in seguito d’eventuale accordo canonico. Da dieci anni insomma i superiori della Fraternità scoraggiano i propri preti e fedeli, facendo apparire l’accordo senza preliminare conversione di Roma una sorta di tradimento della fede; questa politica ha dato i suoi risultati, voluti o meno non si giudica, ma sta di fatto che nel 2011 nella Fraternità c’è più ostilità all’accordo che non nel 2001, al’indomani dell’Anno Santo.
Dal 2009 parte il progetto dei colloqui fra i due schieramenti, come quando nel Medioevo s’affrontavano scotisti e tomisti, ma stavolta sarà in segreto. La Fraternità s’affretta tuttavia a ricordare che “sulla verità non si discute quindi non si faranno compromessi ”. Sceglierà quindi i suoi rappresentanti secondo un criterio che sembra essere più quello dell’austera rigidità che quello dell’affabile diplomazia. I teologi di Ecône attraverseranno le Alpi a più riprese, per aiutare Roma a convertirsi: “Noi non andiamo a Roma per fare un accordo, perché non c’è accordo possibile tra la verità e l’errore. Roma deve convertirsi. E allorquando si sarà convertita, allora decadranno gli ostacoli all’accordo canonico”. Né mons. Fellay ha mai preso le distanze da tali proclami impresentabili, essendo proferiti da chi lui stesso aveva scelto per discutere “rispettosamente” con la Santa Sede Apostolica.
Roma sembra cedere sulla “scaletta” e si impegna in questi colloqui teologici, con intenti comprensibilmente più diplomatici che scientifici. La conseguenza, come da constatazione ormai comune, é che tutta la problematica del rito tradizionale e della Tradizione in generale, non viene risolta con un concreto aiuto sul piano canonico a chi è già canonicamente riconosciuto, così incoraggiando veramente la Fraternità; al contrario si concentra il problema solo intorno al “caso” della Fraternità San Pio X. In fondo è meno impegnativo anche per Roma e si potrà sempre dire che sono dei turbolenti scismatici. Dalla decisione, che tradisce tutta una forma mentis, deriva, all’atto pratico, uno squilibrio assai poco sensato, per cui la stessa Commissione Ecclesia Dei - e con essa chi ne dipende - invece d’essere potenziata e sostenuta nella sua opera, é ridotta ad essere un diverticolo della Congregazione per la Dottrina della Fede. Tutta la sua attività e il suo ruolo sono quindi, almeno apparentemente, ridotti a favorire il buon esito degli incontri col “partito intransigente” della Fraternità. Capisca chi può, ma il risultato é grottesco : tutto la “questione tradizionale” é oggi sospesa ai capricci dell’ “ala dura” della Fraternità San Pio X. E i vescovi hanno campo libero nel non sentirsi chiamati in causa dall’affare, perché bisogna aspettare - dicono – che Roma regoli definitivamente la questione; al punto tale che L’Osservatore Romano si permette di mettere in dubbio l’ortodossia di tutti gli Istituti dipendenti dall’Ecclesia Dei, gettando su di essi - e sulla Commissione - il discredito (http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2011/02/losservatore-romano-attacca-la-dominus_16.html). La situazione é dunque legata alle future scelte di Mons. Fellay, che, dopo aver disprezzato il profilo pratico, si ritrova ad essere padrone della situazione e a bloccare - in pratica - lo sviluppo dei tanto odiati “traditori”, come con disprezzo vengono definiti tutti coloro che hanno fatto la scelta di affidarsi a Roma e che sono caduti nel terribile peccato di “accordismo”.
La situazione è un po’ quella di certe guerre infami, in cui i guerriglieri sparano cannonate, fanno saltare i ponti, fanno strage del nemico, salvo poi ritirarsi sulle montagne, lasciando i civili in balia delle inevitabili rappresaglie. La San Pio X spara a altezza d’uomo dalle fortezze della sua assoluta indipendenza da qualsiasi autorità ecclesiastica, e spesso i Vescovi, facendo di tutta un’erba un fascio, fanno valere le loro ritorsioni contro gli istituti dell’Ecclesia Dei, i quali - per la scelta che hanno fatto - si ritrovano ad essere gli unici vulnerabili, con gran gioia di chi sta a guardare dalle citate “fortezze”.
Roma temporeggia, senza impegnarsi ad aiutare i suoi e le risposte sono sempre le stesse: “bisogna essere pazienti”, “non é il momento per dare garanzie canoniche agli istituti Ecclesia Dei”. Per loro adesso non c’é tempo, l’urgenza é un’altra.
In questo strano panorama eccoci ormai giunti alla fine dei colloqui, dopo due anni. Ci sono stati degli incontri, alcuni dei quali in un clima piacevole, ma, tra discussioni e pasti amichevoli, evidentemente, nessuna soluzione. Né gli uni né gli altri si sono convertiti. La Santa Sede vorrebbe assolutamente che si interpretassero i testi conciliari e successivi in armonia con la Tradizione, asserendo un’evoluzione omogenea; la controparte sostiene invece che certi contenuti conciliari sarebbero eretici (o come minimo favens haeresim), bisognerebbe quindi escluderli preliminarmente dal Magistero, e con essi buttare a mare l’intero Concilio che li ha prodotti. Sarebbe questa la “conditio sine qua non” per ogni accordo. Accontentarsi d’esprimere riserve teologiche, rimettendo il giudizio ultimo alla Santa Sede - come ha fatto il Buon Pastore -, sarebbe un tradimento. I contenuti ereticali sarebbero numerosi, a dire della Fraternità, ma l’elenco completo a tutt’oggi non é dato conoscere in maniera definitiva. E questo perché, in fondo in fondo, anche la Fraternità San Pio X sa che i testi conciliari sono più ambigui che eretici, ma per ammetterlo bisognerebbe accettare d’essere accusati di “liberalismo” dalla sua “ala dura”, secondo un vocabolario che essi stessi hanno adattato alla situazione.
L’esito dei dibattiti non ha portato ad alcuna ricucitura: i “romani” lasciano correre la voce che i teologi della Fraternità non hanno il livello richiesto e la loro formazione neo-tomista li ha fossilizzati sulle posizioni e sul linguaggio del 1930. L’accusa può non essere del tutto priva di fondamento, ma sembra un modo rapido, troppo rapido, per evitare di riconoscere i problemi dottrinali che realmente affliggono la Chiesa da almeno quarant’anni. I teologi d’Ecône, dal canto loro, sembra accusino i “romani” d’essere talmente impregnati di “nouvelle théologie” che tutte le loro formule, anche le più tradizionali, non sono condivisibili, perché possono sempre nascondere, sotto termini “accettabili”, nozioni moderniste...la qual cosa renderebbe le frasi ancor più pericolose. Un altro metodo poco corretto d’evitare un vero confronto, sebbene anch’esso possa contenere elementi di verità, atteggiandosi - senza gran rischio - a difensori inflessibili dell’ortodossia.
Ci si ritrova ora in un’ impasse per aver preteso una soluzione “dottrinale”, senza accontentarsi di chiedere reali garanzie per poter attuare serenamente quella che Mons. Lefebvre - in modo ben più saggio e ponderato - aveva definito “l’esperienza della Tradizione”. Si è voluto strafare, si è voluto “convertire Roma”. Ora che Roma non vuol lasciarsi convertire siamo alle soglie di una rottura, cui si darà l’altisonante nome di “dottrinale”, ma che in realtà sarà soprattutto il risultato d’un grave errore di superbia e di imprudenza.
La Santa Sede cercherà lo stesso una via d’uscita e proporrà probabilmente un ordinariato personale (o qualcosa di simile). A quel punto la Fraternità dovrà scegliere e non ci saranno che due alternative: entrambe tuttavia migliori della terza, l’equivoco continuo.
Nel primo caso accetterà lo statuto canonico che le sarà proposto. In tal caso, senza rinnegare le giuste battaglie condotte nel passato dovrà realmente lasciare certa psicologia sedevacantista o gallicana, con le sue tendenze da “pétite église”. Dovrà anche entrare in un ordine d’idee per cui i vescovi diocesani non sono sistematicamente da trattarsi con disprezzo, quasi fossero automaticamente dei nemici della Chiesa solo perché dicono la Messa di Paolo VI. Purtroppo gli ultimi eventi di Francia, con le sconcertanti dichiarazioni dei più autorevoli superiori della Fraternità (http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2011/01/posizioni-contraddittorie-ed-ambigue.html), lasciano credere che sia già troppo tardi per sperare un cambiamento di toni. In ogni caso una tale scelta sarebbe in fin dei conti un accordo pratico, o “canonico” se si preferisce, ma nel punto a cui si è giunti e a forza di tirare la corda in tutti i sensi, esso è divenuto oggi ben più problematico rispetto a qualche anno fa.
Nell’altro caso la Fraternità rifiuterà le proposte del Pontefice, in questo caso si troverà una spiegazione ideale e si parlerà dell’impossibilità di trovare un accordo dottrinale sui testi del Concilio. Mons. Fellay dovrebbe però, per dovere di giustizia e per amor di verità, assumersi la responsabilità delle sue scelte e riconoscere che quell’accordo dottrinale - che all’epoca Roma non gli aveva chiesto - è fallito: e che proprio a causa di quelle esose richieste la situazione si è fatta oggi più complicata di ieri. Tuttavia anche questa scelta avrebbe un lato positivo, quello di finirla con le ambiguità e la doppiezza di linguaggio. Sarebbe la posizione più coerente con le ultime prese di posizione all’interno della Fraternità, che dopo l’annuncio d’Assisi III, la beatificazione di Giovanni Paolo II e le dichiarazioni del Papa sul profilattico, gridano allo scandalo e affermano che la conversione richiesta a Roma non si è avuta. Lo stato di cose ne uscirebbe chiarito : chi vorrà restare “romano” saprà finalmente cosa dovrà fare e, pur dolorosamente, non gli resterà altro che lasciare la Fraternità al vortice impazzito degli “zelanti”. Roma dirà che la Fraternità ha abbandonato definitivamente la Chiesa e già in questi giorni a Roma si riparla di grave attitudine scismatica. Ma lamentarsi dello scisma non sarà facile, quando di fatto si è resa non universalmente possibile, sicura e serena quell’esperienza della Tradizione, che non si è voluto tentare sul serio con gli organismi già esistenti. La debolezza di Roma è diventata cronica, tanto che una norma applicativa sul Motu Proprio, che doveva uscire nel gennaio 2008, forse prenderà il volo nella primavera 2011. Al tempo stesso ci si getta in faraonici progetti d’accordo con l’ “ala dura” della Fraternità, quando non si è nemmeno capaci di difendere chi l’accordo canonico l’ha già fatto. Quando si lascia cacciare da una diocesi un istituto tradizionale, riconosciuto canonicamente, solo perché ha osato insegnare un po’ di catechismo a qualche bambino, quando il “piano pastorale diocesano” preferisce affidare incarichi parrocchiali ad un gruppo di laici piuttosto che ad un prete con la tonaca perché “sarebbe assimilato ai lefebvriani”, quando capita ripetutamente che gli organizzatori della Messa gregoriana subiscano continue minacce e pressioni e si sentano costretti a dire cose che in coscienza non pensano, per potere ottenere (o per paura di perdere) l’instabile “concessione” - nel silenzio generale - è quantomeno difficile spiegare a quei genitori, a quei seminaristi e anche a quei preti che è meglio abbandonare la posizione, per certi versi confortevole e facile, rappresentata dalla Fraternità San Pio X.
Adesso sta a Roma prendere l’iniziativa e sta a Roma di non lasciarsi imporre una “pratica” linea d’azione da Mons. Fellay. Non si chiede la luna, si chiede di poter fare seriamente, ovunque e con tranquilla sicurezza, quella che Mons. Lefebvre chiamava “l’esperienza della Tradizione”. Che Roma dia almeno questa possibilità a chi già vuol farla sotto l’Autorità del Papa! Chi vuol combattere per il bene della Chiesa sia il benvenuto, se la Fraternità vuol esserci sappia che tutti l’attendono. Altrimenti sappia che il Vicario di Cristo ha gli strumenti che il Divino Fondatore gli ha dato per “salvare la Chiesa” nella crisi che essa attraversa. Non ha bisogno, per risollevare le sorti della “barca che prende acqua da tutte le parti”, di chi si crede indispensabile. Pur nel doveroso ossequio al primato della verità, è pur sempre la Chiesa che ci salva e non siamo noi, per quanto inflessibili e puri possiamo essere, a salvare la Chiesa.