10 agosto 2025

Quando la volontà forza l’intelligenza…a sbagliare (seconda parte)

Indicazioni per un un’epoca di soggettivismo sfrenato


10 agosto 2025, San Lorenzo

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Si potrebbe obiettare che i limiti della nostra intelligenza sono tali per cui l’errore è qualcosa da mettere in conto e ciò non per forza di cose in maniera volontaria. Certamente. Scrive Jolivet che “l’intelligenza lasciata unicamente all’azione del suo proprio oggetto, sarebbe infallibile, giacché appartiene alla sua natura affermare unicamente ciò che essa comprende e solo fin dove comprende, dubitare di fronte all’incertezza, negare di fronte alla falsità, attenersi esattamente a quello che vede. Ma non si dà intelligenza senza volontà e senza una relativa libertà. Inoltre nell’uomo la intelligenza è associata alla sensibilità, alle passioni, agli interessi che influiscono su di essa, l’orientano ai propri fini e la inducono a giudicare senza vedere. Di qui l’errore che deriva sempre da ignoranza, in quanto esso consiste precisamente nell’affermare ciò che non si vede, o ciò che non si sa, a generalizzare imprudentemente, a seguire analogie ingannevoli, a fare induzioni senza sufficiente fondamento. L’errore è senza dubbio formalmente un atto della mente, ma di una mente preoccupata e come appannata, contrariata dai sensi o da altre facoltà, e tale da cercare ove non è il criterio della verità”[1].

L’autore parla di una “mente preoccupata” come predisposta a sbagliare, infatti le inquietudini e la volontà di risolverle o quantomeno di chiarirle, dove invece permane di fatto la nebbia, dispongono all’errore, perché vi è il fortissimo rischio di una “forzatura” della volontà nel giungere ad un giudizio. Giudizio forzato, che non è per forza di cose positivo o in favore di colui che giudica, anzi delle volte può essere anche estremamente negativo (e persino apertamente nocivo a chi lo formula), purché sia chiaro. Infatti in tempi di “culto dell’idea chiara” di derivazione razionalista, anche laddove l’idea non può esser chiara, c’è una spinta a fare una luce “da sole di mezzogiorno” anche quando si è solo “nella penombra dell’alba” ed è così che interviene la volontà, influenzata dalle passioni (oggi si direbbe con terminologia più equivoca “dai sentimenti”). Ed è per questa via che il razionalismo di oggi, visto che non si è accontentato di una conoscenza vera, ma troppo sfumata e troppo poco nitida per i suoi gusti, finisce, dall’esigente razionalismo da cui è partito ad un giudizio quasi totalmente “volontarista/sentimentalista”.

Dal rifiuto di una conoscenza vera, benché “sfumata”, cui si attribuiva giustamente anche una parte d’incertezza per quei lati che richiedevano prudenza, si è passati ad una conoscenza anche totalmente falsa, purché sia chiara. E questo è avvenuto non per un’evidenza dell’intelligenza, ma per un intervento della volontà, delle passioni, della foga irrazionale talvolta, del sentimentalismo.

Dal razionalismo all’irrazionalità imposta per via sentimentale il passo è breve.

Quanto questo procedimento sia colpevole dipende dai singoli casi e dalle disposizioni di ciascun soggetto, di sicuro è - oggettivamente parlando - la via maestra dell’errore. Via tra l’altro nella quale è facile essere ingannati da persone - o dai media senza scrupoli - e soprattutto dall’Ingannatore per eccellenza. Non a caso Sant’Ignazio di Loyola nel Discernimento degli Spiriti dice di non cambiare le proprie risoluzioni, prudentemente prese, quando si è nel turbamento passionale. La famosa regola n. 5, che invita ad aspettare quando si è turbati dalla desolazione e a rinviare il giudizio al momento in cui il campo è sgombero dalle passioni.

Da qui la vera umiltà, che sempre si sposa alla verità, di sospendere il giudizio laddove non c’è possibilità reale di pronunciarne uno perentorio, o quantomeno l’importanza della semplicità e dell’onestà di esporre la problematica quale essa è - con la descrizione dei lati in luce e di quelli in ombra - e di preferire, pure se non è la risposta completa alla domanda, anche solo un “abbozzo di verità”, purché sia stato dedotto con procedimenti onesti. E che è sempre meglio dei prodotti del sentimentalismo passionale. 

Il razionalismo odierno non ammette verità conoscibili laddove non vede con la chiarezza delle scienze matematiche e - per esempio intorno al “problema di Dio”, come lo chiamava Cornelio Fabro - o ne rifiuta categoricamente l’esistenza, perché non lo vede e non riesce a spiegarlo nella maniera idealista che si era prefisso, oppure si getta con foga amorosa e irrazionale persino nei deliri delle peggiori sette. Qui è importante comprendere che entrambe le scelte, quella dell’adepto delle sette deliranti e quella dell’ateo militante che si dice un razionalista, sono prodotto del volontarismo e spesso del volontarismo sentimentale. Lo stesso ateo militante, che si descrive come un intransigente della ragione, ha forzato l’intelligenza con la sua volontà perché restringesse i suoi limiti, fino a negare Dio e la possibilità di conoscerlo, mentre invece - almeno come Causa prima e Fine ultimo - è ampiamente nei limiti di un’intelligenza non corrotta dai criteri che “il pensatore” si è intenzionalmente autoimposti. Il “sentimentalismo” originario dell’ateo razionalista, l’ha condotto - con intervento della volontà - all’errore dell’intelligenza.

Commentando un testo di Ribot così Jolivet sintetizza l’errore derivante dalla logica dei sentimenti:

“La logica dei sentimenti consiste, infatti, nel partire non da una verità o da un fatto certo per trarne legittime conseguenze, ma da un’asserzione posta in anticipo come conforme a quanto ci si augura o si desidera, e che si giustifica in tutte le maniere. Questa logica tende a risultati più che a conclusioni, poiché i giudizi che essa ispira sono governati ed imposti non dalle esigenze oggettive del reale, ma dai bisogni affettivi e dagli interessi”[2]. 

Quando la volontà forza arbitrariamente l’intelligenza, lì nasce la vera chiusura mentale.


Don Stefano Carusi





[1] R. Jolivet, Trattato di Filosofia III, Psicologia, Brescia 1958, p. 564.

[2] Ibidem, p. 566.