11 dicembre 2009

La celebrazione esclusiva della Messa tradizionale è possibile? - Intervento dell'Abbé Hery


Nel quadro della disputatio theologica, è stata sollevata la seguente obiezione riguardo all’articolo-intervista dell’Abbé Héry:

“Ritengo estremamente interessante e stimolante la posizione dell'Abbé Héry sull'ermeneutica del Vaticano II, ma anche sull’esclusività del rito tradizionale (che segnala di sfuggita come un diritto dell'IBP). Tuttavia debbo farvi parte dei miei dubbi (…). A norma del diritto mi sembra che si sia obbligati ad accettare il nuovo rito e si è dunque obbligati a celebrarlo o concelebrarlo. Il Motu proprio sembra dire che chi celebra la “forma straordinaria” (anche se questa definizione mi pare inadatta per il “rito gregoriano”) non può escludere la celebrazione secondo il novus ordo. Questa è la risposta regolare che viene data a noi sacerdoti quando solleviamo la questione (…) e, benché non la condivida, mi pare giuridicamente fondata. Vorrei capire meglio il punto di vista del “Buon Pastore” secondo un approccio squisitamente giuridico, in riferimento al diritto generale della Chiesa (…)”

Bisogna convenire che ultimamente alcune interpretazioni del Motu proprio sono, non solo semplificatrici, ma anche contrarie alla lettera del testo - alcune sono quasi rispettose poichè non rispettano
le scelte della Santa Sede, che meritano di essere messe in luce rispettando i testi promulgati e risalendo, per quanto possibile, alla vera “mens” del legislatore. Un clima difficile, tentato dalla nostalgia di un "episcopalismo conciliarista", a volte aprioristicamente ostile al Pontefice, dal 2005 circa ha ingenerato contrapposizioni piuttosto aspre a proposito della liturgia romana. Questo clima di controversia ha senza dubbio indotto l’autorità ecclesiastica a prendere decisioni con prudenza ed ad utilizzare un linguaggio giuridico "sfumato". E’ così che la dicitura di “extraordinaria expressio della lex orandi della Chiesa" (Summorum Pontificum, art. 1) ha ingenerato nello stesso documento l'appellativo di "forma straordinaria" o "uso straordinario" per la liturgia gregoriana. L’aggettivo “straordinario/ordinario” si riferisce soprattutto ad una realtà pastorale, alla proporzione dell'uso dell'una o dell'altra forma nelle parrocchie e all'accessibiità ristretta, di fatto, per tutti i fedeli del messale tradizionale. Il Sommo Pontefice usa il termine in relazione ad una constatazione di fatto e non ad un giudizio di merito. Come lo ha dichiarato il Papa Giovanni Paolo II il 27 settembre 2001, e secondo il testo Summorum Pontificum, il rito antico, che è quello della Chiesa da secoli, deve al contrario essere considerato come "l'essenza della liturgia". Una volta dissipati questi malintesi terminologici, l'obiezione sopra sollevata merita di essere presa su serio. L'abbé Héry ritorna in questa sede sull'uso esclusivo in seno al Buon Pastore del messale del 1962, stavolta sotto un aspetto strettamente giuridico, dimostrando come questa specificità sia pienamente riconosciuta dal diritto positivo della Chiesa, contrariamente a quanto troppo spesso affermato.






Il carisma liturgico dell’Istituto del Buon Pastore
nel diritto della Chiesa



« Nella Chiesa sono molti gli istituti di vita consacrata che hanno differenti doni secondo la grazia che è stata loro concessa ».
Codice di diritto canonico, Can. 577.

« Denique membris huius Instituti [a Bono pastore] ius confert Sacram celebrandi Liturgiam, et quidem ut eorum ritum proprium, utendo libris liturgicis […]anno 1962 vigentibus […] »
(Decreto d’erezione dell’Istituto de Buon Pastore, 8 sett. 2006)



Si parla correntemente di « carisma » di una comunità. Tuttavia il termine “carattere proprio”, applicato ad ogni opera apostolica (come ad esempio un istituto di vita apostolica del tipo dell’IBP), è il termine giuridico appropriato usato dal Codice di Diritto canonico. Secondo il giurista Roger Paralieu, benché il vocabolo “carisma” non sia stato adottato dal Codice, “la realtà del carisma paolino è ben presente: si tratta di un dono fatto ad alcuni per il servizio di tutti”[1].


I- Una specificità ricevuta dalla Chiesa, per servirla

Il Codice insiste su questa “specificità” propria degli istituti, sottomessi alla Santa Sede “in quanto dediti in modo speciale al servizio di Dio e di tutta la Chiesa” (Can. 590 §1). Altrimenti detto la singolarità stessa di ogni istituto, approvata dalla suprema autorità, è un dono ricevuto dalla Chiesa; questa specificità è qui riconosciuta come servizio utile e buono, non solamente per i membri della comunità, ma per il bene della Chiesa tutta e per la sua unità. Quest’ultima unisce i carismi che essa suscita preservandone la specificità.
Il termine « carattere proprio » appare per esempio nel canone canone 394 §1, nella parte che tratta del governo dei Vescovi : “Il Vescovo favorisca nella diocesi le diverse forme dell’apostolato e curi che in tutta la diocesi […] tutte le opere d’apostolato, mentre conservano l’indole propria di ciascuna (servata propria indole), siano coordinate sotto la sua direzione
[2].”
Ecco posta dal Codice questa nozione nel suo vivo contesto. Il canone 680 suona allo stesso modo: il Vescovo è tenuto al rispetto del “carattere e del fine di ogni singolo istituto”. Altri canoni parlano parimenti della “vocazione propria e identità di ogni istituto”, che bisogna accuratamente “proteggere con più grande fedeltà” (Can 587 §1).
Il diritto vigente obbliga dunque esplicitamente tutti e ciascuno, ivi compresi gli ordinari, a non negare né disprezzare questa identità o carattere proprio ad ogni opera (società di vita, o confraternita apostolica, etc.), ma al contrario a rispettarlo, meglio ancora a proteggerlo, al tempo stesso favorendo l’armonia dei carismi.
Questa fedeltà al carattere proprio di un’opera approvata impegna non soltanto i propri membri, ma anche tutta la Chiesa, che deve vigilare alla propria crescita armoniosa:

“Spetta alla competente autorità della Chiesa […] vigilare, da parte sua, a che gli istituti crescano e si sviluppino secondo lo spirito dei fondatori e le sane tradizioni” (Can. 576).


II- Il carattere proprio nelle costituzioni e nel pensiero dei fondatori

Come si definisce giuridicamente questo carattere proprio ? In maniera molto naturale, attraverso:

“Il pensiero e i progetti dei fondatori, che l’autorità ecclesiastica competente ha riconosciuto circa la natura, lo scopo, lo spirito e il carattere dell’istituto, nonché le sue sane tradizioni, cose tutte che costituiscono il patrimonio dell’istituto [e ] devono essere da tutti fedelmente custodite” (Can. 578).

Tra le comunità nuove, la Commissione Ecclesia Dei raggruppa quelle il cui carisma principale è quello d’aver optato, a volte veramente controcorrente, in favore della liturgia tradizionale – o “forma straordinaria” del rito romano. Come lo dichiarò nella parrocchia di Saint –Eloi di Bordeaux il Cardinal Hoyos nel settembre 2007, questi istituti sono sotto tutti gli aspetti “specializzati” riguardo la vita liturgica secondo i libri del 1962, al servizio dei fedeli e in seno alle diocesi. Questa scelta liturgica determina quindi l’identità comune a queste comunità, pur distinguendosi ciascuna di esse dalle altre. Così appartenente al “genere” di comunità Ecclesia Dei, l’Istituto del Buon Pastore si distingue per una differenza specifica che non può essere omessa.
E’ anzitutto nel decreto d’erezione, nelle costituzioni, quindi attraverso la storia della fondazione, che si trova la traccia, ossia la definizione del carattere proprio. In particolare, la specificità liturgica e pastorale dell’IBP è nota, definita nei suoi testi fondatori:
“Il rito proprio dell’Istituto [del Buon Pastore], in tutti i suoi atti liturgici, è il rito romano tradizionale, contenuto nei quattro libri liturgici in vigore nel 1962, e cioè il pontificale, il messale, il breviario e il rituale romano” (Statuti dell’IBP, a1 § 2).

Quest’uso liturgico, che costituisce un vero diritto proprio (anteriore in questo caso al diritto generale promulgato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007), viene precisato per l’IBP e per ciascuno dei suoi membri da un potere di celebrare questa liturgia “come il loro rito proprio”, secondo i termini esatti del decreto d’erezione, redatto e sottoscritto dalla Santa Sede l’8 settembre 2006.
L’espressione « come il loro rito proprio » del decreto d’erezione, che condensa l’intenzione della Santa Sede, riveste tutta la forza dell’analogia giuridica. In effetti, un prete cattolico di rito greco, siriaco o maronita non è abilitato a celebrare in altro modo che secondo il rito proprio, dovunque si trovi. Di fatto il Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, posteriore agli statuti dell’IBP, impiega la terminologia nuova di “forma straordinaria” del rito romano”, per designare l’impiego del messale 1962. Poiché non si tratta di un rito distinto in senso stretto, ma semplicemente di una forma del rito romano, bisogna dunque interpretare qui il §2 degli statuti dell’IBP nel senso di un uso proprio e non opzionale: secondo i termini del decreto d’erezione, quest’uso conferisce un “diritto” proprio e obbliga i membri dell’IBP, “come loro rito proprio”.
E’ per questo che il secondo articolo degli statuti approvati dall’autorità suprema precisa ulteriormente, trattando della finalità dell’IBP, che quest’ultima suppone:
« una fedeltà verso il Magistero infallibile della Chiesa e l’uso esclusivo della liturgia gregoriana [Libri liturgici del 1962] nella degna celebrazione dei Santi Misteri » (Statuti dell’IBP, a2 §2).

Secondo la stessa analogia giuridica, si osserverà che il diritto proprio che regge l’IBP per l’insieme dei sacramenti, segue parimenti i termini del canone 846 §2 : “Il ministro celebrerà i sacramenti secondo il suo proprio rito” . Non ci sono eccezioni previste per questo uso. Lo stesso decreto d’erezione conferisce ai membri dell’IBP un diritto equivalente a quello di un rito proprio, che si estende al rituale dei sacramenti e al pontificale del 1962.
Il carisma proprio dell’IBP include dunque il diritto dell’uso della forma tradizionale del rito romano, detto « straordinario », e la riscoperta di questo patrimonio liturgico gregoriano, proposta al servizio delle parrocchie, delle scuole, etc., senza commistioni né giustapposizioni delle due forme (per i membri dell’Istituto). Ciò non impedisce che un prete dell’IBP possa ricevere la missione di celebrare secondo la forma straordinaria in una chiesa nella quale è celebrata anche l’altra forma.

Il codice insiste d’altronde sull’impegno e la fedeltà dei membri a seguire il « diritto proprio » del loro istituto:

“Allo stesso modo, tutti i membri devono non soltanto osservare fedelmente e integralmente i consigli evangelici, ma anche vivere secondo il diritto proprio dell’istituto, e in tal modo tendere alla perfezione del proprio stato.”(Can. 598 § 2).

E’ ben evidente che la fedeltà dei membri dell’IBP a questo “diritto proprio” include le norme liturgiche proprie indicate nel Decreto e le Costituzioni dell’Istituto. In effetti, secondo il seguito immediato dell’articolo 2 degli statuti sopra citati, la celebrazione liturgica è direttamente legata alla santificazione e alla perfezione del loro stato:
“I suoi membri attingeranno nella celebrazione quotidiana della Santa Messa per i membri preti (o nell’assistenza a quest’ultima per i suoi membri non preti) l’efficacia inestinguibile e sempre rinnovata del loro ministero esteriore. I sacerdoti, ricordando ogni giorno il privilegio unico della loro conformità a Nostro Signore Gesù Cristo nella celebrazione del Santo Sacrificio, vivranno essi stessi di questo prezioso tesoro” (Statuti dell’IBP, a1 §2).

Il carattere proprio dell’IBP, fondato sull’uso liturgico tradizionale, non è dunque una finzione, né un’opzione, né una nozione canonicamente fluida ; esso conferisce secondo il codice un vero diritto proprio, che comporta come contropartita l’obbligo di rispettare questo diritto approvato dall’autorità suprema attraverso il Decreto, gli Statuti, le Costituzioni e le “sane tradizioni” dell’opera, in armonia col diritto generale della Chiesa.


III- La specificità liturgica del Buon Pastore e il Motu Proprio di SS Benedetto XVI, Summorum Pontificum



Tuttavia si pone concretamente una serie di questioni, spesso sollevate in merito all’IBP. Questo diritto proprio sarebbe riservato all’uso interno, nelle case dell’Istituto, oppure è esteso ad ogni luogo (cappella parrocchia…) nel quale questi preti sono chiamati per un missione pastorale? La questione è pertinente.
In effetti in un contesto ecclesiale marcato da vive ferite, l’interpretazione del carattere proprio dell’IBP solleva a volte delle difficoltà. Paradossalmente, succede che sia contrapposta a questa specificità statutaria una lettura sfavorevole del nuovo diritto stabilito il 7 luglio 2007 dal Motu proprio Summorum Pontificorum di Benedetto XVI. Questo testo di legge, promulgato in favore della liturgia tradizionale, non potrebbe tuttavia essere invocato come se minimizzasse o restringesse il diritto statutario dell’IBP, o di altre comunità che rilevano dalla Commissione Ecclesia Dei. E ciò perché il Motu proprio del 2007, anzitutto abroga esplicitamente il precedente del 1988, e d’altronde non contraddice in nulla il diritto generale della Chiesa ( per esempio il canone 394 §2 sopra citato e sempre in vigore). Esso conferma e garantisce il carattere proprio e il diritto proprio dell’IBP: quello di celebrare unicamente secondo l’ordo del 1962, come un rito proprio per i suoi membri in qualsiasi luogo, come l’abbiamo dimostrato poc’anzi in risposta alle due domande ricorrenti.



1-Il Motu Proprio del 7 luglio 2007 conferma questo diritto proprio dell’IBP

Prima questione : l’uguaglianza di diritto positivo delle forme liturgiche (ordinaria e straordinaria), posta dal Motu Proprio di Benedetto XVI, è compatibile con gli statuti dell’IBP, visto che quest’ultimi, a dire di alcuni, sembrerebbero « proibire » ai suoi membri la celebrazione nella forma ordinaria ?
Anzitutto, è evidente che in nessun luogo negli statuti dell’istituto né nel suo decreto d’erezione, né nei testi di impegno, vi figura il minimo accenno all’uguaglianza del diritto positivo delle due forme del rito romano, né sulla liceità della liturgia di Paolo VI, tantomeno sulla santità oggettiva (la consacrazione valida) – tutti elementi evidentemente riconosciuti dai membri fondatori dell’IBP.
Ma soprattutto, dove sta scritto nel Motu proprio del 2007 che ci sia l’eventualità di obbligare qualcuno a celebrare (a fortiori a concelebrare) secondo l’ordo di Paolo VI ? E’ giustamente l’inverso ciò che è posto: questo documento legislativo ha tolto l’obbligo generale che pesava dal 1969\70 (salvo deroga ristretta a partire dal 1984), di celebrare esclusivamente secondo la forma ordinaria del rito. Esso da il diritto ad ogni prete di preferire – e di sceglier in coscienza – la celebrazione del messale del 1962 senza essere costretto, in funzione delle diverse situazioni canoniche (prete diocesano, religioso, o membro di un istituto). Questo è il principio generale del diritto promulgato da questo testo.
Bisogna dunque rispondere che ciascuno dei membri dell’IBP ha scelto gli statuti, il diritto e il carattere proprio dell’IBP, approvati dalla Santa Sede, con scelta libera e personale della sola forma straordinaria del rito di cui il Motu proprio riconosce il pieno diritto. Questo carattere proprio dell’IBP, approvato dalla Santa Sede, attraverso una scelta libera e personale della sola forma straordinaria del rito, di cui il Motu proprio riconosce il pieno diritto. Questo carattere proprio non è un “interdetto”, ma un impegno e una garanzia che questo diritto posto dalla Santa Sede possa essere protetto e rispettato da tutti, nel quadro di un istituto di vita apostolica previsto e codificato dal diritto generale della Chiesa (DC canoni 394 §1, 576-578, 587, 598, 680, 776).

2- Il diritto di scegliere in pratica la sola forma liturgica tradizionale

Una seconda questione sull’identità propria del Buon Pastore, pertanto dovutamente legittimata dall’autorità suprema, si pone in questi termini : chi celebra in pratica solamente la Messa tradizionale non potrebbe essere sospetto d’escluder “per principio” l’ordo di Paolo VI?
Se ci si riferisce in effetti alla lettera ai Vescovi, commento che accompagna il testo della legge di Benedetto XVI del 7 luglio 2007, il Papa vi precisa che non bisognerebbe “nemmeno, per principio, escludere la celebrazione secondo i nuovi libri. L’esclusione totale del nuovo rito non sarebbe coerente con il riconoscimento del suo valore e della sua santità”; nessuno può, in effetti contestare la liceità della liturgia che il Santo Padre designa qui con l’espressione di “nuovo rito” (questa lettera allegata al Motu proprio non è un testo giuridico), né mettere in causa “per principio” la sua validità sacramentale, o ancora condannare i preti che la celebrano, o separarsi da essi e dai loro fedeli… Sarebbe peccare contro l’unità della Chiesa. Ma è possibile allegare, contro il carattere proprio dell’IBP, questa lettera del Papa ai Vescovi abusivamente trasformata in “legge dei sospetti”? Assolutamente no.
Da una parte, l’IBP non ha mai messo in causa questi punti di “principio” sopra enumerati e si è al contrario impegnato a riconoscerli; d’altra parte, l’associazione d’idee è in sé non pertinente. In effetti, questo termine “esclusione totale” impiegato da Benedetto XVI nel commentario (e non nel testo del Motu proprio, che solo ha forza di legge), non si riferisce alla pratica anche esclusiva dell’una o l’altra forma, ma precisamente ad un’esclusione di “principio” dell’una o dell’altra, cioè per delle ragioni che metterebbero in causa la validità o santità oggettiva del “nuovo rito”. Nella pratica invece il Motu proprio stesso stabilisce un pieno diritto, quanto alla scelta in coscienza, esclusiva o meno, della forma liturgica.
Come lo sottolineava Jean Madiran (Présent,14/07/2007), nulla indica, nelle norme obbligatorie del Motu proprio, che solo ha forza di legge, un legame canonico tra il fatto di celebrare esclusivamente una dalle due forme (cosa che non proibisce in alcun modo), e il sospetto di rifiutare “per principio”, come si è visto in precedenza. Questo Motu proprio, così importante per l’unità della Chiesa e per la sua liturgia, ha reso facoltativa per principio la celebrazione nella forma ordinaria.
D’altronde, coloro che adducendo questo argomento ostile verso il “Buon Pastore” non si rendono conto che esso può ritorcersi contro di loro : non celebrando mai nella pratica la forma tradizionale del 1962, ci si esporrebbe al sospetto di rifiuto della sua liceità, del suo valore e della sua santità che ormai gli sono pienamente riconosciuti da Benedetto XVI? O ancora al sospetto di “considera(re) come nefasto” “ciò che era sacro per le generazioni precedenti”, secondo l’avvertimento di Benedetto XVI nella citata lettera ai Vescovi?.... Evidentemente, tutto ciò è privo di senso. Il Motu proprio toglie di mezzo un interdetto vecchio di 37 anni: non è certo per ristabilire un obbligo, né una legge del sospetto, ma per restituire una facoltà e anche un diritto.
Resta il campo pratico. Esso può fondarsi sulla famosa domanda dei fedeli costituiti in « gruppo stabile » (Sum. Pont. a5) ; ma questa condizione, del tutto sufficiente per dar loro un diritto e purtroppo ancora troppo poco rispettata, non è assolutamente posta dal Motu proprio come una condizione necessaria.
Esiste un largo margine facoltativo lasciato ai parroci per proporre la forma straordinaria, senza che si debba necessariamente organizzare una domanda di gruppo da parte dei fedeli. Per esempio, il Motu proprio non vieta ad un parroco di proporre la forma straordinaria ai suoi fedeli, a titolo di riscoperta, nel rispetto dell’uguaglianza di diritto positivo delle forme liturgiche e dell’armonia pastorale – anche senza che un “gruppo stabile” numeroso si organizzi spontaneamente per farne la domanda. Molti lo fanno già con successo, quando l’ordinario non li imbriglia. Non c’è bisogno di essere laureati in economia per sapere che è spesso l’offerta che crea la domanda…






3- Un lavoro di studio comparativo sulla forma ordinaria, in vista di una riforma, è legittimo ?

Quanto all’idea di riformare la forma ordinaria dei riti, l’opera recente di Mons. Nicola Bux
[3], vicino al Papa, ne offre l’illustrazione. E’ in virtù di un miglioramento pastorale, nonché di una rettificazione sul piano dell’espressione liturgica del Mistero della fede, che questa idea di una discussione riformista progredisce tra i collaboratori del Santo Padre, come è apparso nella la mozione del sinodo del novembre 2005. Va da sé che una tale discussione teologica comparativa, ai fini di mettere in evidenza i possibili miglioramenti dell’attuale forma dell’ordo di Paolo VI, non è sospetta di una volontà prossima di “esclusione totale” e “per principio” della forma ordinaria del rito, anche se essa deve giungere alla sostituzione con un’altra forma: la Santa Sede stessa lo auspica. Del resto, un tale dibattito teologico che rispetta la fede, il Santo Padre e la Tradizione, è evidentemente libero e legittimo.

Proprio come riguardo al Vaticano II, questa discussione costruttiva sulla liturgia di Paolo VI e la sua possibile riforma, d’ordine pastorale, storico o teologico, è dunque aperta e ormai ammessa. Nel rispetto dell’uguaglianza del diritto positivo delle due forme e nella sottomissione al Santo Padre, il dibattito fondamentale (senza vane polemiche) sulla forma ordinaria è rivestito di un’intera legittimità.

D’altronde tutti ricordano che il cardinal Ricard, all’epoca presidente della Conferenza episcopale francese, pubblicava contemporaneamente al decreto d’erezione della parrocchia personale Saint-Eloi a Bordeaux, determinata dall’uso liturgico tradizionale, una lettera che presentava “il senso e la portata”. Egli citava un documento, importante per la definizione del carattere proprio dell’IBP : l’atto d’adesione solenne dei membri fondatori:

«In occasione della creazione a Roma dell’Istituto del Buon Pastore, l’8 settembre scorso, i preti di questo istituto hanno dichiarato di « accettare la dottrina, contenuta nel n. 25 della Costituzione dogmatica « Lumen Gentium » del Concilio Vaticano II sul Magistero della Chiesa e l’adesione che gli è dovuta. » Essi hanno accettato di precisare : “A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o concernenti le riforme posteriori della liturgia e del diritto, e che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, noi ci impegniamo ad avere un’attitudine positiva di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica.” (Atto d’adesione). E’ dunque possibile, nella fedeltà all’attuale Magistero, poter parlare coi membri dell’Istituto e con i fedeli che li raggiungono, dei differenti punti che secondo loro sollevano delle difficoltà nel Concilio Vaticano II (ma anche nella liturgia). La verità della comunione è a questo prezzo. (Cardinal J.-P. Ricard, 2 febbraio 2007).

Si tratta in questo caso per l’IBP di un atto d’adesione che concerne tanto la messa che il concilio. La “verità della comunione”, che è “a questo prezzo”, non soltanto non esclude la legittimità di uno studio positivo (pastorale, storico, teologico…), ma lo richiede, poiché va a toccare nel nuovo rito i punti e gli orientamenti suscettibili di una riforma (come ad esempio l’offertorio, l’orientazione dell’altare, etc.). Si tratta di un impegno preso dall’IBP. Quest’impegno fondatore fa anche parte del suo carattere proprio, che deve canonicamente essere rispettato da tutti.



Conclusione

Il carattere proprio dell’IBP, istituto liturgicamente « specializzato » insieme ad altri, non si limita evidentemente alla difesa del diritto liturgico, ma è fondato su di essa : animare le parrocchie, le scuole, le opere apostoliche, dottrinali o culturali, etc., nello spirito di Cristo Buon Pastore, e nell’uso proprio ed esclusivo del rito romano, secondo la forma straordinaria.
Comunque si voglia, la pace, l’armonia e la carità non possono fiorire che nel mutuo e sincero rispetto, non soltanto delle sensibilità, ma anche del diritto liturgico. Se dunque un ordinario aspira a far ricorso ad un prete dell’IBP per un apostolato parrocchiale o altro, è di riflesso invitato a dargli una missione nell’idea di “favorire le diverse forme d’apostolato”, e “di vigilare, da parte sua, a che gli istituti crescano e fioriscano secondo lo spirito dei fondatori e le sane tradizioni” (Can. 576)

L’esempio di Bordeaux dove si trova la casa madre dell’IBP è raro e significativo (così come quello di Chartres che ospita il seminario dell’IBP). Non si può che salutare felicemente l’applicazione esemplare fatta in questa diocesi della legge della Chiesa, che invita i Vescovi a “favorire [..] le diverse forme d’apostolato nella diocesi, e vigilare […] alfine che tutte le opere d’apostolato siano coordinate sotto la sua direzione, rispettando il carattere proprio di ciascuna di esse”(Canone 394 §1 già citato). I preti dell’Istituto hanno lo stesso impegno nei confronti di tutti, di rispettare questo carattere proprio dell’IBP, così manifestamente fruttuoso nel quadro della Casa Madre, la parrocchia di Saint-Eloi.



Abbé Christophe Héry




[1] Roger Paralieu, Guide pratique du Code de Droit canonique, Tardy, 1985, p. 201.
[2] Canon 394 §1, DC 1983, éd. Centurion-cerf-Tardy, p. 71.
[3] Nicolas Bux, La Réforme de Benoît XVI. La liturgie entre innovation et tradition, préf. Mgr Marc Aillet, éd. Tempora, 2009. L’auteur s’exprime clairement : « La réforme consiste à retirer ce qui ne convient pas, afin que la noblesse de la forme apparaisse, et que resplendisse ainsi le visage de l’Église et, avec elle, le visage du Christ. »

5 novembre 2009

L’efficacia della Messa anche senza comunione dei fedeli



Il problema delle derive odierne in campo liturgico ha spinto e spinge ad una ricerca più approfondita delle cause e delle possibili soluzioni a questo problema. La prima prospettiva non può essere che teologica e nella fattispecie teologico-sistematica; il problema liturgico che tanto inquieta oggi le autorità ecclesiastiche, il Santissimo in primis, ha, nelle sue visibili e talvolta esecrabili manifestazioni, una radice teologica. Alla base del contemporaneo smarrimento, ormai evidente per tutti, vi è forse un offuscamento della vera natura del sacrificio eucaristico, che, unitamente all’oblio delle dovute distinzioni teologiche, ha portato alla considerazione della Messa, in modo parziale, quando non apertamente erroneo. L’urgenza attuale è quella di riposizionare la questione dapprima nell’alveo della teologia cattolica e dell’infallibile Magistero, per poi volgersi alla risoluzione pratica dei problemi sollevati da questo quarantennio. L’analisi che segue vuole abbordare la questione relativa all’efficacia sacrificale della Messa, all’ “ex opere operato”, alla sua efficacia cultuale “per se”, anche indipendentemente dallo stato di grazia dei fedeli o dello stesso celebrante, ed indipendentemente dalla comunione sacramentale dei presenti. La luce di San Tommaso sarà, ancora una volta, faro dell’articolata e complessa questione, che deve oggi tornare al centro del dibattito. Come la nostra linea editoriale si prefigge, l’autore non si limita ad una fredda analisi speculativa, ma propone anche una via concreta di soluzione al problema; si rimane ancora una volta sulla scorta dell’Aquinate, il quale ricorda spesso quanto teologia dogmatica e morale, sapere speculativo e sapere pratico, non siano discipline nettamente separate, ma due modi permeabili di procedere nell’unità della teologia.






Sacrosanctum Concilium e
i frutti sacrificali della Messa
di Matthieu Raffray


Scopo e limiti del rinnovamento conciliare riguardo alla partecipazione eucaristica

La costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla liturgia è spesso presentata come una volontà di superare il formalismo eccessivo che caratterizzava la liturgia “post-tridentina”, a vantaggio di una partecipazione “più cosciente, attiva e fruttuosa”
[i] del Popolo de Dio al mistero che si realizza nei sacramenti, in particolare nel caso dell’Eucarestia. Uno dei principali redattori del testo, Mons. Ferdinando Antonelli, spiega che questa preoccupazione era lo scopo stesso del rinnovamento prospettato dal Concilio : "Lo scopo del rinnovamento liturgico, evocato nella Costituzione, è essenzialmente quello di condurre nuovamente i fedeli ad un partecipazione cosciente e attiva alla vita liturgica, in particolare alla messa che è il centro della liturgia”[ii].

Questo rinnovamento voleva in primo luogo prendere le distanze dalle lacune della liturgia dell’epoca tridentina : "La concezione che i Padri di Trento avevano della liturgia presenta certo elementi positivi, ma era ormai decisamente superata”, a causa della sua assenza di scientificità critica, a causa dell’importanza attribuita all’aspetto esteriore della cerimonie “a detrimento dell’anima della liturgia”, dell’ “attaccamento all’aspetto secondario del rito” o ancora a causa di una “vera cristallizzazione dei riti e delle rubriche, la qual cosa nuoce alla partecipazione dei fedeli, essendo contraria alla natura della liturgia”. Tutte queste cause avrebbero causato, secondo Antonelli, la clericizzazione della liturgia: “I fedeli sono dei semplici spettatori obbligati ad assistere senza comprendere e senza prendere parte a ciò che si svolge”[iii].

Nel caso della liturgia eucaristica, nello scopo di mettere in opera lo sperato rinnovamento, il testo conciliare raccomanda quindi con forza “questa perfetta partecipazione alla messa che consiste nel fatto che i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevano il corpo del Signore nello stesso sacrificio”[iv].

Sulla stessa scia, i Padri conciliari insistono sul valore comunitario della Messa e favoriscono le liturgie celebrate attorno alla comunità riunita, a detrimento della “messe private”[v].

Le riforme che hanno seguito il testo, più di quarantacinque anni dopo la promulgazione della Sacrosanctum Concilium, hanno dimostrato, nella loro applicazione concreta, un certo numero di limiti: è la constatazione che faceva lo stesso papa Giovanni Paolo II, mettendo in relazione nella sua ultima enciclica “la riforma liturgica del Concilio” e “una comprensione molto riduttiva del mistero eucaristico” : “non c’è dubbio che la riforma liturgica del Concilio ha prodotto dei grandi benefici di partecipazione più cosciente, più attiva e fruttuosa dei fedeli al santo Sacrificio dell’altare (…). Purtroppo le ombre non mancano. Ci sono in effetti dei luoghi nei quali si nota un abbandono quasi totale del culto dell’adorazione eucaristica. A questo si aggiungono, in tale o talaltro contesto ecclesiale, degli abusi che contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica riguardo a questo ammirabile Sacramento. A volte si fa avanti una comprensione molto riduttiva del mistero eucaristico. Privato del proprio valore sacrificale è vissuto come se non andasse aldilà del senso e del valore di un incontro conviviale e fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che si fonda sulla successione apostolica, è a volte oscurata, e il carattere sacramentale dell’Eucarestia è ridotto alla sola efficacia dell’annuncio. Da qui, qua e là, delle iniziative ecumeniche che, sebbene suscitate da un’intenzione generosa, si lasciano andare a delle pratiche eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede. Come non manifestare una profonda sofferenza di fronte a tutto ciò? L’Eucarestia è un dono troppo grande per poter sopportare ambiguità e riduzioni”[vi].

La praxis liturgica attuale, che non può essere ridotta a casi particolari – soprattutto se si tratta di abusi – riflette tuttavia una certa percezione, tanto da parte dei fedeli che da parte del clero, della necessità, del fine e dell’efficacia dell’azione eucaristica, e dunque è specchio di una certa teologia sacramentale: molte pratiche liturgiche abituali, così come gli abusi e i derivati che sono oggi frequenti, riflettono in fin dei conti una riduzione dell’idea del profitto spirituale legato ai frutti sacrificali dell’Eucarestia[vii].

Queste pratiche, seppur non rispondano alla stretta messa in opera delle direttive conciliari, e ancor meno all’intenzione dei Padri del Concilio, sono tuttavia caratteristiche di un’assenza di chiarezza teologia, che bisogna forse attribuire al testo del Concilio, nella misura in cui è il senso stesso del mistero eucaristico che sembra velarsi.

La preoccupazione conciliare di rimettere al centro dell’azione liturgica la partecipazione dei fedeli in vista di prendere parte più perfettamente ai frutti della Messa ci porta dunque ad interrogarci sull’efficacia del sacramento dell’Eucarestia, cioè sul modo e la misura secondo la quale il Popolo di Dio beneficia dei frutti di una celebrazione eucaristica. Come abbiamo detto, gli autori di Sacrosanctum Concilium avevano la volontà di prendere nettamente le distanze dalla liturgia post-tridentina, ai loro occhi troppo formalista, al punto da far perdere di vista la finalità eucaristica[viii].

In vista di oltrepassare una tale opposizione, può essere utile interrogare, la teologia sacramentaria di San Tommaso d’Aquino: una lettura approfondita degli articoli della IIIa pars concernenti il sacramento dell’Eucarestia, lettura effettuata nell’ottica particolare delle condizioni della fecondità sacramentale, ci permetterà di comprendere in qual misura e in che casi i frutti dell’Eucarestia sono prodotti, e a quali condizioni si applicano. Questa rilettura ci permetterà, in conclusione, di mettere in evidenza il legame fra pratica liturgica e teologia sacramentale.


L’efficacia sacramentale in San Tommaso d’Aquino

La stessa struttura del trattato “De sacramentis in genere” alle questioni 60-65 della IIIa Pars mette in evidenza i fondamenti della teologia sacramentaria tommasiana: la questione 62 tratta dell’ “effetto principale dei sacramenti, che è la grazia” e la questione 63 porta sull’ “effetto secondo del sacramento che è il carattere”. Questi due elementi, grazia e carattere, permettono a San Tommaso di articolare formalità e finalità dei sacramenti, attorno alla questione primordiale dell’efficacia dei segni sacramentali e della loro condizione di realizzazione fruttuosa: l’importanza di una tale struttura non è di poco conto – ed è ciò che vorremmo dimostrare, in particolare attraverso la comparazione con il testo delle Sentenze.

E’ noto che è adottando la distinzione tra opus operatum e opus operantis (o opus operans) – consacrata più tardi dal Concilio di Trento sotto la formula ex opere operato [ix] – che San Tommaso differenziava nel suo Commentario delle Sentenze il valore oggettivo del sacramento dagli effetti legati ai meriti del ministro che lo compie. E’ precisamente in quanto i sacramenti sono causa strumentale della grazia che questa distinzione diventa possibile: l’efficacia del sacramento non dipende dal ministro che lo realizza come dalla sua causa principale, ma piuttosto da Dio, la cui azione è infallibile. Questa doppia causalità comporta un doppio livello d’efficacia che bisogna caratterizzare chiaramente, perché lo strumento può, se mal utilizzato, mal disposto o se è difettoso, costituire un ostacolo all’efficacia divina. La cosa è chiara quando si compara l’efficacia dei sacramenti a quella della preghiera:

«Nella preghiera, colui che prega è come l’agente principale, e non solo come l’agente
strumentale. Dunque perché la preghiera sia efficace, si richiede che rilevi dall’effetto ex opere operante, e non solo dall’ ex opere operato, come è il caso dei sacramenti»[x].

Così dunque la grazia è causata strumentalmente nell’anima, ex opere operato, a partire dal momento in cui il sacramento è realizzato nelle condizioni richieste (materia, forma e intenzione), e dunque indipendentemente dalla sua qualità propria e dalla sua devozione personale. Bisogna intendere questa espressione conformemente all’intenzione del Dottore angelico, non nel senso di un’efficacia infallibile, quasi magica, ma piuttosto nel senso di un’efficacia per se, nel senso in cui l’inefficacia di un sacramento, quando è valido, non può venire che da un obex esterno, che impedisce che la grazia si applichi all’anima. Questa precisazione è di capitale importanza, perché lascia aperta la questione dell’applicazione dei frutti del sacramento, nel caso in cui incontri un tale ostacolo. I testi del Commentario mancano, in questo punto, di precisazioni.

Paradossalmente, nella Summa Teologica, l’espressione ex opere operato non appare neanche una sola volta, sebbene la stessa dottrina della causalità strumentale vi sia largamente sviluppata. La ragione è, a nostro avviso, la sistematizzazione dottrinale che caratterizza questo trattato, e che è la principale innovazione in rapporto ai corrispondenti del Commentario della Sentenze e della Summa contro i Gentili [xi]; nel nostro testo, San Tommaso tratta in maniera organica dei sacramenti in generale, fin dalla prima questione del trattato, intorno alla distinzione dei due aspetti sotto i quali l’uso dei sacramenti deve essere studiato: il culto divino e la santificazione dell’uomo:

«Si possono considerare due aspetti nella pratica dei sacramenti : il culto divino e la
santificazione dell’uomo. Il primo punto di vista riguarda l’uomo nei suoi rapporti con Dio. Il secondo, al contrario, riguarda Dio nei suoi rapporti con l’uomo »[xii].

Se posiziona l’aspetto della santificazione all’inizio della trattazione (la grazia è “l’effetto principale del sacramento”), non riduce tuttavia l’altro aspetto, perché la dimensione cultuale dei sacramenti deriva direttamente dall’azione di Dio nell’anima. Si capisce qui l’importanza della dottrina del carattere sacramentale impresso nell’anima: non già per il profitto spirituale di colui che lo riceve, ma soprattutto per compiere validamente le azioni cultuali che Cristo ha istituito e scelto. Il carattere è così il sigillo della nostra deputazione da parte di Dio a rendergli un culto in spirito e verità, aspetto ascendente della finalità del sacramento, inseparabile dal suo aspetto discendente, la santificazione dell’anima. L’una e l’altra finalità dei sacramenti, santificazione e culto, non possono essere dissociate, perché esse trovano il loro fondamento nei segni sacramentali: “i sacramenti della fede sono simultaneamente segni della santificazione e segni di culto. La santificazione e il culto sono resi efficaci secondo l’economia della significazione sacramentale; solo la nozione di segno permette la loro connessione (…) L’uomo del culto della nuova legge non è dunque solo recettore dei segni sacramentali, ma è anche, in virtù della dimensione cultuale inerente a questi segni, soggetto delle azioni liturgiche»
[xiii].

Si può quindi affermare che l’introduzione della finalità cultuale della sacramentalità è il « motivo chiave dell’ultima sinfonia sacramentale di Tommaso”[xiv], nel senso in cui essa dà una prospettiva più completa dell’insieme della teologia sacramentale, e permette così di meglio comprendere l’articolazione tra fruttuosità ed efficacia dei sacramenti. Tommaso applicherà questa doppia finalità, ed è ciò che vedremo ora, alla risoluzione dei problemi concreti legati alla fecondità sacramentale.




La doppia finalità sacramentale nel caso dell’Eucarestia

«Il sacramento che concerne il culto divino nella stessa azione sacramentale, è l’Eucarestia
in cui consiste il culto divino come nel suo principio, in quanto essa è sacrificio della Chiesa»[xv].

Caratterizzando in questa maniera il sacramento dell’Eucarestia, San Tommaso lo posiziona con fermezza al cuore della doppia finalità dei sacramenti, culto e santificazione. E’ lì che si realizza più pienamente e più perfettamente, tanto il “principio” del culto divino, poiché è il sacrificio della Chiesa, quanto la più autentica santificazione, poiché procura all’anima la sorgente e la causa stessa di ogni grazia. E’ d’altronde a causa di quest’aspetto cultuale che il sacramento dell’Eucarestia è il più importante del settenario
[xvi].

L’argomento è di un certo spessore, ed implica nel trattato tomista un certo numero di importanti conseguenze. In particolare in rapporto all’opportunità di celebrare l’Eucarestia, che San Tommaso rapporta direttamente a questa doppia finalità, per dedurne che un sacerdote non può astenersi totalmente dal celebrare, nemmeno se fosse completamente privo dell’obbligo di cura d’anime, perché è in obbligo verso Dio: “l’opportunità di offrire il sacrificio non è da considerare soltanto in rapporto ai fedeli di Cristo, ai quali bisogna amministrare i sacramenti, ma a titolo principale in rapporto a Dio, a cui questo sacrificio è offerto nella consacrazione di questo sacramento”[xvii].

E’ lo stesso fondamento che permette anche di risolvere la questione dell’estensione del profitto che deriva dalla celebrazione di una messa: in quanto azione cultuale, l’efficacia del sacrificio moltiplicata dal numero di messe, poiché è ogni volta una nuova offerta che si compie; in quanto sacramento, al contrario, il numero di ostie consacrate, o la moltiplicazione delle comunioni nel corso della stessa messa non aumenta la presenza sacramentale[xviii]. Quanto alla comunicazione dei frutti dell’Eucarestia, essa è esplicitata precisamente sulla base di questa distinzione tra le due finalità dell’atto sacramentale:

« Così dunque questo sacrificio è proficuo a coloro che lo consumano per modo di
sacramento, e per modo di sacrificio, perché è offerto per tutti coloro che lo consumano (…) Ma agli altri, che non lo consumano, esso è proficuo per modo di sacrificio, in quanto è offerto per la loro salvezza »[xix].

In ultimo resta da aggiungere che, nel suo aspetto sacrificale, il valore della messa non dipende dal valore del prete che la celebra, non solo in quanto l’azione è realizzata ex opere operato, ma anche nella misura in cui il prete agisce in quanto ministro della Chiesa. In effetti quando esamina il valore della messa di un cattivo sacerdote (q. 82, a.6), San Tommaso applica i principi che valgono per tutti i sacramenti, ma li completa aggiungendo una distinzione fondata ancora una volta sull’aspetto sacrificale della messa, nella sua finalità impetratoria:

«In ciò che concerne il sacramento, la messa di un cattivo sacerdote non vale meno di
quella di uno buono, perché da una parte e dall’altra, è lo stesso sacrificio ad essere consacrato. Inoltre la preghiera che si fa alla messa può ancora essere considerata sotto due punti di vista. Da una parte, in quanto essa trae la propria efficacia dal prete che prega. E sotto questo punto di vista è fuor di dubbio che la messa di un miglior prete è più fruttuosa. Da un’altra parte, in quanto la preghiera è pronunciata alla messa dal prete che rappresenta tutta la Chiesa, di cui è ministro. Ora questo ministero sussiste anche tra i peccatori, come l’abbiamo detto nell’articolo precedente, a proposito del servizio di Cristo »[xx].

Così dunque in quanto le sue preghiere sono fatte in persona ecclesiae, il cattivo sacerdote non influisce sul frutto che ne deriva, e Dio esaudisce le sue richieste, in nome della Chiesa che Lo prega. Il corollario è, di contro, che la messa di un ministro separato dalla Chiesa, eretico, scismatico o scomunicato, in maniera formale e colpevole, benché sia valida dal punto di vista sacramentale e vera dal punto di vista sacrificale, non potrebbe essere efficace quanto alle preghiere fatte dal sacerdote che esse siano private o fatte in nome della Chiesa
[xxi]. Ciò significa che il valore cultuale del sacrificio è anche più importante, dal punto di vista della fecondità, che non il valore puramente sacramentale dell’Eucarestia. Ne consegue che è insufficiente porre la totalità – e forse anche l’essenziale – dei frutti dell’Eucarestia nella consumazione sacramentale: sarebbe mancare una delle finalità maggiori della messa, e impedire, per questa stessa ragione, di comprendere, nella prospettiva tomista, la fecondità del sacrificio offerto a Dio, nella sua efficacia eucaristica, latreutica, impetratoria e propiziatoria.





Come approfittare più abbondantemente dei frutti eucaristici?

In conclusione, resta da interrogarsi sulla distinzione tra i frutti del sacrificio e i frutti del sacramento: poiché l’ opus operatum del sacramento consiste nel ricevere passivamente da Dio, mentre l’ opus operatum del sacrificio, consiste nell’offrire in maniera attiva a Dio, i frutti sono necessariamente diversi. Nel sacramento, il frutto è la santificazione dell’anima, che riceve la grazia consumando le specie eucaristiche. Nel sacrificio l’ “opus operatum” non pone niente: né grazia, né dono. Quale dunque la natura dei frutti sacrificali? Il sacrificio rende a Dio la lode e l’onore che gli sono dovuti, operando così per noi, a titolo di causa morale infallibile, e anteriormente all’azione dei sacramenti, l’accesso alla misericordia e alla bontà di Dio che giustifica l’anima, o che la fa progredire nella perfezione. Questa differenza di natura tra frutti del sacramento e frutti del sacrificio mette in evidenza in maniera ancor più significativa, la ricchezza di questa doppia finalità: non soltanto dal punto di vista del numero di coloro che profittano di questi frutti, m anche in ciò che concerne la fecondità per l’anima del fedele che beneficia di tali frutti.

L’esame attento della teologia sacramentale tomista ci ha dunque permesso di mettere in evidenza l’importanza dell’aspetto cultuale dei sacramenti, e in particolare dell’Eucarestia. Questa lettura ci porta allora a rimettere in discussione la tentazione moderna di far passare in secondo piano la finalità sacrificale del culto divino, in particolare a causa delle conseguenze di una tale visione della fecondità eucaristica. Ora, bisogna riconoscere che numerosi teologi contemporanei, se non hanno abbandonato, sotto l’influenza dei pensatori “riformati”, in maniera pura e semplice la natura sacrificale della messa, hanno tuttavia voluto concentrare il “Mysterium fidei” sul suo atto puramente sacramentale, pretendendo così rendere più fruttuosa la partecipazione eucaristica. Era questa, nel migliore dei casi, un’illusione.

Si percepisce dunque la necessità di rimettere in evidenza, non solo dal punto di vista teorico, ma anche nella pratica liturgica, il valore intrinseco del Santo Sacrificio della messa, indipendentemente dalla partecipazione sacramentale. In questo modo tutta la Chiesa, e il popolo cristiano in primo luogo, avrà veramente beneficio in maniera “più cosciente, attiva fruttuosa”, secondo gli auspici dei Padri conciliari, della fecondità del mistero eucaristico.

Come agire? Prima di tutto, rimettendo al centro della liturgia il suo aspetto sacrificale, che è uno degli scopi della diffusione, voluta dal Papa Benedetto XVI, della celebrazione della messa detta “di San Pio V”, che esprime perfettamente questo carattere sacrificale, come lo testimoniava il segretario della Congregazione per il Culto, Mons. Albert Malcom Ranjith, qualche tempo dopo la pubblicazione del motu proprio “Summorum Pontificum”.


Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti elementi della Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora è necessario e importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera il rito di San Pio V (…) una via di recupero di quegli elementi offuscati dalla riforma, (…) non è tanto, come dicono alcuni, un ritorno al passato, quanto il bisogno di riequilibrare in modo integro gli aspetti eterni, trascendenti e celesti con quelli terrestri e comunitari della liturgia. [xxii]







[i] Sacrosanctum Concilium, n. 11
[ii] Ferdinando Antonelli, La costituzione Conciliare sulla Sacra liturgia. Antecedenti e grandi principi (lezioni di liturgia, 26 décembre 1964), in Archives de La Verne – fonds Antonelli, p. 4, cité par Nicolas Giampietro, Le cardinal Ferdinando Antonelli et les développements de la réforme liturgique de 1948 à 1970, éd. Le Forum, coll. Liturgie, Versailles, 2004, p. 266.
[iii] Ferdinando Antonelli, Antecedenti, principi e scopo della ostituzione conciliare sulla Sacra Liturgia (lezioni di liturgia, 12 janvier 1965), in Archives de La Verne – fonds Antonelli, p. 3-4.
[iv] SC, n. 55 ou encore SC, n. 48 : « Aussi l'Église se soucie-t-elle d'obtenir que les fidèles n'assistent pas à ce mystère de la foi comme des spectateurs étrangers ou muets, mais que, le comprenant bien dans ses rites et ses prières, ils participent consciemment, pieusement et activement à l'action sacrée, soient formés par la parole de Dieu, se restaurent à la table du Corps du Seigneur, rendent grâce à Dieu ».
[v] SC, n. 27 : « Chaque fois que les rites, selon la nature propre de chacun, comportent une célébration commune, avec fréquentation et participation active des fidèles, on soulignera que celle-ci, dans la mesure du possible, doit l'emporter sur leur célébration individuelle et quasi privée. Ceci vaut surtout pour la célébration de la Messe (bien que la Messe garde toujours sa nature publique et sociale), et pour l'administration des sacrements ».
[vi] Jean-Paul II, Ecclesia de Eucharistia, 17 avril 2003, n.10.
[vii] On peut mentionner, parmi ces limites concrètes : la perte du sens du sacré et la banalisation des célébrations ; la lassitude des fidèles face aux sollicitations des prêtres pour participer aux célébrations, parfois de façon incongrue ; la disparition presque totale des messes quotidiennes dites « privées » ; la raréfaction du nombre de messes en faveur des concélébrations, même dans des cas de pénurie de prêtres ; la disparition des gestes d’adoration dus au Saint-Sacrement ; la facilité de s’approcher de la table de communion sans être dans les conditions spirituelles nécessaires pour recevoir dignement les saintes espèces, avec comme corollaire l’incompréhension face au refus de la communion, par exemple dans le cas des divorcés-remariés ; les gestes œcuméniques d’intercommunion, même contre le droit de l’Église ; etc.
[viii] Cf. Jean-Michel Garrigues, « La complémentarité de l’Esprit par rapport au Christ dans la vie sacramentelle », Revue Thomiste, 2006/4, 565-585 (en part. p. 569).
[ix] Ces formules remontent vraisemblablement au début du XIIIème siècle : on les trouve chez Pierre de Poitiers, disciple de Pierre Lombard, qui applique cette distinction dans le cas du baptême, afin de démontrer que la valeur de ce sacrement est indépendante des mérites du ministre et de ceux du sujet. Cf. Sententiarum, lib. V, cap. VI (PL 216, 1235) ; elles sont ensuite généralisées par Innocent III, De Ss. altaris mysterio, lib. III, cap. V (PL 227, 843) et adoptées par s. Bonaventure et s. Thomas d’Aquin. Le Concile de Trente s’exprime ainsi : “Si quis dixerit per ipsa Novae Legis sacramenta ex opere operato non conferri gratiam, sed solam fidem divinae promissionis ad gratiam consequendam sufficere, anat. sit” (Sess. VII, De sacramentis in genere, can. 8, DzB 851). Cf. A. Michel, “Opus operatum, opus operantis”, DTC XI/1, 1931, col. 1084-1087.
[x] In IV Sententiarum, dist. 5, q. 2, a. 2, qc. 2, ad 2 : “Ad secundum dicendum, quod in oratione orans est sicut principale agens, non solum sicut instrumentale ; et ideo requiritur ad efficaciam orationis quod ex opere operante effectum sortiatur, non solum ex opere operato, sicut est in sacramentis”.
[xi] Contra Gentes, IV, 56-58.
[xii] IIIa, qu. 60, a. 5, corpus : “In usu sacramentorum duo possunt considerari, scilicet cultus divinus, et sanctificatio hominis, quorum primum pertinet ad hominem per comparationem ad Deum, secundum autem e converso pertinet ad Deum per comparationem ad hominem” – traduction A.-M. Roguet, Les sacrements, éd. de la Revue des jeunes, 1959.
[xiii] Franck M. Quoëx, Les actes extérieurs du culte dans l’histoire du salut selon saint Thomas d’Aquin – Dissertatio ad lauream in Fac. S. Theologiae apud Pontificiam Universitatem S. Thomae, Rome, 2001, pp. 224-225.
[xiv] M. Turrini, L’anthropologie sacramentelle de s. Thomas d’Aquin, Université de Paris Sorbonne, 1996, p. 108.
[xv] IIIa, qu. 63, a. 6, corpus.
[xvi] « Ce sacrement l’emporte sur les autres en ce qu’il est sacrifice », IIIa, qu. 79, a. 7, ad 1m.
[xvii] IIIa, qu. 82, a. 10, corpus ; cf. aussi Ibid., ad 1m.
[xviii] IIIa, qu. 79, a. 7, ad 3m.
[xix] IIIa, qu. 79, a. 7, corpus.
[xx] IIIa, qu. 82, a. 6, corpus.
[xxi] IIIa, qu. 82, a. 7, ad 3m. Il reste à préciser ici que pour le cas d’un prêtre schismatique ou hérétique de façon non-coupable, donc en état de grâce, les prières faites au nom de l’Église dont il est séparé ne sont pas efficaces, tandis que sa prière privée, elle, reste fructueuse.
[xxii] Mgr Albert Malcom Ranjith, Agence Fides, 16/11/2007

9 settembre 2009

Le discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X: un punto di vista teologico


Ci si potrebbe interrogare sulla reale efficacia della "disputa teologica" e sui limiti effettivi del dibattito intorno al Concilio Vaticano II, che sembra comportare ancora oggi un certo numero di tabù insormontabili. Tuttavia non si può negare che la personalità di un Papa "universitario" abbia impegnato la discussione teologica in una prospettiva di ricerca della Verità che si sta rivelando molto meno schiava dei pregiudizi rispetto a qualche anno fa. Allo stesso tempo si deve rilevare, con un certo disappunto, che un certo pessimismo cronico di alcune frange del mondo tradizionale sembra voler chiudere gli occhi davanti all'apertura intellettuale che si annuncia all'orizzonte. L'Abbé Barthe, già noto ai nostri lettori per il suo intervento sul magistero ordinario infallibile, dipinge in questa sede il quadro di una tale apertura tra i teologi designati dalla Sede Apostolica, che lascia intravedere delle reali prospettive di approfondimento riguardo le questioni più dibattute. In particolare mette in evidenza la disponibilità della Santa Sede ad ascoltare le obiezioni relative a certi passaggi del Vaticano II, qualunque sia l'origine di esse, vengano dai teologi della scuola romana o persino dalla Fraternità San Pio X. La ricerca della verità non si impone dei limiti "a priori". Nell'insieme il quadro che si delinea con questa nuova apertura è quello di un clima di ricerca incoraggiante, che sembra aver abbandonato lo sterile spirito della dialettica hegeliana, che finisce per lasciare a ciascuno la "propria" verità, per abbordare la discussione nello spirito di un'autentica "disputatio theologica" la quale deve condurre ad un'unica verità che le due parti devono abbracciare: lo scopo è di giungere, nei limiti del possibile, ad una reale soluzione dei problemi, senza velleitarismi. La Verità non appartiene agli uni o agli altri, la Verità deve essere di tutti ed è per tutti. La prospettiva descritta dall'Abbé Barthe si rivela di particolare interesse, specie nella misura in cui essa traccia i reali contorni del dibattito e mette in evidenza quello che oggi è probabilmente l'unico modo di affrontarlo.




Le discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X:
il Concilio visto alla luce dell'interpretazione
di Mons. Gherardini?


de l'Abbè Claude Barthe

Il punto di partenza di questo mio articolo - le cui riflessioni impegnano solo il sottoscritto - è la mia lettura nell’ultimo numero di «La Nef » (settembre 2009, p. 21), di un’intervista di Padre Manelli, Superiore dei Francescani dell’Immacolata, con Christophe Geoffroy e Jacques de Guillebon. Padre Manelli dichiara: “Egli (il Papa) cerca di evitare rotture, specialmente nella ricezione del Concilio Vaticano II – è la famosa “ermeneutica della riforma nella continuità”. Possono tuttavia esserci nel Concilio delle discontinuità su punti precisi, la cosa non avrebbe nulla di scandaloso, poiché quest’ultimo ha voluto essere “pastorale”, possono esservi degli “errori” che il Papa può correggere, come Mons. Gherardini ha dimostrato in uno studio che noi abbiamo pubblicato e che sarà presto tradotto in francese”.
Simili dichiarazioni, nuove non già per il loro tenore, quanto per la convinzione con la quale sono ormai formulate, sono in effetti come cristallizzate dalla “linea ermeneutica” che rappresenta Mons. Brunero Gherardini[1], al quale “Disputationes Theologicae” a dato largo eco[2].
Essa rimette in auge, rinnovandola considerevolmente, quella della minoranza conciliare – minoranza di cui non si può dimenticare l’importante ruolo nell’elaborazione del testo di "transizione" o, detto in maniera più polemica, di "ambiguità" - e cioé in breve: un certo numero di passaggi del Vaticano II è suscettibile, non soltanto di precisazioni, ma anche eventualmente di future correzioni.
In maniera diversa, Mons. Nicola Bux, voce molto ascoltata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarava all’agenzia “Fides” il 29 gennaio 2009 : « E' stato constatato che non vi sono differenze dottrinali sostanziali, e che il Concilio Vaticano II, i cui decreti furono firmati da Mons. Lefebvre, non poteva essere separato dalla Tradizione della Chiesa nella sua interezza. In uno spirito di comprensione, bisogna in seguito tollerare e correggere gli errori marginali. Le divergenze passate o più recenti, grazie all’azione dello Spirito Santo saranno risanate grazie alla purificazione dei cuori, alla capacità di perdono, e alla volontà di riuscire a superarle definitivamente ».
In questo contesto di libertà teologica e di effervescenza di sane “disputationes” alle quali questo sito vuol partecipare, le conversazioni dottrinali che verranno, implicitamente evocate da Mons. Nicola Bux, e che presto si apriranno tra i teologi che rappresentano la Congregazione della dottrina della fede e i teologi che rappresentano la Fraternità San Pio X, dovranno logicamente far progredire le cose. E’ in definitiva ciò che si può pensare, tenuto conto della qualità dei tre teologi, tutti e tre consultori alla Congregazione della Dottrina delle Fede, che dovrebbero partecipare alle discussioni per delegazione della Santa Sede (nella misura in cui le informazioni concernenti le nomine siano esatte e fermo restando che l’ “equipe” costituita possa essere modificata, ridotta o aumentata), sotto lo sguardo di Mons. Guido Pozzo, nuovo segretario della Commisione Ecclesia Dei.



Qual è il grado d’autorità di quei passaggi che presentano difficoltà nel Vaticano II?


Mons. Pozzo, che ha insegnato in maniera estremamente classica all’Università del Laterano, e che in “Le Figaro” dell’8 luglio diceva: “Il punto debole della Chiesa è la sua identità cattolica, spesso poco chiara”, e aggiungeva: “non è rinunciando alla propria identità che la Chiesa si metterà nelle migliori condizioni per dialogare con il mondo, è esattemente il contrario”, per poi concludere : “noi abbiamo bisogno di uscire da questa illusione ottimista, quasi irenica, che ha caratterizzato il post-concilio". Egli è tra l’altro uno specialista di quelle che vengono chiamate “note teologiche” (il valore normativo che si può attribuire ai testi dottrinali), in maniera tale che le discussioni non potranno evitare di occuparsi del « valore normativo » delle asserzioni discusse, del loro valore in relazione al contesto, dell’eventuale assenza dell’obbligo di fede che esse comportano[3].

Il Padre Charles Morerod, nuovo Segretario della Commissione teologica internazionale, che dovrebbe partecipare a queste discussioni, è un domenicano svizzero che ha fatto la propria tesi su Lutero e il Gaetano. E’ decano della facoltà di filosofia dell’Università San Tommaso d’Aquino, l’Angelico, redattore dell’edizione francese della rivista “Nova et Vetera”. Su richiesta della Congregazione della Dottrina della Fede, ha lavorato molto sulla questione dell’anglicanesimo. E’ vicino al Cardinal Cottier, gioisce della totale fiducia del Segretario di Stato, già Segretario del Sant’Uffizio e del Papa stesso. Nella sua importante bibliografia, si può citare: Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme[4] ; Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue[5].



E’ ormai notorio che il Padre Morerod abbia partecipato coi membri della Fraternità San Pio X a delle conversazioni dottrinali che si potrebbero definire “preliminari”. In una riunione pubblica tenutasi nell’ambito del Grec (Gruppo d’incontro tra cattolici), nei locali prossimi a Saint-Philippe-du-Roule, a Parigi il 26 febbraio 2008, nel quale dibatteva con il Padre Grégoire Célier, della Fraternità San Pio X, sul tema: « Rivedere e/o interpretare certi passaggi del Vaticano II », i due relatori erano arrivati ad un’interessante convergenza. Padre Morerod spiegava che gli sembrava: 1) che la possibilità di una ricezione del Vaticano II, « che si fondasse solidamente sullo stato del magistero anteriore », potrebbe perfettamente avere il suo posto nella Chiesa, avendo come condizione, a suo parere, che questa interpretazione non sia un rigetto del Vaticano II; 2) che poteva essere ammessa la non-confessione di certi punti del Vaticano II, con “una certa esigenza di rispetto” dell’insegnamento “ufficiale” del Vaticano II.



Alcune precisazioni interpretative dal sapore d’ “incompiuto”


Il Padre Karl Josef Becker, gesuita che dovrebbe anche lui partecipare a queste discussioni nel 1928, teologo molto amato da Benedetto XVI, è stato professore esterno alla facoltà di teologia dell’Università gregoriana (ha in particolare insegnato la teologia sacramentaria e scritto sulla giustificazione e l’eclesiologia). Ha pubblicato un articolo comparso ne «L’Osservatore Romano» del 5 dicembre 2006 [6], nel quale tutti hanno visto un’applicazione del discorso del Papa del dicembre 2005 e che menzionerò più avanti. Egli difendeva la tesi che il “subsistit in” di Lumen Gentium 8 (la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica) non vuol dire altro che il tradizionale: est (la Chiesa di Cristo è puramente e semplicemente la Chiesa Cattolica). E addirittura, secondo la rilettura molto volontarista del padre Becker, il “subsistit in” sarebbe destinato a rinforzare l’est, da cui ne risulterebbe, secondo la sua valutazione, e prendendo di mira la parte dell’ecumenismo conciliare che è più difficile da mettere in accordo con la dottrina tradizionale, che l’ecclesialità parziale delle chiese separate non è sostenibile [7].

Fernando Ocáriz, il terzo teologo che dovrebbe ugualmente far parte dell’equipe di Pozzo per partecipare ai dibattiti teologici, è nato nel 1944, vicario generale dell’Opus Dei, ha insegnato alla Pontificia Università della Santa Croce, è l’autore di numerosissime pubblicazioni.



La sua designazione è da attribuire certamente al suo interesse per la questione dell’interpretazione omogenea della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae, a proposito del punto più sensibile –l’apparente sostituzione della teologia della tolleranza con quella della libertà in materia di "diritto pubblico della Chiesa[8]" – sul quale ha lui stesso scritto[9]. Si può tra l’altro senza grandi rischi affermare che egli è per la formula che si può definire “di transizione” sulla libertà religiosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica[10].
Quanto al Padre Charles Morerod, approfittando della parte importante che ha assunto nei lavori dell’Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC), ha dimostrato nel suo Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue[11], che un dialogo ecumenico serio avrebbe dovuto essere integrato da chiarimenti sui presupposti filosofici delle posizioni teologiche dei cristiani separati, presupposti che possono largamente spiegare la loro incomprensione dei dogmi della Chiesa.
Ma è soprattutto il suo Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme
[12], che merita una particolare attenzione per l’argomento che ci interessa. Quest’opera rappresenta uno sforzo considerevole d’interpretazione tradizionale dell’ecumenismo portata a un grado elevatissimo d’acume e di agilità, perché non mira nientemeno che a dimostrare come il dogma cattolico in generale e quello dell’infallibilità pontificia in particolare sono….i motori più efficaci dell’ecumenismo. Dimostrazione paradossale (paradossale nella misura in cui si sostiene comunemente, per gioirne o per lamentarsene, che l’ecumenismo cerca d’attenuare i lati spigolosi del dogma cattolico).
Ora il paradosso si raddoppia quando la pia interpretatio del saggio domenicano fa una lettura tomista di un punto di vista spesso criticato nel testo conciliare, la « gerarchia delle verità ».
Secondo lui, se si accorda ai separati che, dalle due parti, c’è stata cattiva comprensione delle posizioni rispettive, bisognerà pronunciare alla fine una formula obbligatoria per tutti - altrimenti detto, un dogma - che manifesti che ormai ci si capisce perfettamente e che ci si accorda univocamente nell’esprimere la fede degli Apostoli.
Riguardo il decreto conciliare sull’ecumenismo al n. 11 § 3
[13], ricorda che la Tradizione cattolica, specie ricorrendo a San Tommaso, ha sempre affermato che il rifiuto di credere in un qualsivoglia articolo di fede porta a rifiutare l’autorità di Dio da cui dipende la fede, e annichila di fatto il motivo di credere e quindi polverizza la fede.
Tuttavia, come espone anche San Tommaso, l’insieme delle verità da credere si organizza secondo un certo ordine, che non sopprime in nessun modo l’importanza di ogni articolo. Il Padre Morerod spiega, che così intesa, la “gerarchia di verità” non è in fondo niente altro che un metodo di catechesi elementare per spiegare, per esempio, la Maternità divina a partire dall’Incarnazione, un modo pedagogico di portare alla fede cattolica coloro che se ne sono allontanati.


Un nuovo contesto teologico e le sue virtualità

Le dimostrazioni in forma di precisazioni dei Padri Becker, Ocáriz, Morerod e molti altri ancora sono molto seducenti. L’inconveniente è che esse sono rese necessarie perché i testi in questione (riguardo ciò che ho evocato: il n.8 di Lumen Gentium, il n. 2 di Dignitatis humanae e il n.11 di Unitatis Redintegratio, ma esistono altri luoghi di difficoltà
[14]) non contengono le precisazioni che avrebbero evitato tutte le interpretazioni devianti[15].
Non è forse, più in generale, la grande difficoltà che solleva tale o tal’altra asserzione del Vaticano II, e nello specifico quella di aver avuto ciò che potremmo qualificare come un «velare nuovamente» (ndt “réenveloppement du dogme” nell’originale), facendo allusione alla teoria dello “svelamento” (ndt “désenveloppement” nell’originale), che rappresenta, secondo il Card. Journet, la funzione dogmatica (ndt si fa notare che l’espressione désenveloppement\svelamento, in francese è prossima per il suono, ma distante per significato da quella di développent\sviluppo del dogma, tanto evocata dall’evoluzionismo modernista, ed è quindi carica di significato).


Ma prima di tutto bisogna far notare, che il fenomeno innescato dal discorso indirizzato il 22 dicembre 2005 da un Papa teologo, Benedetto XVI, alla Curia romana, sulla buona interpretazione del Vaticano II, si situa in una fase storica del « ritorno al dogma » particolarmente interessante. Si potrebbe del resto difendere che l’esercizio del suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, specialmente dal 1985 (con la pubblicazione di Inchiesta sulla Fede) fino al 2005, ha costituito una specie di pre-pontificato di reinterpretazione e d’inquadramento dei punti sensibili del Vaticano II.
Al limite, ciò che si dice e scrive oggi liberamente un pò dappertutto era perfettamente conosciuto: cioè a dire che l’autorità dei passaggi del Vaticano II che sono apparsi o paiono, prout sonant, non accordarsi con le asserzioni dogmatiche anteriori, non avevano niente di dogmatico. Allo stesso modo si potrebbe dire che le reinterpretazioni in forma di precisazioni ortodosse di quei passaggi, le quali oggi si moltiplicano da parte di penne autorizzate a parlare, sono sempre esistite. Ma è permesso far notare che queste due vie coniugate, le quali prendono oggi un carattere quasi ufficiale, restano in una certa misura insoddisfacenti: la prima via (la non infallibilità dei punti contestati) perchè essa è puramente negativa e non regola il fondo del dibattito; la seconda (la reinterpretazione tomista di questi punti) perché appare relativamente artificiale o perché essa è in ogni caso e con tutta evidenza a posteriori.
Ma tuttavia come nella via spirituale l’accesso alle vie della mistica non può fare economia delle purificazioni ascetiche, tutta l’attuale effervescenza scatenata o attivata dal discorso teologico liberatore del 2005, ha un valore preparatorio sul lungo termine – e senza dubbio sul lunghissimo termine – indispensabile. Mi sarà concesso di dire che la presente situazione magisteriale presenta (parlo sempre in questo caso, unicamente, dei punti sensibili del Vaticano II, e in nessuna maniera dei progressi indiscutibili di questo Concilio, come il decreto Ad gentes, e, a mio avviso la costituzione Dei Verbum) è abbastanza inedito nella storia dei dogmi . Non si tratta , come classicamente, di eresie esterne e di condanne interne, ma di flussi dottrinali interni e del rigetto (fino all’ora presente) all’esterno della loro contestazione. Si è in presenza di una crisi che assomiglia se si vuole ad una crisi – molto tardiva, è vero – d’adolescenza, nella quale il meglio e il peggio si mescolano per accedere alla maturità.
Il peggio sarebbe di restare in mezzo guado - per esempio: Unitatis redintegratio non assegna una finalità chiaramente precisata in termini dogmatici all’ecumenismo. Il meglio è nella materia nuova che è emersa – parlo sempre a titolo personale - e che fa si che, non dispiaccia a coloro che vorrebbero ritornare allo “status quo ante”, è impossibile pretendere per esempio di cancellare l’ecumenismo dall’insegnamento della Chiesa. Più esattamente, bisognerà, dopo un lavoro teologico che non si è mai interrotto da quarant’anni, ma al quale un Papa teologo permette uno sviluppo libero e insperato, fare dell’ecumenismo un insegnamento della Chiesa in quanto tale. Le difficoltà di questi testi che chiamo “d’adolescenza” (poiché mi è stato ovunque rimproverato l’appellativo di “magistero incompiuto”) possono essere allora capiti come degli interrogativi.
Mi spiego approfondendo questo esempio dell’ecumenismo. Leggendo il n. 3 di Unitatis Redintegratio, si può capire questo testo come il riconoscimento tradizionale dell’esistenza di elementi della Chiesa cattolica, come il Battesimo, la Sacra Scrittura, a volte l’Ordine, in seno alle comunità separate: "Tra gli elementi o i beni nell’insieme dei quali la Chiesa si edifica ed è vivificata, alcuni e anche molti, e di grande valore, possono esistere al di fuori dei limiti della Chiesa Cattolica". Ma Unitatis Redintegratio aggiunge, ciò che apporta una difficoltà considerevole, una certa legittimazione delle comunità separate in quanto tali: «Di conseguenza , queste Chiese e comunità separate , sebbene noi crediamo che soffrano di deficienze, non sono affatto sprovviste di significato e di valore nel mistero della salvezza. Lo spirito di Cristo, in effetti, non rifiuta di servirsi di esse, la forza dei quali deriva dalla pienezza di grazia e di verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica”. I termini del testo sembrano dire dunque che in quanto separate queste Chiese sarebbero delle “continuazioni” (ndt “relais” nell’originale) della Chiesa Cattolica. La qual cosa sarebbe, se tale era la vera interpretazione, in rottura con l’insegnamento anteriore.
E tuttavia è necessario convenire che se – conformemente alla dottrina tradizionale – alcuni separati in buona fede accedono alla salvezza attraverso questi elementi cattolici che si rinvengono de facto nelle loro comunità, non è la loro appartenenza concreta a queste comunità separate che può (nell’insondabile mistero di Dio) apportar loro questi elementi cattolici salutari. Allo stesso tempo, è vero, che questa appartenenza è anche il principale ostacolo oggettivo al loro ritorno nell’unità della Chiesa. E’ chiaro che il dogma del passato non ha fatto proprio esplicitamente questo fatto, e cioè che gli elementi cattolici che esistono nelle comunità separate possano essere strumento della grazia per i cristiani separati in buona fede e dunque che essi appartengono in voto alla Chiesa di Pietro, né che essi siano in attesa di essere rivivificati dal ritorno alla Chiesa cattolica dei cristiani separati, i quali di tali elementi beneficiano (cosa che non ho in nessun modo la pretesa di spiegare in poche righe). In fondo è come se l’ “interrogativo” del n. 3 di Unitatis Redintegratio testimoniasse di due deficienze, una riguardo il passato che diceva troppo poco, e l’altra riguardo il presente che, di contro, dice troppo.


Nota della redazione: Per eventuali citazioni invitiamo sempre a rifarsi al testo nella lingua originale dell'autore, nella fattispecie il francese, in questo spirito le note non sono state tradotte.



[1] Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Case Mariana Editrice, 25 mars 2009.
[2] Mons. Brunero Gherardini, « Quale valore magisteriale per il Concilio Vaticano II », da Disputationes Theogicae, 5 maggio 2009 ; Claude Barthe, « Il Magistero ordinario infallibile. L’abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini », 18 giugno 2009.
[3]. Sur la manière dont la FSSPX décline le thème de la non-infaillibité des points contestés de Vatican II : Jean-Michel Gleize, « Le concile Vatican II a-t-il exercé l’acte d’un véritable magistère ? » et Alvaro Calderón « L’autorité doctrinale du concile Vatican II », dans Magistère de soufre (Iris, 2009, pp. 155-204 et 205-218)
[4]. Parole et Silence, 2005.
[5]. Parole et silence, 2004.
[6]. « Nel clima dell’Immacolata i quarant’anni del Concilio. Subsistit in (Lumen gentium, 8) », pp. 1, 6-7.
[7]. Un autre ancien professeur de l’Université Grégorienne, le P. Francis A Sullivan, avait d’ailleurs contesté cette interprétation dans « A Response to Karl Becker, S.J., on the Meaning of Subsistit In » Theological Studies, vol. 67 (2006), pp. 395-409. Le P. Sullivan, d’une tendance opposée à celle du P. Becker, ne croit cependant pas davantage que lui à l’autorité infaillible de Vatican II. Dans la ligne Sullivan, mais dans une perspective tout autre que le débat sur les points contestés de Vatican II, la bibliographie sur la relativisation de l’autorité magistérielle dans la théologie actuelle est considérable. En français : un classique, Jean-François Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées ? (Cerf, 1999) ; et la plus récente contribution : Grégory Woimbée, Quelle infaillibilité pour l’Église ? De jure veritatis (Téqui, 2009).
[8]. Dernier ouvrage paru donnant un bref, mais très substantiel résumé du débat : Guillaume de Thieulloy, « Vers une relecture de Vatican II), dans La théologie politique de Charles Journet (Téqui, 2009, pp. 149-163). Pour l’état le plus complet et le plus parfaitement référencé de la doctrine d’avant Dignitatis humanae, voir le chapitre 9 du schéma De Ecclesia (Documenta oecumenico Vaticano II apparando, Constitutio De Ecclesia, c. 9, traduction dans Claude Barthe, Quel avenir pour Vatican II. Sur quelques questions restées sans réponse (François-Xavier de Guibert, 1999, pp. 163-179).
[9]. « Délimitación del concepto de tolerancia y su relación con el principio de libertad », Scripta Theologica 27 (1995), pp. 865-884. Cf. sur cette question : P. Basile Valuet, osb, La liberté religieuse et la Tradition catholique, éditions Sainte-Madeleine, 1998, dont il faut souligner qu’il ne semble pas vouloir assimiler l’enseignement conciliaire au magistère ordinaire universel. Tiennent, en revanche, pour la qualification de magistère ordinaire et universel à la doctrine conciliaire de la liberté religieuse (dont ils donnent des interprétations catholiques aux nuances diverses, qu’il n’est pas possible de rapporter ici) : Brian W. Harrison, Le développement de la doctrine catholique sur la liberté religieuse (Dominique Martin Morin, 1988) ; de nombreux articles de Dominique-M. de Saint-Laumer, par exemple « Liberté religieuse. Le débat est relancé », Sedes Sapientiae, 25, pp. 23-48 ; Bernard Lucien, : Les degrés d’autorité du Magistère (La Nef, 2007). [10]. « Le devoir social de religion et le droit à la liberté religieuse », nn. 2104-2109.
[11]. Op. cit., Parole et silence, 2004.
[12]. Op. cit., Parole et Silence, 2005.
[13]. « En exposant la doctrine, ils [les théologiens catholiques] se souviendront qu’il y a un ordre ou une “hiérarchie” des vérités de la doctrine catholique en raison de leur rapport différent avec les fondements de la foi chrétienne ».
[14]. Le n. 2 de la Déclaration Nostra aetate : « « Elle [l’Église catholique]considère avec un respect sincère — observantia : respect religieux — ces manières d’agir et de vivre, ces règles et doctrines qui, quoiqu’elles diffèrent en beaucoup de points de ce qu’elle-même tient et propose, cependant apportent souvent un rayon de la Vérité qui illumine tous les hommes ».
[15]. En ce qui concerne l’ensemble des difficultés levées par la FSSPX et la manière dont elle les présente, on peut notamment lire le livre collectif : Magistère de soufre, op. cit. (Iris, 2009).