Gli Usi Civici, le Comunanze agrarie, le Confraternite
25 marzo 2023, Annunciazione della Beata Vergine Maria
Qui la Prima e la Seconda Parte
Gli Usi civici e le Comunanze agrarie, tutela dei poveri
Nel multiforme panorama, offerto dallo Stato Pontificio, la ripartizione della proprietà terriera aveva molti tratti in comune con contemporanee amministrazioni d’Ancien Régime, ma, date le peculiarità del territorio, mostrava in alcuni casi sviluppi singolari.
Nello studio dell’organizzazione degli usi civici e delle terre di proprietà collettiva bisogna osservare che una trattazione generale si rivela riduttiva, le citate diversità ambientali avevano sortito un adattamento degli usi alla geografia.
Tutto il territorio dello Stato Pontificio vedeva il riconoscimento del diritto a possedere collettivamente; ampie estensioni di terra venivano godute da tutti gli abitanti della comunità, vi esercitavano il diritto di pascere, di fare legna, in alcuni casi di seminare per il fabbisogno familiare. Questa particolare forma di conduzione agraria doveva la sua esistenza alla necessità di tutelare 1’esistenza dei poveri. Permetteva, in una società agricola, ai nullatenenti di sopravvivere, di possedere piccole greggi o qualche armento da pascere nelle terre comuni, di scaldarsi, di cucinare e di fabbricare con il legname delle selve pubbliche, di cacciare e pescare in monti e laghi non soggetti ad una legislazione solo privatistica dei beni.
Nel tracciare la storia di questi diritti alcuni ne fanno risalire l’origine alla cultura feudale, altri si spingono a ricollegarli alle transumanze delle greggi dei popoli dell’Italia preromana; ma l’ipotesi più ragionevole appare la più ovvia, tenuta ab antiquo e formulata dal Cardinal Giovanni Battista de Luca1 agli inizi dell’Ottocento: la ragion d’essere dell’esistenza delle proprietà comuni, accanto a quelle private, è insita nel diritto naturale e ha origini remote, da quando gli uomini nella notte dei tempi avvertirono il bisogno della proprietà privata, ma riconobbero la necessità di un uso collettivo di alcuni beni. La concezione del Cardinale si sposa con la dottrina cristiana sulle ricchezze, donate da Dio agli uomini per vivere e prosperare, ma non perché pochi se ne impadroniscano in un uso a proprio esclusivo vantaggio.
I primi documenti, che attestano l’esistenza di beni comuni nello Stato della Chiesa, fanno riferimento al sec XIII, riguardano Sezze, Perugia, Orvieto; a Velletri l’emergere delle strutture del Comune è testimoniato dalla presenza dei “procuratores silvae” che amministrano le foreste comunali2. Dall’altro versante dello Stato, a Bolognola e Visso, nell’Appennino umbro-marchigiano, la proprietà collettiva, nel caso del primo centro attestata da un documento del 13533, « copre fino al 70 % del territorio comunale, costituito da foreste e pascoli; l’allevamento degli ovini e lo sfruttamento dei boschi, che rappresentano la risorsa principale delle popolazioni montanare, si basano essenzialmente sulla proprietà collettiva »4; questo tipo di sfruttamento è diffuso in molte località dell’Italia centrale e permette ai meno abbienti un diffuso allevamento ovino e suino5. Spesso lo sfruttamento regolamentato di queste risorse è alla base della nascita di una coscienza di comunità, che investirà anche abitati di dimensioni modestissime e concorrerà alla nascita di nuovi comuni.
In gran parte delle paludi pontine la pesca viene effettuata in stagni e corsi d’acqua di proprietà comunale; allo stesso modo il diritto di cacciare su terreni pubblici offre la possibilità di catturare grossa selvaggina nelle foreste e uccelli acquatici nei laghi6.
Accanto alla proprietà collettiva permangono fino all’età moderna anche i cosiddetti usi civici; essi prevedevano, secondo il de Luca, che alcune comunità o il barone esercitassero lo ius pascendi, in determinati periodi dell’anno su fondi di proprietà privata. In alcuni casi l’origine di questi diritti poteva rimontare all’epoca della cessione da parte della Comunità o del feudatario di porzioni di terreno, riservandosi però la facoltà di pascolare e far legna. Nel caso il cedente fosse stato la Comunità, a godere dei privilegi conservati erano tutti gli abitanti, erano questi i cosiddetti pascoli “de jure dominii”. Nel caso dei pascoli “de jure cessionis” era un privato che aveva ceduto il diritto di pascolo alla Comunità, che poi lo devolveva ai suoi membri. Il caso più rilevante tuttavia era costituito dai pascoli “de jure civico o consuetudinario” che risalivano ad una tradizione immemorabile, gli abitanti delle Comunità avevano il diritto di pascolare il bestiame in terre dei privati, dei baroni, comunali, aperte (non recintate), non coltivate; il diritto in alcuni casi era esteso ai terreni dopo il raccolto, dopo la falciatura del fieno e nei boschi quando fossero passati tre anni dal taglio7.
Secondo Antonio Coppi, nei suoi scritti del 1842, gli usi civici (lo ius pascendi) investivano nello Stato della Chiesa intorno alle 300000 rubbie di terra (circa 554000 ettari) pari a circa il 13,27% dell’intero territorio; ma la situazione era molto più marcata nel Lazio dove, secondo i dati del Nicolaj (i dati sono dei primi dell’Ottocento), nella delegazione di Frosinone il fenomeno interessava circa il 43% del territorio, nella delegazione di Viterbo oltre il 50%, ma entro i confini comunali di Bagnaia, Barbarano Romano, Bieda, Vetralla e Viterbo si oltrepassava l’85% che diventava il 97,8% per il solo Capoluogo8.
Nelle Marche, poco dopo il tramonto del Governo Pontificio, si conteranno 351 Comunanze agrarie e 22359 terreni a dominio collettivo9.
A gestire precedenze e assegnazioni erano in molti casi preposte delle associazioni agrarie, che difendevano e regolamentavano i diritti acquisiti con appositi statuti, andavano sotto i nomi di Comunanze, Comunità, Università. Erano queste istituzioni a garantire che il paesaggio agrario non si tramutasse in un brulichio di armenti, a evitare soprusi e sopraffazioni e soprattutto a difendere accanitamente un uso, che permetteva di sfamare migliaia di bocche, favorendo il sorgere di un senso di appartenenza e di tutela del bene comune di un territorio.
Nei secoli XVIII-XIX, sull’onda delle nuove teorie illuministiche e liberali sull’economia, si fece strada l’idea dell’abolizione degli usi civici, a vantaggio del godimento esclusivo del proprietario10. Nello Stato della Chiesa le novità si limitarono a stimolare un dibattito e indussero Pio VII a varare delle riforme nel campo dell’agricoltura e del commercio dei grani; Papa Chiaramonti, nell’affrontare l’argomento, agì sempre con la prudenza necessaria nei cambiamenti, per non correre il rischio, disse il contemporaneo Duca Odescalchi, « di variare un sistema secondo il quale già da tanto tempo pacificamente si regola la coltivazione delle province suburbane, e di spogliare molte comunità e molti baroni di un diritto, forse nocivo al ben pubblico, ma che essi hanno acquistato nelle maniere le più legali o dal principe o da chi prima di loro lo godeva »11. Il Petronio commenta: « in questo modo si cercava di coniugare insieme rinnovamento e conservazione, esigenze produttivistiche e garanzia degli assetti costituiti »12.
Nella prospettiva di incoraggiare una più intensa coltivazione cerealicola, in terre ad essa vocate, andava la Notificazione del 1849, ma anche questo provvedimento, moderatamente innovativo (la cui applicazione, oltre ad essere facoltativa, non penalizzava eccessivamente le comunità, garantendo ai fruitori degli usi civici, corrispettivi in terreno a risarcimento di quanto perdevano)13, non sortì grandi effetti se nel 1884, dopo una statistica nei territori ex pontifici, la situazione parve, secondo l’opinione di un ministro liberale, sconfortante14.
Per analizzare il fenomeno bisogna valutare che il Governo Pontificio era stato estremamente sensibile alle rimostranze delle popolazioni e quando, come in questo caso, le associazioni dei contadini delle comunità avevano fatto appello alla benevolenza pontificia, perché fosse rivista la legge, il Papa ne aveva rallentato l’applicazione « al timore che le popolazioni rurali venissero a trovarsi prive dei mezzi di sussistenza minimi »15. A confermare l’analisi è, nel 1887, il deputato Giovanni Zucconi sicuramente non sospettabile di simpatie papaline16.
A farsi di certo meno scrupoli e a dare uno scossone a usanze di secoli, ci pensarono i Parlamentari Italiani dopo l’Unità: le istanze del capitalismo liberale di fine Ottocento scardinarono l’assetto agrario e sociale dei territori non più pontifici.
Il 27 aprile 1888 si approvò una legge che si rivelò « fallimentare e dannosa (“legge di classe perché a tutto vantaggio dei proprietari”...) e suscitò violente reazioni contadine a causa degli indennizzi troppo bassi, quasi mai concessi in terreni, e per la non prevista possibilità di affrancazione a favore degli utenti »17. Degli antichi usi civici si mantenevano solo delle modeste reliquie, in compenso si esasperava il disagio sociale18, creando di fatto un terreno favorevole all’emigrazione e al nascente social-comunismo.
In Parlamento, in difesa dei meno fortunati, si era persino levata la voce dell’onorevole Franchetti. Egli, il 15 dicembre 1887, si infervorò in difesa dei diritti delle associazioni agrarie e si scagliò contro i suoi colleghi dicendo che la « scuola economica classica (...), ferma alla sua unica distinzione fra capitalisti e lavorator i»19 provava - riferiscono gli Atti parlamentari - « un’antipatia istintiva per enti ibridi, come le università degli utenti, nelle quali l’individuo sparisce ed il cui scopo è assicurare un beneficio ad una categoria di persone come tale » e nella disperata difesa di quelle “Corporazioni dei poveri” affermò: « è una vera spogliazione quella che voi consumate con questa legge: voi potete bensì trovar modo di indennizzare i singoli utenti come individui, ma come classe essi rimangono spogliati; si tratta di una categoria di persone che con i mezzi ordinari non ha modo di nutrirsi, che trova in questa ricchezza comune del paese un supplemento di mezzi di sussistenza, che le impedisce di morire di fame. Voi le togliete questo beneficio e togliendolo non le date nulla in corrispettivo. E quando anche voi abbiate compensato gli attuali utenti dei diritti che abolite, avrete creato per le generazioni future una classe di proletari che adesso non esiste »20.
I Sodalizi dell’Urbe a difesa delle categorie sociali .
Le vie di Roma e le piazze, risparmiate dalle demolizioni postunitarie e del Ventennio, sono ancora oggi testimoni di una realtà sociale che si esprimeva anche nell’urbanistica. I palazzi dei principi romani si confondono con le casupole dei popolani, intervallati spesso da una cappella o un oratorio dove persone di ogni estrazione si trovavano in date e scadenze particolari per solennizzare una festività, per celebrare il patrono celeste di una categoria di lavoratori, per assistere spiritualmente ed economicamente poveri, carcerati e condannati a morte o per ricordare una data importante che riportava alla mente la patria lontana.
Le confraternite erano numerosissime, potevano essere associazioni di connazionali o di mestiere, dedite a pratiche di pietà o di assistenza, talora caratterizzate da un autentico spirito di corpo che, nel temperamento romano, si tramutava anche in innocente rivalità. Tutti, nobili e plebei, ecclesiastici e bottegai potevano indossare una eguale divisa e un unico emblema, distinti soltanto dai segni delle cariche da ciascuno ricoperte all’interno del sodalizio.
Tracciare la storia di tutte le confraternite romane è arduo lavoro, ma accennare alla loro attività è importante per comprendere la quotidianità di un mondo, che si esprimeva nella coralità di un popolo.
Le teorie sull’origine delle confraternite sono discordi, chi le fa risalire agli albori della civiltà, chi ne colloca i primi vagiti al termine dell’ epoca apostolica, chi ne associa la nascita ai collegia funeraticia (associazioni riconosciute dall’autorità romana che, in quanto proprietarie dei sepolcri, garantivano ai propri iscritti il diritto ad una sepoltura privata), chi ritiene sia ragionevole parlarne solo a partire dal Medioevo inoltrato.
Raramente si nega la loro attività in ambito caritativo e assistenziale, ma sovente si misconosce o si ignora la funzione di tutela giuridica e amministrativa rivolta a categorie sociali o nazionali. L’importanza che esse ebbero in antico regime non ha attratto l’interesse degli storici come meriterebbe, anche perché quella che era spesso una caritatevole influenza presso i potenti più che un’ingerenza nell’amministrazione, per sua natura lascia minor traccia negli archivi.
Non va dimenticato con quanta irruenza si manifestò l’ascendente di queste corporazioni sulla scena politica romana alla morte di Cola di Rienzo nel 1354. Roma era precipitata nelle lotte civili, che vedevano protagonisti i membri del baronato; con una risolutezza esemplare intervennero i membri della Compagnia dei Raccomandati della Santa Vergine che, forti di un consenso e una stima incondizionata da parte del popolo romano, pacificarono la città, imponendo come Governatore del Campidoglio Giovanni Cerrone e sottoponendo al Papa (allora ad Avignone) la ratifica della nomina21.
Queste aggregazioni ebbero sempre la considerazione della popolazione, e nei momenti più gravi, forti di quel menzionato spirito di corpo, fecero pesare la propria influenza sui potenti di turno, costituendo, nei momenti di smarrimento e disordine, un forte richiamo alla concordia cittadina. Ad ulteriore conferma dell’importanza del ruolo ricoperto negli stati cattolici d’antico regime, si ricorderà che le confraternite condivisero, costantemente, insieme agli Ordini Religiosi, l’odio dei rivoluzionari, i nemici del trono e dell’altare individuarono sempre in entrambi un pericoloso nemico; ovunque arrivassero illuministi o giacobini in erba, fossero nella Toscana Leopoldina o nella Francia del Terrore, si assisté ad una persecuzione contro i sodalizi, fatti oggetto di un livore che si riserva solo ai peggiori avversari.
Nella Roma papale l’aggregazione confraternitale era tanto rilevante da raccogliere e tutelare sotto lo stesso vessillo tutti coloro che immigravano nella capitale della Cristianità dalle varie parti del mondo. Le cosiddette confraternite nazionali permettevano, a chi aveva una comune provenienza, di festeggiare ricorrenze particolarmente care con i propri conterranei, di osservare le proprie tradizioni e, nella città del latino, di mantenere l’uso della propria lingua.
Nacquero allora l’Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo dei Lombardi ma distinti dai Bergamaschi22 o quella di S. Girolamo degli Schiavoni che proteggeva gli esuli slavi dell’invasione turca; si svilupparono quelle di S. Andrea dei Borgognoni, di S. Giuliano dei Belgi, di S. Ivo dei Bretoni, del Santissimo Sudario dei Piemontesi, dello Spirito Santo dei Napoletani, prosperarono quelle dei Lucchesi, dei Siciliani, degli Spagnoli.
Le franchigie concesse giungevano al punto che un condannato a morte forestiero, poteva far ricorso al sodalizio della propria nazione, perché quest’ ultimo si interessasse di procurare la grazia; la confraternita di San Benedetto e Santa Scolastica « sorta per utilità dei Nursini abitanti a Roma»23 aveva il privilegio di liberare un condannato a morte originario della diocesi umbra. Norcia giaceva peraltro in territori pontifici ma, come detto nel capitolo precedente, le comunità dello stato avevano un “trattamento diplomatico” simile a quello riservato ad altri stati sovrani.
I Nursini non erano gli unici sudditi pontifici a godere del privilegio di una confraternita nazionale: i Bolognesi si riunivano sotto la protezione dei Ss. Petronio e Domenico, i Marchigiani invocavano la Madonna di Loreto, i Casciani veneravano Santa Rita, i Camerinesi avevano la chiesa dei Ss. Venanzio e Ansovino, sulle cui mura campeggiava l’epigrafe Nationis Camertium.
Le confraternite avevano condiviso con le corporazioni medievali la difesa delle prerogative di alcune categorie di lavoratori e, specie nella capitale, ne avevano ereditato e sviluppato la funzione. Pressoché tutti i mestieri avevano la propria aggregazione che veniva affidata alla protezione di un Santo; i lavoratori erano così uniti e difesi, coniugando pratiche di pietà a spirito di appartenenza. Attivissime erano le Arciconfratemite di S. Maria della Quercia dei Macellari, di S. Eligio dei Ferrari, o di S. Gregorio dei Muratori, ma anche i mestieri meno diffusi vantavano un sodalizio, come quello di S. Barbara dei Bombardieri, i cui membri, in uno stato pacifico, erano più impegnati a salutare le processioni con salve di cannone, che a sparare sugli eserciti; si distingueva anche la Confraternita e Università della SS. Annunziata dei Cuochi e Pasticceri, o la Confraternita degli Stampatori posta sotto la protezione dei Dottori della Chiesa o quella dei Garzoni dei Sarti, distinta da quella dei Sarti, o la Confraternita di Ss. Biagio e Cecilia dei Materassai dove « coloro che al di fuori della confraternita avevano posizione preminente, nell’ambito dell’organizzazione gerarchica del sodalizio potevano trovarsi in sott’ordine ad un dipendente della propria bottega »24.
Non mancavano le Università e Collegi dei Pollivendoli, dei Tessitori, dei Maccaronai, dei Vaccinari, dei Pizzicaroli, degli Ortolani, dei Sensali di ripa25, dei Costruttori di barche, dei Pescivendoli o quella dei Pittori e Scultori, poi divenuta Accademia di S. Luca, il tutto a dimostrare come l’immagine di una Roma città di parassiti, vivesse solo nella pubblicistica protestante.
S. Filippo Neri, “il terzo apostolo di Roma”, fondava nel 1536 un sodalizio che si occupava dell’assistenza ai pellegrini giubilari: l’Arciconfratemita della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti. Nella sua sede del rione Regola, si vedevano Principi e Cardinali lavare i piedi gonfi dei pellegrini, o mendicare pane e vino pei poveri, a volto scoperto e senza cappuccio, come straordinario esercizio di umiltà riservato ai primi cittadini di Roma. Nel giubileo del 1575 l’Arciconfraternita ospitò 144913 pellegrini continuando a curare i suoi 21000 convalescenti, con 365000 pasti offerti, servivano a tavola il vincitore di Lepanto principe Marc’Antonio Colonna e il Papa stesso. Si inaugurò una gara di carità tra la nobiltà romana e nel 1649 il principe Ludovisi diede « trattamento pubblico a 12.000 donne »26. Di attenzioni speciali godevano i pellegrini provenienti dall’India, dall’Armenia, dalla Siria, i quali dopo i disagi del lungo viaggio trovavano nell’Urbe calorosa accoglienza.
Una parte di quello che oggi viene definito “stato sociale” era a carico delle Confraternite, che assolvevano egregiamente ai propri compiti, se la capitale dello Stato Pontificio vantava un ospedale ogni 9363 abitanti quando Londra ne aveva uno ogni 4073727.
L’Arciconfraternita dei Ss. Dodici Apostoli, amata da S. Ignazio di Loyola, aprì, per volere del Cardinal Barberini, una farmacia che distribuiva farmaci a quanti presentavano un certificato del parroco attestante la povertà.
Lo Stato non disdegnava di cedere una fetta di sovranità, quando lasciava che la gabella sulla legna e la tassa di bollo sulle carte da gioco, venissero riscosse dagli amministratori della Confraternita di S. Elisabetta, essa era responsabile della gestione del grande ospedale di S. Sisto. Per sostenere le spese della struttura uno zoppo girava per la Città appoggiato a un cieco, entrambi chiedevano le elemosine e, ricevuto l’obolo, in una Roma cattolica ma non ottusamente moralista, si porgeva all’oblatore una presa di tabacco da fiuto su un bacile d’ argento28.
I carcerati avevano per patrona l’Arciconfraternita di S. Girolamo della Carità; recitano gli statuti: « per cura di tutti i carcerati il sodalizio stipendi un medico un chirurgo un barbiere per medicarli e soccorrerli nelle loro naturali malattie »; era compito dei confratelli vigilare sulla qualità del vitto e sulla quantità di carne somministrati ai detenuti, veniva nominato un prelato che, senza intervento dei giudici, potesse far loro visita e portare le confidenze della famiglia29.
La confraternita dei Sacconi Rossi si occupava di recuperare i morti annegati nel Tevere e di dar loro sepoltura a proprie spese, condividendo la pia opera coi confratelli di S. Maria ad Orazione e Morte; in occasione di una piena del fiume i confratelli giunsero fino ad Ostia per raccogliere i corpi trascinati dalla corrente e preservarli dall’oltraggio degli animali, ma, poiché i bisogni non sono solo di ordine naturale, la Compagnia soccorreva anche le anime di chi aveva trovato senza vita, facendo celebrare messe in suffragio di quegli sconosciuti malcapitati.
Anche per le confraternite, l’Unità d’Italia, fece suonare le campane a morto. Il 18 febbraio 1890 un parlamentare diceva: « non perderò molte parole riguardo alle confraternite e altre istituzioni consimili. Non si può riconoscere un carattere di utilità pubblica in enti che, salvo poche eccezioni, hanno per fine lo spettacolo di funzioni religiose, causa ed effetto di fanatismo e di ignoranza, di regolare il diritto di precedenza nelle processioni, di difendere le prerogative di un’immagine contro un’altra, di stabilire il modo e l’ora delle funzioni, di regolare il suono delle campane; lo sparo dei mortaretti e via dicendo. Sono continui e gravi gli inconvenienti di ordine morale, politico e sociale a cui esse danno luogo nell’ esercizio della propria azione. Sono in una parola più dannose che utili alla società »30. La legge sulla soppressione fu approvata il 20 luglio 1890, condannando 11707 Confraternite31. Lo Stato cancellava l’impronta cattolica dalla pubblica assistenza, si impadroniva di ospedali, chiese e arredi, disperdeva un patrimonio artistico e storico di innegabile rilievo; Luigi Huetter, storico e cantore di quella Roma che era stata condannata alla sparizione, in merito alla soppressione di questi antichi sodalizi, scrisse: « avevano avuto abilità e bellezza incontestabile. Dinanzi alla legge avevano interpretato spesse volte il buon senso popolare. Contro la bestemmia ed il delitto significavano preghiera, fede, sacrificio. Nell’urto delle fazioni, di mezzo ai potenti oppressori, ritenevano ogni classe sociale sotto un identico stendardo davanti il comune altare. L’esteriorità stessa appariva consona a quei tempi. Quegli incappucciati litanianti a lume di torcia facevano colpo sugli animi semplici. Tutti piegavano il ginocchio davanti ai fratelli ignoti. Questo arcano religioso in cui il dolore e la Morte prendevano parte sì grande lasciava negli spiriti un po’ di dolcezza, faceva balenare un viaggio di speranza. Ma la mentalità liberale tenne a sostenere che, fossero buone o cattive le confraternite, i tempi mutati ne reclamavano la scomparsa»32.
La fine dello “Stato per corpi intermedi”
Lo Stato della Chiesa, “odiato e calunniato” quanto il suo ultimo Papa Re, formatosi nei secoli quando le rovine di Roma erano ancora fumanti, disteso dal Po al Liri, aveva dato a Roma la grandiosità delle basiliche e l’intimità dei suoi rioni, alla porzione amministrata del Belpaese, un paesaggio agrario e un reticolo di città ineguagliabile; giunto al suo crepuscolo consegnava alla nuova Italia le tradizioni comunali, che un’amministrazione centralista avrebbe travolto e una società ordinata “per corpi intermedi”, che aveva affascinato i viaggiatori del Grand Tour per la sua armonia.
All’ingresso dei Bersaglieri è noto che Roma rimase immobile, attonita, incredula. Dopo pochi giorni i nuovi barbari, i “buzzurri” come verranno definiti dal popolo romano i liberali sopraggiunti, si avviavano a scalpellare gli stemmi pontifici, a sventrare il centro storico, a demolire chiese e palazzi, a coprire l’antico tempio dell’Aracoeli con la mole bianca del Vittoriano, perché lo sfondo prospettico di Via del Corso non fosse un edificio cristiano. Sui ruderi della Roma dei Cesari e sul tessuto urbano della Roma papale, si vagheggiava la costruzione, di mazziniana memoria, della “terza Roma”, per edificare la quale bisognava produrre abbondanti rovine.
La distruzione dell’antica concezione di sovranità non risparmiò nessun aspetto del vivere comune; in passato nello Stato Pontificio, l’imperativo era stato la costruzione della Civitas Christiana, nel rispetto delle preesistenze e dei diritti acquisiti, ora l’unico credo era l’idolatria dello Stato.
In nome del cosiddetto bene pubblico i poteri dei governanti si dilatavano a dismisura, i parlamentari si arrogavano il diritto di sopprimere gli Ordini religiosi e Confraternite, di negar loro il diritto a possedere; le esangui casse del governo italiano venivano ristorate con la rapina dei beni della Chiesa e dei poveri; le stesse tavole rinascimentali e le tele dei grandi maestri, strappate dai loro luoghi d’origine, prendevano la via del mercato antiquario, perché non testimoniassero in ogni angolo del Paese quel secolare legame tra la religione cattolica e la committenza artistica, tra le autonomie locali e la passata prosperità; il popolo doveva cambiare usi e tradizioni per regio decreto: non più processioni o feste popolari ma solo ricorrenze di improbabili eroi risorgimentali. Così si veniva imponendo lo “stato nuovo”, ovvero quello meglio governabile dai despoti perché disorientato e senza radici.
Don Stefano Carusi
1M. Caffiero, L’erba dei poveri. Comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma 1982, pp.19 e sgg. Il testo si segnala per il lavoro di ricerca svolto e per alcune interessanti osservazioni di storia economica e sociale, tenendo conto dell’orientamento dell’A. molto distante dal nostro.
2 J. C. Maire Vigueur, Comuni e Signorie in Umbria Marche e Lazio, cit., p. 332.
3A.A. Bittarelli, L’economia integrata silvo-pastorale-boschivo-laniera nagli usi civici del 1353 e negli statuti del 1654 a Bolognola, in “Atti e memorie della deputazione di storia patria per le Marche”, ser.VIII,IX, 1975 pp. 315 e ss.
4 J.C. Maire Vigueur, Comuni e Signorie in Umbria Marche e Lazio, cit., pp. 332-333.
5 Ivi, p. 333.
6 Ivi, pp. 334, 335.
7 M. Caffiero, cit., pp. 19-20.
8 Ivi, pp. 20-21.
9M. S. Corciulo, Il dibattito parlamentare sulla legge 24 giugno 1888, in P. Falaschi (a cura di) Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894), Camerino 1991, p. 95.
10 Dal 1776 nel Granducato di Toscana la legislazione leopoldina aveva avviato un forte ridimensionamento degli usi civici che proseguì anche nel secolo seguente. Cfr. L. Acrosso-G. Rizzi, Codice degli usi civici, Roma 1956, pp. 533 sgg.
11B. Odescalchi, in ASRm (Archivio di Stato Sez. di Roma), Congregazione economica, 68/3 citato in U. Petronio, Qualche spunto sulla questione demaniale in Italia prima della legge Zucconi, in P. Falaschi (a cura di) Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894) , cit., p. 68.
12 U. Petronio, cit., p. 68.
13Cfr. Acrosso-Rizzi, cit., p. 496 e ss. Il testo può essere consultato anche per la legislazione della Repubblica Romana in materia di usi civici, in particolare per il decreto del 3 febbraio 1849; la più cauta Notificazione di Pio IX è del 29 dicembre 1849.
14Per un’analisi della posizione di Bernardino Grimaldi, convinto fautore dell’ abolizione degli usi civici e ministro dell’ agricoltura nel Governo Depretis, cfr. P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Milano 1977, passim.
15 M. S. Corciulo, cit., p. 87.
16 P. Falaschi (a cura di), Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894) , cit., passim.
17 M. Caffiero, L'erba dei poveri, cit., p. 113, nota 50.
18Sulla situazione dei contadini nel Lazio dopo l’Unità, cfr. A. Caracciolo, Il movimento contadino nel Lazio (1870 -1922), Roma 1952; G. Pescosolido, Usi civici e proprietà collettive nel Lazio dalla Rivoluzione Francese alla legislazione dello stato italiano, in “Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina”, 5 (1987).
19 M. S. Corciulo, cit., p. 93.
20 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legisl. XVI, II sessione, 1886 - 87 citati in M. S. Corciulo, Il dibattito parlamentare sulla legge del 24 giugno 1888, cit., pp. 93, 94.
21Statuti della Ven. Arciconfratemita del Gonfalone, tipografia poliglotta della S.C. di Propaganda Fide, Roma l888; cfr. anche E. Dupré Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia, (1252-1377), Istituto di studi romani, storia di Roma XI, Bologna 1952.
22 I Bergamaschi erano riuniti nella Confraternita dei Santi Bartolomeo e Alessandro.
23 M. Maroni Lumbroso, A. Martini, Le confraternite romane nelle loro chiese, Roma 1963.
24 Ivi, pp.74-75.
25Mediatori nel commercio dei prodotti che giungevano a Roma per via fluviale; si ricorda il rilievo economico dei porti tiberini di Ripetta e Ripa Grande, entrambi scomparsi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo seguente.
26 Cenni storici sulla Ven. Arciconfraternita della SS Trinità de’ Pellegrini e Convalescenti di Roma, Roma tipografia F. Caputi,1917; M. Maroni-Lumbroso, A. Martini, cit., p. 427.
27 V. Faraoni, A. Mencucci, Vita del venerabile Pio IX, Roma 1952.
28 M. Maroni Lumbroso, A. Martini, cit., pp.143,144.
29 Ivi, pp.149-154. ,
30L. Huetter, Le Confraternite. Misteri e riti religiosi delle pie associazioni laiche di Roma dalle origini a oggi (ristampa a cura di D. Paradisi), Roma 1994, pp.34-35.
31 Ivi, p. 34.
32 Ivi, p. 36.