28 dicembre 2018

Segreto di Fatima


Davanti a queste precise domande Roma non smentisce

28 dicembre 2018, Santi Innocenti martiri

 

Pubblichiamo il testo della lettera inviata il 26 settembre 2018 (ed inoltrato nuovamente l’8 dicembre scorso) con la quale abbiamo rivolto alcune domande di chiarimenti specifici alla Rev.ma Congregazione per la Dottrina della Fede senza ricevere alcuna…smentita. 

Invitiamo ciascun lettore ad inviare anch’egli, cooperando ad avere risposta esplicita, il presente testo al seguente indirizzo:


Rev.ma Congregazione per la Dottrina della Fede
Palazzo del Sant’Uffizio
00120 - Città del Vaticano



Chiediamo a codesta Rev.ma Suprema Congregazione:

  1. Se Suor Lucia Dos Santos, veggente di Fatima, abbia mai redatto uno scritto collegato al Terzo Segreto ed esplicativo della visione, uno scritto che ne abbia ad oggetto il significato ovvero l’interpretazione. 
  2. Se il testo del Terzo Segreto di Fatima è stato scritto soltanto una volta oppure, in qualche modo, più volte.
  3. Quali siano le «alcune aggiunte fatte nel 1951» - secondo l’asserto del Cardinale Angelo Amato, già Segretario di codesta Congregazione, a un Convegno e su l’Osservatore Romano del 7 maggio 2015 - da Suor Lucia alle «prime due parti» del Segreto.

In filiale fiducia che non si opponga il muro del silenzio a quesiti posti all’Autorità ecclesiastica, ringraziamo per la cortese attenzione assicurando fervide preghiere.


Don Stefano Carusi
    Abbé Louis-Numa Julien
    Abbé Jean-Pierre Gaillard
    kl. Lukasz Zaruski

24 ottobre 2018

Benedetto XVI nel 2017 ha impartito la Benedizione Apostolica?!?

Note sulla recente corrispondenza con il Card. Brandmüller

24 ottobre 2018, San Raffaele Arcangelo



Nel bel mezzo di una delle tempeste più violente che stanno travolgendo l’attuale situazione ecclesiale, in maniera chiaramente non fortuita, sono apparse sulla stampa due lettere che Benedetto XVI ha scritto al Card. Brandmüller nel novembre 2017 e la cui autenticità sembra essere fuori discussione. Alcuni dei nostri lettori ci hanno chiesto un commento che non si limitasse alla superficie - o al dibattito ideologico cui abbiamo assistito -, ma che analizzasse il messaggio che Papa Benedetto, come più volte lo ha chiamato anche Francesco, ha lanciato e rilanciato specialmente in merito alla nozione di “Papa emerito” (non ancora chiarita) ed alle circostanze delle rinuncia cui si fa allusione con un parallelo sconcertante (la prigionia nazista, eventualmente prevista da Pio XII). Della questione in generale ci occupammo nel giugno 2016 (Che tipo di “dimissioni” sono quelle di Benedetto XVI?), articolo cui rinviamo e che sembra trovare conferme in queste rivelazioni del 2017, in cui tornano i riferimenti a titoli che un rinunciatario al Papato non dovrebbe più avere e a un potere che non potrebbe più esercitare. 


Nella lettera del 9 novembre 2017, rispondendo ad una critica del Card. Brandmüller sul fatto che “la costruzione di Papa emerito [è] una figura che non esiste nella totalità della storia della Chiesa”, Papa Benedetto non nega trattarsi di una novità, ma quasi si interroga lui stesso e quasi chiede anche l’avviso dell’interlocutore, noto storico della Chiesa. Fa poi un parallelo - appunto assai inquietante - con Pio XII e la sua previsione della prigionia da parte dei nazisti. Papa Pacelli previde infatti un suo ritorno al cardinalato non appena fosse stato fatto prigioniero. A questo punto Papa Ratzinger scrive: “Se questo semplice ritorno al Cardinalato sarebbe stato possibile, non lo sappiamo”. In questo passaggio a nostro avviso non si sta parlando di una impossibilità metafisica - chiunque sappia un po’ di teologia o di storia della Chiesa sa che ciò è possibile -, ma sembra quasi che Papa Ratzinger stia dicendo che colui che rinuncia al Sommo Pontificato potrebbe non avere poi nessun potere sul ruolo e sull’eventuale giurisdizione che il rinunciatario può attribuire a se stesso. “Rinominare” al cardinalato potrebbe spettare in effetti solo al successore. E ci sembra che il dubbio teologico-canonico invocato verta proprio su questa eventuale “competenza esclusiva” del successore sul Cardinalato del predecessore.


Ma Papa Ratzinger va oltre e - nel passaggio successivo della citata lettera - fuga ogni dubbio sul fatto che egli sia “ridiventato” solo un Cardinale: “Nel mio caso, sicuramente non avrebbe avuto senso semplicemente reclamare un ritorno al Cardinalato”. Viene addotta una ragione mediatica che, di per sé, non sembra molto cogente; forse le ragioni profonde dell’impossibilità del semplice ritorno al Cardinalato sono infatti anche altrove. O forse si paventavano devastanti campagne mediatiche.


4 agosto 2018

Il Card. Dario Castrillon Hoyos

Da qualche aneddoto un suo ricordo

5 agosto 2018, Madonna della Neve

Il pontificale in Santa Maria Maggiore


Il Cardinal Castrillon si è spento il 17 maggio scorso. Tra i tanti incarichi per anni fu responsabile della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” e in tale occasione avemmo modo di conoscerlo, di apprezzarne le qualità, di ricevere da lui indicazioni di sincero aiuto ed anche di dissentire su alcuni punti. Se è vero che restava un uomo di Curia di un certo periodo storico, è anche vero che colpiva in lui quel suo fare diretto, immediato, senza affettazione cortigiana. Era grande conoscitore - e spesso tessitore - di quella tela politica che è anch’essa parte della vita della Chiesa Romana, ma non ricordiamo che con noi abbia indossato “la maschera del potere”. Anche il suo fisico robusto indicava l’uomo concreto che aveva conosciuto le asprezze del ministero rurale, in un’epoca in cui gli spostamenti non erano facili. In quell’incontro internazionale del clero che avvenne in Colombia nel 1998 in preparazione all’Anno Santo, salì a cavallo e fece quasi un rodeo, mostrando che cavallerizzo era ancora alla sua veneranda età; scendendo dalla sella prese il microfono e disse ai sacerdoti presenti che aveva dovuto imparare a cavalcare quando l’unico mezzo perché il sacerdote raggiungesse certi centri isolati era il cavallo. E terminò dicendo ai confratelli “vi auguro di usare tutti i mezzi possibili per portare Gesù Cristo”. Ecco com’era il Card. Castrillon e questo suo spirito non poteva non riflettersi nella direzione della Commissione “Ecclesia Dei”, compito non certo facile anche perché non tutte le scelte dipendevano da lui, più forze facevano pressione nel senso delle restrizioni e talvolta del vero e proprio abuso canonico ed ecclesiale. Non scordiamo che ostilità vennero espresse anche da parte dell’Osservatore Romano, ne parlammo in un articolo nel febbraio 2011 (L’osservatore Romano attacca la“Dominus Jesus” e l’“Ecclesia Dei”?).

Per quel che possiamo testimoniare ricordiamo in lui un uomo di mediazione, che soprattutto nel tanto avversato pontificato di Benedetto XVI seppe difendere alcune scelte non senza determinazione e autorevolezza. Su più punti non si può dire che avessimo le stesse posizioni, ma va riconosciuto che in merito alla Messa, che lui chiamava spesso “gregoriana”, ebbe anche parole belle e coraggiose. Parole e atti. Perché fu lui in quel 24 maggio 2003 a celebrare in Santa Maria Maggiore quel famoso pontificale; oggi in molti l’hanno scordato, ma ci voleva coraggio all’epoca, e lui lo ebbe. Si potrà anche legittimamente discutere degli intenti di “recuperare i tradizionalisti”, alcuni parlarono anche - non senza una certa miopia ideologica - solo di “inganno” o “specchietto per le allodole”, ma resta il fatto incontrovertibile che pochi altri Cardinali - specialmente Prefetti di Congregazione e tantomeno un “papabile” - avrebbero osato indossare quei paramenti, per quel rito, in quella basilica, in quei tempi.

A tal proposito era anche autoironico e scherzoso, non arrossiva di citare sorridendo l’epiteto di “squalo” che Mons. Williamson gli aveva affibbiato, poi con bonomia aggiungeva che in fondo per la sua abilità politica se l’era meritato; ma riconosceva al contempo che - seppur da un fronte lontano -  quel Vescovo della Fraternità nei suoi confronti era onesto sia in pubblico che in privato, arrivando a dire che per un certo verso era, paradossalmente, quello dei quattro Vescovi della FSSPX che aveva meno una mentalità scismatica.       

Fu sotto il suo mandato che venne riconosciuta ad una Società “l’esclusività del rito tradizionale” e - da galantuomo - tenne fede ai patti: sotto la sua presidenza quell’accordo non fu mai messo in discussione, malgrado le pressioni dall’alto e malgrado la disponibilità a svenderlo proprio da parte di chi avrebbe dovuto difenderlo. E fu lui che sul Concilio Vaticano II ripeteva - semplificando volontariamente - che i passaggi conciliari potevano distinguersi in tre tipologie, la prima conteneva affermazioni condivisibili pienamente da qualsiasi cattolico; la seconda comportava delle ambiguità, ma era possibile interpretarne i contenuti alla luce della Tradizione; la terza tipologia poteva apparire difficilmente conciliabile con la Tradizione e su questi passaggi dovevamo impegnarci – ci disse a voce – ad un uno “studio serio e costruttivo”, ad una “critica seria e costruttiva”. Ed era lui a dirci con forza: “questo è un gran servizio da rendere alla Chiesa” ! Dopo averla approvata, invece di tirarsi indietro come fecero tanti altri, era lui ad incitarci alla “critica costruttiva” e a dirci che sottrarsi a tale compito equivaleva a servire più se stessi che la Chiesa.

Lo sappiamo bene e non vogliamo nasconderlo nemmeno in questa sede: non tutte le scelte che sottoscrisse furono pienamente condivisibili. Il pensiero va al commissariamento del 2000 della Fraternità San Pietro, che costituì un tristissimo e fin troppo imitato precedente. Ma è anche vero che non sempre un Capo Dicastero fa quel che vuole. Ed in più avemmo la netta impressione che la sua gestione successiva fu tale che quasi volle farsi perdonare quell’errore. Avrà certo fatto i suoi sbagli, ma nella direzione dell’Ecclesia Dei rappresentò spesso concretezza e buon senso, dichiarando apertamente che cercava di comporre le situazioni e non di complicarle. Esasperare le situazioni con vessazioni non produce mai buoni frutti. Anzi quando si trattò di trovare mediazioni e dare consigli pratici di sicura utilità, fu sempre disponibile ed affabile, anche quando aveva più d’una ragione per essere in collera…non è sempre colpa “solo della Curia Romana”…

A chi doveva aiutare chiedeva una certa comprensione delle oggettive difficoltà della situazione, che per chi governa non erano sempre d’evidente soluzione. I nemici della Chiesa e del Papa, alcuni dei quali tesero dei veri e propri tranelli anche sfruttando le debolezze mondane di certo tradizionalismo, erano all’opera e ce lo ricordava.

Poi venne la bufera del 2009, che aveva precisi e premeditati bersagli, di cui uno importantissimo… Sulla maniera con la quale fu trattato è lecito dubitare che qualche vendetta si sia abbattuta su di lui, anche per quel suo netto schieramento e quella sua frase nel Conclave del 2005.  

Fu così che la Commissione Ecclesia Dei finì sotto la Congregazione per la Dottrina della Fede, per cui di fatto si ridimensionava il suo ruolo a quello di mediatore con la FSSPX e le sue “dottrine” da sorvegliare. Anche in un recente incontro, senza nascondere quanto la cosa gli avesse fatto male e rivelandoci anche alcuni aspetti dolorosi, lamentava che così facendo la Commissione Ecclesia Dei veniva a trovarsi in posizioni d’estrema debolezza e che il suo ruolo ne risultava alterato e ridotto. Se dovessimo sintetizzare il nostro ricordo parleremmo di un Cardinale coraggioso e fedele agli accordi presi. Pacta sunt servanda e lui con noi non tradì mai la parola data, anche quando era difficile mantenerla.

Che il Signore voglia accorciargli il tempo di purificazione nel Purgatorio e che lui si ricordi d’intercedere per quei sacerdoti che ha incoraggiato ed anche ordinato al sacerdozio, là da dove si trova e da dove vede tutto sotto altra luce.

La Comunità “San Gregorio Magno”

22 giugno 2018

Intervento di Mons. Livi sulla Comunione ai Protestanti

22 giugno 2018, San Paolino di Nola



Intercomunione: 
le false ragioni dottrinali di Kasper


Molto opportunamente, l’arcivescovo di Philadelphia Charles J. Chaput, di fronte all’eco mondiale suscitata dall’intenzione dell’episcopato tedesco di procedere verso una normativa canonica locale che includa la possibilità, anzi la convenienza,  di far accedere alla comunione sacramentale quei protestanti che sono uniti in matrimonio a un coniuge cattolico, ha voluto precisare che la questione non riguarda una singola conferenza episcopale nazionale ma l’intera Chiesa cattolica, ed è una questione che va risolta sulla base della riaffermazione esplicita e senza equivoci del dogma eucaristico. Il vescovo ha dichiarato:

«Chi può ricevere l'eucaristia, e quando, e perché, non sono solo domande tedesche. Se, come ha detto il Vaticano II, l'eucaristia è la fonte e il culmine della nostra vita di cristiani e il sigillo della nostra unità cattolica, allora le risposte a queste domande hanno implicazioni per tutta la Chiesa. Esse riguardano tutti noi. E in questa luce, offro questi punti di riflessione e di discussione, parlando semplicemente come uno dei tanti vescovi diocesani» (Charles J. Chaput, Un modo gentile di nascondere la verità, dichiarazioni registrate dal blog “First Things”, Fonte magister.blogautore.espresso.repubblica.it 25/052018).

Il primo, essenziale «punto di riflessione e di discussione» è evidentemente (Chaput non lo dice, ma lo dico io con sufficiente certezza morale) l’intenzione anti-dogmatica e ultimamene anti-ecclesiale che anima le proposte dei vescovi tedeschi e l’incoraggiamento da essi ricevuto da parte dello stesso papa Francesco quando hanno interpellato il Vaticano su come procedere, sia nella prassi che nella dottrina che dovrebbe giustificarla. Per quanto riguarda papa Bergoglio, a me risulta evidente l’intenzione anti-dogmatica che orienta il suo pontificato; come egli stesso ha esplicitamente dichiarato (cfr l’esortazione apostolica Evangelii gaudium), la strategia di fondo delle sue iniziative pastorali consiste nell’«avviare dei processi» di presa di coscienza di tutta la Chiesa in vista di una sua radicale «riforma». Egli ha sempre detto che la Chiesa cattolica deve diventare «una Chiesa in uscita», «una Chiesa sinodale», capace di portare a compimento il progetto indicato dal Vaticano II per conseguire finalmente l’unità dei cristiani (cfr decreto Unitatis redintegratio, 21 novembre 1964), ma non come il Concilio e i papi del post-concilio avevano indicato – riaffermando cioè che la Chiesa di Cristo «subsistit» nella Chiesa cattolica, con la sua dottrina e i suoi istituti giuridici[1] – ma al contrario eliminando gradualmente e sistematicamente proprio la sua dottrina irreformabilmente definita (i dogmi) e i suoi istituti giuridici fondamentali, visti come ostacolo che finora si è opposto al cammino dell’ecumenismo, in particolare per quanto riguarda i protestanti. Il cardinale Kasper, che in Vaticano ha diretto il Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani e con papa Francesco è divenuto il teologo ufficiale della Santa Sede, ha fatto ricorso ai più sottili (anche se ingenui) sotterfugi dialettici per giustificare la rinuncia a mantenere fermi, nel rapporto con i protestanti, il dogma eucaristico e le norme di diritto canonico più volte confermate dall’autorità ecclesiastica competente. Recentemente infatti ha scritto:

31 maggio 2018

Fatima, le novità sul segreto

Verso una ricomposizione della questione? 

[Nel giorno di Maria Regina, 31 maggio 2018, pubblichiamo uno studio scritto un anno fa e pervenuto alla nostra Redazione in questo mese mariano, ndR]

Dalle Marche, 1° marzo 2017
Nel 60°del “sequestro” del Terzo Segreto di Fatima
Nel decennale della Supplica per la sua liberazione
Nell’Anno giubilare delle Apparizioni della Madonna



1 - Introduzione

Il presente saggio fa un po’ le veci, agli inizi del centenario delle più grandi apparizioni mariane della storia, del libro sullo stesso oggetto che era stato programmato (e annunciato) per uscire nell’autunno 2015: una messa a punto, aggiornata agli ultimi anni, del contrastato discorso sul Terzo Segreto di Fatima.

Ringrazio il sacerdote romano che mi aveva dato qualche consiglio circa tale pubblicazione («Chiarezza su Fatima»), della quale esce comunque un riassunto. Naturalmente non riprende da capo le cose già dette su Fatima e il suo Terzo Segreto, ma presuppone la conoscenza (da tempo a disposizione) della materia in generale, della pubblicistica critica sulla sua gestione, delle ricerche, delle conferenze e di tutto il dibattito che in questi anni si è sviluppato. In particolare, si può utilizzare come “testo base”«Non esiste» perché distrutto? (Pro manuscripto, marzo 2012), considerando il presente scritto come sua appendice, con particolare riferimento alle novità (soprattutto provenienti dal Portogallo) del 2014-2015; sulle quali, peraltro, qualcosa in tale biennio è stato già detto.

Da parte “ufficiale” (o ufficiosa o filoufficiale) talvolta si muove l’obiezione, il rimprovero, che l’interesse a Fatima dev’essere costruttivo e quant’altro. È giusto. Trattandosi non di un oroscopo, ma di “profezie condizionate” all’agire degli uomini. Anche chi scrive, e altri esponenti della parte “critica”, spesso hanno richiamato i numerosi interessati a una curiosità ordinata, a un interesse solido, complessivo, ben cooperante. Ma questa verità non può essere usata contro il legittimo desiderio di conoscere esattamente anche “l’ultimo segreto” di Fatima; d’avvalersi di un tale «aiuto» che – assieme agli altri elementi dell'apparizione portoghese – il Cielo ha offerto a tutti, opponendovi una chiusura anche sprezzante.

Viceversa un’apertura chiara e solida, quale la pubblicazione di quel testo (che in ogni caso sarà stato ricostruito, trascritto o fotocopiato), sarebbe propizia anche ad evitare ogni eventuale impostazione o considerazione imprecisa, eccessiva, disordinata, parziale e non costruttiva; aiutando davvero i discorsi e gli spiriti a prendere la strada di una vera riconciliazione. Naturalmente, questo obiettivo è un «atto per cui giustamente offriamo un contributo, ma che sarà disposto dall’Autorità competente» (Non esiste perché distrutto?, pag.10).

Dedico questo studio – nello spirito di un grido al Cielo e una domanda agli uomini, grido e domanda cooperanti al «preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità» (S.S. Benedetto XVI, Fatima 13 maggio 2010) – alla memoria del Cardinale Oddi, del Vescovo Venancio, di Padre Gruner, e a tutti coloro che si sono spesi ed esposti per la conoscenza di quel Segreto che attendiamo completa dal 1960.

2 - Le novità dal Portogallo

A) In sintesi: tra l’autunno 2013 e i primi mesi del 2014 mi è pervenuta la notizia che in Portogallo era uscito un libro su suor Lucia – la veggente di Fatima sopravvissuta fino a febbraio 2005 – a cura delle sue consorelle carmelitane, e che (per “gli addetti ai lavori”) vi era contenuto qualche elemento notevolmente nuovo.

30 aprile 2018

La guerra giusta deve essere combattuta. Anche da ciascuno di noi

L’importanza della virtù di forza  
                                         30 aprile 2018, Santa Caterina da Siena


Giovanni Di Paolo, Santa Caterina da Siena nella Curia pontificia d’Avignone
non recede dalla “guerra” per il “giusto giudizio”


Sulla guerra giusta San Tommaso d’Aquino ha scritto alcune scultoree parole che sono un’indicazione particolarmente attuale ai capi di Stato, ma anche un suggerimento morale a ciascuno di noi, specie quando si tratta di non sottovalutare il dovuto esercizio della virtù di forza. Un cristianesimo “dolciastro” infatti ha fatto spesso dimenticare che in alcuni casi c’è un vero e proprio dovere di scendere in guerra se è in gioco il bene della patria, ma anche se è necessario ristabilire la giustizia, e ciò - dice San Tommaso - anche rischiando di persona. Pubblicheremo alcuni brevi articoli su temi politici che ci toccano da vicino sul piano naturale e soprannaturale, ma anche internazionale, ecclesiale e personale. 


Fare la guerra (anche nel senso più ampio del termine) non è un peccato

San Tommaso inizia la sua trattazione sulla guerra affermando che esiste un’opinione secondo cui far la guerra o nel senso più ampio opporsi con la forza o resistere ai soprusi sia sempre peccato. E riporta il pensiero di Sant’Agostino che aveva già dovuto dissipare dubbi a tal proposito ricordando che nel Vangelo non si trova nessuna interdizione ai militari di esercitare il loro mestiere[1].  

Bisogna però che la guerra sia giusta, sottolinea l’Aquinate, e tale giustezza deriva da almeno tre caratteristiche. Nelle guerre che riguardano i regni non è consentito a chiunque muovere guerra, ma essa deve essere una decisione che promana dall’autorità, ovvero dal legittimo principe che ha fra i suoi ruoli quello di condurre l’azione bellica. Un privato infatti per un eventuale ristabilimento della giustizia, nelle condizioni ordinarie, ricorre al giudizio del superiore e non ha facoltà di dichiarare una guerra. La tutela della tranquillità dell’ordine in sé compete al principe, che muove guerra a chi lo turba sia dall’interno che dall’esterno (un caso a parte è quello dell’autorità che va contro il bene comune, argomento sul quale torneremo). E’ per questo motivo che il principe porta la spada, per difendere la giustizia e per essere quel “vindex” di cui parla San Paolo (Rm 13,4). “Vendicatore” è qui da prendere nel senso più classico del termine ovvero nel senso di “vendicare l’ira divina”, che è sinonimo di ristabilimento della giustizia, essendo egli il protettore del povero che deve tutelare dai soprusi degli iniqui. Oltre ad essere un’azione del principe, la guerra giusta deve avere una fondamentale caratteristica, la “causa iusta”, ovvero che colui cui si dichiara guerra lo meriti, è per questo che Sant’Agostino dice che sogliono definirsi guerre giuste quelle che vendicano l’ingiustizia commessa da una società che si rifiuta di riparare e persiste nella prevaricazione. In terzo luogo la guerra giusta deve accompagnarsi dalla retta intenzione di colui che combatte, ovvero lo scopo deve essere la promozione del bene e l’estirpazione del male o quantomeno il freno ad esso, per reprimere i cattivi e risollevare i buoni. Non basta infatti che il legittimo principe stia difendendo una giusta causa, poiché - sempre seguendo S. Agostino - sarebbe illecita una tale guerra se l’intenzione fosse ad esempio il desiderio di nuocere, la crudeltà nell’esercitare la vendetta, un’indole implacabile, la ferinità nel condurre la guerra o la brama di potere[2]

Ma come conciliare quanto detto col comando divino di non restituire male per male? Il Santo vescovo d’Ippona dice che per essere fedeli al Vangelo quando si è obbligati a condurre una guerra - ma ciò potrebbe dirsi anche per una resistenza da attuarsi nelle più diverse forme - è necessaria una generale disposizione dell’animo alla mitezza ed anche a rinunciare a difendersi. Tuttavia in certi momenti si rende necessario l’intervento della forza, specie se è in gioco il bene comune o il bene di coloro contro i quali si combatte. E qui emerge un altro aspetto troppo spesso dimenticato, ovvero il dovere di amare il prossimo fino al punto di dichiarargli guerra. Per il suo bene. Ovvero togliergli la libertà di fare il male impunemente e soprattutto sottrargli quella tranquilla felicità di malfattore, che rafforza la spavalderia degli impuniti e la loro mala volontà, può essere un gesto d’amore. Parafrasando Sant’Agostino si potrebbe aggiungere che oltre a combattere in favore del bene comune, si combatte quel nemico interiore che lotta all’interno del nostro nemico[3]. E ciò per il suo vero bene. Questa la carità che deve animare l’azione di opposizione - se necessario anche con la spada - all’ingiustizia. 

Sempre tuttavia, ricorda S. Agostino a Bonifacio, tenendo presente che il fine della guerra è la pace: “la pace non è ricercata per fare guerra, ma la guerra si conduce per conseguire la pace. Sii quindi nel guerreggiare sempre d’animo pacifico, affinché vincendo tu possa condurre al bene della pace coloro che avrai sottomesso[4].  


L’importanza di esporsi in prima persona nella guerra giusta

In un luogo parallelo San Tommaso ricorda che alcune guerre vanno combattute e che, a seconda del proprio stato, in alcuni casi non ci sono scuse che si possano addurre. Se c’è un bene importante da perseguire si deve andare fino in fondo, esercitando appunto la virtù di forza, che fa andare anche incontro alla morte o quantomeno si deve esser pronti a rischiarla. La propria vita, ma anche - specie in guerre che si fanno senz’armi - altri beni come l’agiatezza o la reputazione, devono essere messi a servizio della causa del bene, il che significa che l’uomo deve essere pronto ad affrontare anche la morte nella difesa del bene comune con la guerra giusta[5]. E qui San Tommaso aggiunge, dando un’indicazione a ciascuno di noi sul dovere di combattere anche se non fossimo soldati in difesa del patrio suolo, ma semplici militanti nella guerra per il trionfo della fede attaccata o della giustizia naturale conculcata. Ci sono infatti due tipi di guerra giusta, uno che è quello generale quando si combatte nelle schiere militari ed un altro che è particolare, ovvero può riguardare la privata persona di ciascuno di noi. Ciò si verifica quando un uomo non recede da un giusto giudizio (“non recedit a iusto iudicio”)[6], rimane saldo in una scelta giusta, senza tremare davanti al pericolo della morte o di qualsivoglia altra minaccia. La virtù di forza esige infatti la prestanza d’animo contro le intimidazioni e i pericoli persino mortali, non solo in un’eventuale guerra ufficialmente dichiarata dall’autorità, ma anche nella nostra “guerra particolare”, che a giusto titolo può esser detta “guerra” dice il Dottore Comune[7]. Anche la difesa di un giudizio oggettivamente giusto può - e talvolta deve - andare fino alla guerra. Non solo perché ci può essere il dovere per il bene comune d’esercitare la virtù di forza ristabilendo la verità, ma anche per non commettere un peccato contro l’intelligenza, sottomettendo questa grande virtù alla tranquillità del quieto vivere e del proprio interesse personale.

La Redazione di Disputationes Theologicae




[1] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., IIª-IIae q. 40 a. 1 s. c.
[2]Ibidem, c.
[3] Ibidem, ad 2. “Ad secundum dicendum quod huiusmodi praecepta, sicut Augustinus dicit, in libro de Serm. Dom. in monte, semper sunt servanda in praeparatione animi, ut scilicet semper homo sit paratus non resistere vel non se defendere si opus fuerit. Sed quandoque est aliter agendum propter commune bonum, et etiam illorum cum quibus pugnatur. Unde Augustinus dicit, in Epist. ad Marcellinum, agenda sunt multa etiam cum invitis benigna quadam asperitate plectendis. Nam cui licentia iniquitatis eripitur, utiliter vincitur, quoniam nihil est infelicius felicitate peccantium, qua poenalis nutritur impunitas, et mala voluntas, velut hostis interior, roboratur.
[4] Ibidem, ad 3. “Ad tertium dicendum quod etiam illi qui iusta bella gerunt pacem intendunt. Et ita paci non contrariantur nisi malae, quam dominus non venit mittere in terram, ut dicitur Matth. X. Unde Augustinus dicit, ad Bonifacium, non quaeritur pax ut bellum exerceatur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo bellando pacificus, ut eos quos expugnas ad pacis utilitatem vincendo perducas.
[5] Ibidem, IIª-IIae, q. 123 a. 5 c. “Sed pericula mortis quae est in bellicis directe imminent homini propter aliquod bonum, inquantum scilicet defendit bonum commune per iustum bellum”.
[6] Ibidem, “Potest autem aliquod esse iustum bellum dupliciter. Uno modo, generale, sicut cum aliqui decertant in acie. Alio modo, particulare, puta cum aliquis iudex, vel etiam privata persona, non recedit a iusto iudicio timore gladii imminentis vel cuiuscumque periculi, etiam si sit mortiferum”.
[7] Ibidem, sed etiam quae imminent in particulari impugnatione, quae communi nomine bellum dici potest”.