“Ritengo estremamente interessante e stimolante la posizione dell'Abbé Héry sull'ermeneutica del Vaticano II, ma anche sull’esclusività del rito tradizionale (che segnala di sfuggita come un diritto dell'IBP). Tuttavia debbo farvi parte dei miei dubbi (…). A norma del diritto mi sembra che si sia obbligati ad accettare il nuovo rito e si è dunque obbligati a celebrarlo o concelebrarlo. Il Motu proprio sembra dire che chi celebra la “forma straordinaria” (anche se questa definizione mi pare inadatta per il “rito gregoriano”) non può escludere la celebrazione secondo il novus ordo. Questa è la risposta regolare che viene data a noi sacerdoti quando solleviamo la questione (…) e, benché non la condivida, mi pare giuridicamente fondata. Vorrei capire meglio il punto di vista del “Buon Pastore” secondo un approccio squisitamente giuridico, in riferimento al diritto generale della Chiesa (…)”
Bisogna convenire che ultimamente alcune interpretazioni del Motu proprio sono, non solo semplificatrici, ma anche contrarie alla lettera del testo - alcune sono quasi rispettose poichè non rispettano le scelte della Santa Sede, che meritano di essere messe in luce rispettando i testi promulgati e risalendo, per quanto possibile, alla vera “mens” del legislatore. Un clima difficile, tentato dalla nostalgia di un "episcopalismo conciliarista", a volte aprioristicamente ostile al Pontefice, dal 2005 circa ha ingenerato contrapposizioni piuttosto aspre a proposito della liturgia romana. Questo clima di controversia ha senza dubbio indotto l’autorità ecclesiastica a prendere decisioni con prudenza ed ad utilizzare un linguaggio giuridico "sfumato". E’ così che la dicitura di “extraordinaria expressio della lex orandi della Chiesa" (Summorum Pontificum, art. 1) ha ingenerato nello stesso documento l'appellativo di "forma straordinaria" o "uso straordinario" per la liturgia gregoriana. L’aggettivo “straordinario/ordinario” si riferisce soprattutto ad una realtà pastorale, alla proporzione dell'uso dell'una o dell'altra forma nelle parrocchie e all'accessibiità ristretta, di fatto, per tutti i fedeli del messale tradizionale. Il Sommo Pontefice usa il termine in relazione ad una constatazione di fatto e non ad un giudizio di merito. Come lo ha dichiarato il Papa Giovanni Paolo II il 27 settembre 2001, e secondo il testo Summorum Pontificum, il rito antico, che è quello della Chiesa da secoli, deve al contrario essere considerato come "l'essenza della liturgia". Una volta dissipati questi malintesi terminologici, l'obiezione sopra sollevata merita di essere presa su serio. L'abbé Héry ritorna in questa sede sull'uso esclusivo in seno al Buon Pastore del messale del 1962, stavolta sotto un aspetto strettamente giuridico, dimostrando come questa specificità sia pienamente riconosciuta dal diritto positivo della Chiesa, contrariamente a quanto troppo spesso affermato.
nel diritto della Chiesa
Codice di diritto canonico, Can. 577.
« Denique membris huius Instituti [a Bono pastore] ius confert Sacram celebrandi Liturgiam, et quidem ut eorum ritum proprium, utendo libris liturgicis […]anno 1962 vigentibus […] »
(Decreto d’erezione dell’Istituto de Buon Pastore, 8 sett. 2006)
I- Una specificità ricevuta dalla Chiesa, per servirla
Il Codice insiste su questa “specificità” propria degli istituti, sottomessi alla Santa Sede “in quanto dediti in modo speciale al servizio di Dio e di tutta la Chiesa” (Can. 590 §1). Altrimenti detto la singolarità stessa di ogni istituto, approvata dalla suprema autorità, è un dono ricevuto dalla Chiesa; questa specificità è qui riconosciuta come servizio utile e buono, non solamente per i membri della comunità, ma per il bene della Chiesa tutta e per la sua unità. Quest’ultima unisce i carismi che essa suscita preservandone la specificità.
Il termine « carattere proprio » appare per esempio nel canone canone 394 §1, nella parte che tratta del governo dei Vescovi : “Il Vescovo favorisca nella diocesi le diverse forme dell’apostolato e curi che in tutta la diocesi […] tutte le opere d’apostolato, mentre conservano l’indole propria di ciascuna (servata propria indole), siano coordinate sotto la sua direzione[2].”
Ecco posta dal Codice questa nozione nel suo vivo contesto. Il canone 680 suona allo stesso modo: il Vescovo è tenuto al rispetto del “carattere e del fine di ogni singolo istituto”. Altri canoni parlano parimenti della “vocazione propria e identità di ogni istituto”, che bisogna accuratamente “proteggere con più grande fedeltà” (Can 587 §1).
Il diritto vigente obbliga dunque esplicitamente tutti e ciascuno, ivi compresi gli ordinari, a non negare né disprezzare questa identità o carattere proprio ad ogni opera (società di vita, o confraternita apostolica, etc.), ma al contrario a rispettarlo, meglio ancora a proteggerlo, al tempo stesso favorendo l’armonia dei carismi.
Questa fedeltà al carattere proprio di un’opera approvata impegna non soltanto i propri membri, ma anche tutta la Chiesa, che deve vigilare alla propria crescita armoniosa:
“Spetta alla competente autorità della Chiesa […] vigilare, da parte sua, a che gli istituti crescano e si sviluppino secondo lo spirito dei fondatori e le sane tradizioni” (Can. 576).
II- Il carattere proprio nelle costituzioni e nel pensiero dei fondatori
Come si definisce giuridicamente questo carattere proprio ? In maniera molto naturale, attraverso:
“Il pensiero e i progetti dei fondatori, che l’autorità ecclesiastica competente ha riconosciuto circa la natura, lo scopo, lo spirito e il carattere dell’istituto, nonché le sue sane tradizioni, cose tutte che costituiscono il patrimonio dell’istituto [e ] devono essere da tutti fedelmente custodite” (Can. 578).
Tra le comunità nuove, la Commissione Ecclesia Dei raggruppa quelle il cui carisma principale è quello d’aver optato, a volte veramente controcorrente, in favore della liturgia tradizionale – o “forma straordinaria” del rito romano. Come lo dichiarò nella parrocchia di Saint –Eloi di Bordeaux il Cardinal Hoyos nel settembre 2007, questi istituti sono sotto tutti gli aspetti “specializzati” riguardo la vita liturgica secondo i libri del 1962, al servizio dei fedeli e in seno alle diocesi. Questa scelta liturgica determina quindi l’identità comune a queste comunità, pur distinguendosi ciascuna di esse dalle altre. Così appartenente al “genere” di comunità Ecclesia Dei, l’Istituto del Buon Pastore si distingue per una differenza specifica che non può essere omessa.
E’ anzitutto nel decreto d’erezione, nelle costituzioni, quindi attraverso la storia della fondazione, che si trova la traccia, ossia la definizione del carattere proprio. In particolare, la specificità liturgica e pastorale dell’IBP è nota, definita nei suoi testi fondatori:
“Il rito proprio dell’Istituto [del Buon Pastore], in tutti i suoi atti liturgici, è il rito romano tradizionale, contenuto nei quattro libri liturgici in vigore nel 1962, e cioè il pontificale, il messale, il breviario e il rituale romano” (Statuti dell’IBP, a1 § 2).
Quest’uso liturgico, che costituisce un vero diritto proprio (anteriore in questo caso al diritto generale promulgato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007), viene precisato per l’IBP e per ciascuno dei suoi membri da un potere di celebrare questa liturgia “come il loro rito proprio”, secondo i termini esatti del decreto d’erezione, redatto e sottoscritto dalla Santa Sede l’8 settembre 2006.
L’espressione « come il loro rito proprio » del decreto d’erezione, che condensa l’intenzione della Santa Sede, riveste tutta la forza dell’analogia giuridica. In effetti, un prete cattolico di rito greco, siriaco o maronita non è abilitato a celebrare in altro modo che secondo il rito proprio, dovunque si trovi. Di fatto il Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, posteriore agli statuti dell’IBP, impiega la terminologia nuova di “forma straordinaria” del rito romano”, per designare l’impiego del messale 1962. Poiché non si tratta di un rito distinto in senso stretto, ma semplicemente di una forma del rito romano, bisogna dunque interpretare qui il §2 degli statuti dell’IBP nel senso di un uso proprio e non opzionale: secondo i termini del decreto d’erezione, quest’uso conferisce un “diritto” proprio e obbliga i membri dell’IBP, “come loro rito proprio”.
E’ per questo che il secondo articolo degli statuti approvati dall’autorità suprema precisa ulteriormente, trattando della finalità dell’IBP, che quest’ultima suppone:
« una fedeltà verso il Magistero infallibile della Chiesa e l’uso esclusivo della liturgia gregoriana [Libri liturgici del 1962] nella degna celebrazione dei Santi Misteri » (Statuti dell’IBP, a2 §2).
Secondo la stessa analogia giuridica, si osserverà che il diritto proprio che regge l’IBP per l’insieme dei sacramenti, segue parimenti i termini del canone 846 §2 : “Il ministro celebrerà i sacramenti secondo il suo proprio rito” . Non ci sono eccezioni previste per questo uso. Lo stesso decreto d’erezione conferisce ai membri dell’IBP un diritto equivalente a quello di un rito proprio, che si estende al rituale dei sacramenti e al pontificale del 1962.
Il carisma proprio dell’IBP include dunque il diritto dell’uso della forma tradizionale del rito romano, detto « straordinario », e la riscoperta di questo patrimonio liturgico gregoriano, proposta al servizio delle parrocchie, delle scuole, etc., senza commistioni né giustapposizioni delle due forme (per i membri dell’Istituto). Ciò non impedisce che un prete dell’IBP possa ricevere la missione di celebrare secondo la forma straordinaria in una chiesa nella quale è celebrata anche l’altra forma.
Il codice insiste d’altronde sull’impegno e la fedeltà dei membri a seguire il « diritto proprio » del loro istituto:
“Allo stesso modo, tutti i membri devono non soltanto osservare fedelmente e integralmente i consigli evangelici, ma anche vivere secondo il diritto proprio dell’istituto, e in tal modo tendere alla perfezione del proprio stato.”(Can. 598 § 2).
E’ ben evidente che la fedeltà dei membri dell’IBP a questo “diritto proprio” include le norme liturgiche proprie indicate nel Decreto e le Costituzioni dell’Istituto. In effetti, secondo il seguito immediato dell’articolo 2 degli statuti sopra citati, la celebrazione liturgica è direttamente legata alla santificazione e alla perfezione del loro stato:
“I suoi membri attingeranno nella celebrazione quotidiana della Santa Messa per i membri preti (o nell’assistenza a quest’ultima per i suoi membri non preti) l’efficacia inestinguibile e sempre rinnovata del loro ministero esteriore. I sacerdoti, ricordando ogni giorno il privilegio unico della loro conformità a Nostro Signore Gesù Cristo nella celebrazione del Santo Sacrificio, vivranno essi stessi di questo prezioso tesoro” (Statuti dell’IBP, a1 §2).
Il carattere proprio dell’IBP, fondato sull’uso liturgico tradizionale, non è dunque una finzione, né un’opzione, né una nozione canonicamente fluida ; esso conferisce secondo il codice un vero diritto proprio, che comporta come contropartita l’obbligo di rispettare questo diritto approvato dall’autorità suprema attraverso il Decreto, gli Statuti, le Costituzioni e le “sane tradizioni” dell’opera, in armonia col diritto generale della Chiesa.
III- La specificità liturgica del Buon Pastore e il Motu Proprio di SS Benedetto XVI, Summorum Pontificum
Tuttavia si pone concretamente una serie di questioni, spesso sollevate in merito all’IBP. Questo diritto proprio sarebbe riservato all’uso interno, nelle case dell’Istituto, oppure è esteso ad ogni luogo (cappella parrocchia…) nel quale questi preti sono chiamati per un missione pastorale? La questione è pertinente.
In effetti in un contesto ecclesiale marcato da vive ferite, l’interpretazione del carattere proprio dell’IBP solleva a volte delle difficoltà. Paradossalmente, succede che sia contrapposta a questa specificità statutaria una lettura sfavorevole del nuovo diritto stabilito il 7 luglio 2007 dal Motu proprio Summorum Pontificorum di Benedetto XVI. Questo testo di legge, promulgato in favore della liturgia tradizionale, non potrebbe tuttavia essere invocato come se minimizzasse o restringesse il diritto statutario dell’IBP, o di altre comunità che rilevano dalla Commissione Ecclesia Dei. E ciò perché il Motu proprio del 2007, anzitutto abroga esplicitamente il precedente del 1988, e d’altronde non contraddice in nulla il diritto generale della Chiesa ( per esempio il canone 394 §2 sopra citato e sempre in vigore). Esso conferma e garantisce il carattere proprio e il diritto proprio dell’IBP: quello di celebrare unicamente secondo l’ordo del 1962, come un rito proprio per i suoi membri in qualsiasi luogo, come l’abbiamo dimostrato poc’anzi in risposta alle due domande ricorrenti.
1-Il Motu Proprio del 7 luglio 2007 conferma questo diritto proprio dell’IBP
Prima questione : l’uguaglianza di diritto positivo delle forme liturgiche (ordinaria e straordinaria), posta dal Motu Proprio di Benedetto XVI, è compatibile con gli statuti dell’IBP, visto che quest’ultimi, a dire di alcuni, sembrerebbero « proibire » ai suoi membri la celebrazione nella forma ordinaria ?
Anzitutto, è evidente che in nessun luogo negli statuti dell’istituto né nel suo decreto d’erezione, né nei testi di impegno, vi figura il minimo accenno all’uguaglianza del diritto positivo delle due forme del rito romano, né sulla liceità della liturgia di Paolo VI, tantomeno sulla santità oggettiva (la consacrazione valida) – tutti elementi evidentemente riconosciuti dai membri fondatori dell’IBP.
Ma soprattutto, dove sta scritto nel Motu proprio del 2007 che ci sia l’eventualità di obbligare qualcuno a celebrare (a fortiori a concelebrare) secondo l’ordo di Paolo VI ? E’ giustamente l’inverso ciò che è posto: questo documento legislativo ha tolto l’obbligo generale che pesava dal 1969\70 (salvo deroga ristretta a partire dal 1984), di celebrare esclusivamente secondo la forma ordinaria del rito. Esso da il diritto ad ogni prete di preferire – e di sceglier in coscienza – la celebrazione del messale del 1962 senza essere costretto, in funzione delle diverse situazioni canoniche (prete diocesano, religioso, o membro di un istituto). Questo è il principio generale del diritto promulgato da questo testo.
Bisogna dunque rispondere che ciascuno dei membri dell’IBP ha scelto gli statuti, il diritto e il carattere proprio dell’IBP, approvati dalla Santa Sede, con scelta libera e personale della sola forma straordinaria del rito di cui il Motu proprio riconosce il pieno diritto. Questo carattere proprio dell’IBP, approvato dalla Santa Sede, attraverso una scelta libera e personale della sola forma straordinaria del rito, di cui il Motu proprio riconosce il pieno diritto. Questo carattere proprio non è un “interdetto”, ma un impegno e una garanzia che questo diritto posto dalla Santa Sede possa essere protetto e rispettato da tutti, nel quadro di un istituto di vita apostolica previsto e codificato dal diritto generale della Chiesa (DC canoni 394 §1, 576-578, 587, 598, 680, 776).
2- Il diritto di scegliere in pratica la sola forma liturgica tradizionale
Una seconda questione sull’identità propria del Buon Pastore, pertanto dovutamente legittimata dall’autorità suprema, si pone in questi termini : chi celebra in pratica solamente la Messa tradizionale non potrebbe essere sospetto d’escluder “per principio” l’ordo di Paolo VI?
Se ci si riferisce in effetti alla lettera ai Vescovi, commento che accompagna il testo della legge di Benedetto XVI del 7 luglio 2007, il Papa vi precisa che non bisognerebbe “nemmeno, per principio, escludere la celebrazione secondo i nuovi libri. L’esclusione totale del nuovo rito non sarebbe coerente con il riconoscimento del suo valore e della sua santità”; nessuno può, in effetti contestare la liceità della liturgia che il Santo Padre designa qui con l’espressione di “nuovo rito” (questa lettera allegata al Motu proprio non è un testo giuridico), né mettere in causa “per principio” la sua validità sacramentale, o ancora condannare i preti che la celebrano, o separarsi da essi e dai loro fedeli… Sarebbe peccare contro l’unità della Chiesa. Ma è possibile allegare, contro il carattere proprio dell’IBP, questa lettera del Papa ai Vescovi abusivamente trasformata in “legge dei sospetti”? Assolutamente no.
Da una parte, l’IBP non ha mai messo in causa questi punti di “principio” sopra enumerati e si è al contrario impegnato a riconoscerli; d’altra parte, l’associazione d’idee è in sé non pertinente. In effetti, questo termine “esclusione totale” impiegato da Benedetto XVI nel commentario (e non nel testo del Motu proprio, che solo ha forza di legge), non si riferisce alla pratica anche esclusiva dell’una o l’altra forma, ma precisamente ad un’esclusione di “principio” dell’una o dell’altra, cioè per delle ragioni che metterebbero in causa la validità o santità oggettiva del “nuovo rito”. Nella pratica invece il Motu proprio stesso stabilisce un pieno diritto, quanto alla scelta in coscienza, esclusiva o meno, della forma liturgica.
Come lo sottolineava Jean Madiran (Présent,14/07/2007), nulla indica, nelle norme obbligatorie del Motu proprio, che solo ha forza di legge, un legame canonico tra il fatto di celebrare esclusivamente una dalle due forme (cosa che non proibisce in alcun modo), e il sospetto di rifiutare “per principio”, come si è visto in precedenza. Questo Motu proprio, così importante per l’unità della Chiesa e per la sua liturgia, ha reso facoltativa per principio la celebrazione nella forma ordinaria.
D’altronde, coloro che adducendo questo argomento ostile verso il “Buon Pastore” non si rendono conto che esso può ritorcersi contro di loro : non celebrando mai nella pratica la forma tradizionale del 1962, ci si esporrebbe al sospetto di rifiuto della sua liceità, del suo valore e della sua santità che ormai gli sono pienamente riconosciuti da Benedetto XVI? O ancora al sospetto di “considera(re) come nefasto” “ciò che era sacro per le generazioni precedenti”, secondo l’avvertimento di Benedetto XVI nella citata lettera ai Vescovi?.... Evidentemente, tutto ciò è privo di senso. Il Motu proprio toglie di mezzo un interdetto vecchio di 37 anni: non è certo per ristabilire un obbligo, né una legge del sospetto, ma per restituire una facoltà e anche un diritto.
Resta il campo pratico. Esso può fondarsi sulla famosa domanda dei fedeli costituiti in « gruppo stabile » (Sum. Pont. a5) ; ma questa condizione, del tutto sufficiente per dar loro un diritto e purtroppo ancora troppo poco rispettata, non è assolutamente posta dal Motu proprio come una condizione necessaria.
Esiste un largo margine facoltativo lasciato ai parroci per proporre la forma straordinaria, senza che si debba necessariamente organizzare una domanda di gruppo da parte dei fedeli. Per esempio, il Motu proprio non vieta ad un parroco di proporre la forma straordinaria ai suoi fedeli, a titolo di riscoperta, nel rispetto dell’uguaglianza di diritto positivo delle forme liturgiche e dell’armonia pastorale – anche senza che un “gruppo stabile” numeroso si organizzi spontaneamente per farne la domanda. Molti lo fanno già con successo, quando l’ordinario non li imbriglia. Non c’è bisogno di essere laureati in economia per sapere che è spesso l’offerta che crea la domanda…
3- Un lavoro di studio comparativo sulla forma ordinaria, in vista di una riforma, è legittimo ?
Quanto all’idea di riformare la forma ordinaria dei riti, l’opera recente di Mons. Nicola Bux[3], vicino al Papa, ne offre l’illustrazione. E’ in virtù di un miglioramento pastorale, nonché di una rettificazione sul piano dell’espressione liturgica del Mistero della fede, che questa idea di una discussione riformista progredisce tra i collaboratori del Santo Padre, come è apparso nella la mozione del sinodo del novembre 2005. Va da sé che una tale discussione teologica comparativa, ai fini di mettere in evidenza i possibili miglioramenti dell’attuale forma dell’ordo di Paolo VI, non è sospetta di una volontà prossima di “esclusione totale” e “per principio” della forma ordinaria del rito, anche se essa deve giungere alla sostituzione con un’altra forma: la Santa Sede stessa lo auspica. Del resto, un tale dibattito teologico che rispetta la fede, il Santo Padre e la Tradizione, è evidentemente libero e legittimo.
Proprio come riguardo al Vaticano II, questa discussione costruttiva sulla liturgia di Paolo VI e la sua possibile riforma, d’ordine pastorale, storico o teologico, è dunque aperta e ormai ammessa. Nel rispetto dell’uguaglianza del diritto positivo delle due forme e nella sottomissione al Santo Padre, il dibattito fondamentale (senza vane polemiche) sulla forma ordinaria è rivestito di un’intera legittimità.
D’altronde tutti ricordano che il cardinal Ricard, all’epoca presidente della Conferenza episcopale francese, pubblicava contemporaneamente al decreto d’erezione della parrocchia personale Saint-Eloi a Bordeaux, determinata dall’uso liturgico tradizionale, una lettera che presentava “il senso e la portata”. Egli citava un documento, importante per la definizione del carattere proprio dell’IBP : l’atto d’adesione solenne dei membri fondatori:
«In occasione della creazione a Roma dell’Istituto del Buon Pastore, l’8 settembre scorso, i preti di questo istituto hanno dichiarato di « accettare la dottrina, contenuta nel n. 25 della Costituzione dogmatica « Lumen Gentium » del Concilio Vaticano II sul Magistero della Chiesa e l’adesione che gli è dovuta. » Essi hanno accettato di precisare : “A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o concernenti le riforme posteriori della liturgia e del diritto, e che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, noi ci impegniamo ad avere un’attitudine positiva di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica.” (Atto d’adesione). E’ dunque possibile, nella fedeltà all’attuale Magistero, poter parlare coi membri dell’Istituto e con i fedeli che li raggiungono, dei differenti punti che secondo loro sollevano delle difficoltà nel Concilio Vaticano II (ma anche nella liturgia). La verità della comunione è a questo prezzo. (Cardinal J.-P. Ricard, 2 febbraio 2007).
Si tratta in questo caso per l’IBP di un atto d’adesione che concerne tanto la messa che il concilio. La “verità della comunione”, che è “a questo prezzo”, non soltanto non esclude la legittimità di uno studio positivo (pastorale, storico, teologico…), ma lo richiede, poiché va a toccare nel nuovo rito i punti e gli orientamenti suscettibili di una riforma (come ad esempio l’offertorio, l’orientazione dell’altare, etc.). Si tratta di un impegno preso dall’IBP. Quest’impegno fondatore fa anche parte del suo carattere proprio, che deve canonicamente essere rispettato da tutti.
Conclusione
Il carattere proprio dell’IBP, istituto liturgicamente « specializzato » insieme ad altri, non si limita evidentemente alla difesa del diritto liturgico, ma è fondato su di essa : animare le parrocchie, le scuole, le opere apostoliche, dottrinali o culturali, etc., nello spirito di Cristo Buon Pastore, e nell’uso proprio ed esclusivo del rito romano, secondo la forma straordinaria.
Comunque si voglia, la pace, l’armonia e la carità non possono fiorire che nel mutuo e sincero rispetto, non soltanto delle sensibilità, ma anche del diritto liturgico. Se dunque un ordinario aspira a far ricorso ad un prete dell’IBP per un apostolato parrocchiale o altro, è di riflesso invitato a dargli una missione nell’idea di “favorire le diverse forme d’apostolato”, e “di vigilare, da parte sua, a che gli istituti crescano e fioriscano secondo lo spirito dei fondatori e le sane tradizioni” (Can. 576)
L’esempio di Bordeaux dove si trova la casa madre dell’IBP è raro e significativo (così come quello di Chartres che ospita il seminario dell’IBP). Non si può che salutare felicemente l’applicazione esemplare fatta in questa diocesi della legge della Chiesa, che invita i Vescovi a “favorire [..] le diverse forme d’apostolato nella diocesi, e vigilare […] alfine che tutte le opere d’apostolato siano coordinate sotto la sua direzione, rispettando il carattere proprio di ciascuna di esse”(Canone 394 §1 già citato). I preti dell’Istituto hanno lo stesso impegno nei confronti di tutti, di rispettare questo carattere proprio dell’IBP, così manifestamente fruttuoso nel quadro della Casa Madre, la parrocchia di Saint-Eloi.
[1] Roger Paralieu, Guide pratique du Code de Droit canonique, Tardy, 1985, p. 201.
[2] Canon 394 §1, DC 1983, éd. Centurion-cerf-Tardy, p. 71.
[3] Nicolas Bux, La Réforme de Benoît XVI. La liturgie entre innovation et tradition, préf. Mgr Marc Aillet, éd. Tempora, 2009. L’auteur s’exprime clairement : « La réforme consiste à retirer ce qui ne convient pas, afin que la noblesse de la forme apparaisse, et que resplendisse ainsi le visage de l’Église et, avec elle, le visage du Christ. »