7 maggio 2009

Intervista a Padre Christophe Hery dell'Istituto del Buon Pastore







La nostra redazione ha posto alcune domande al Padre Christophe Héry, Assistente Generale dell’Istituto del Buon Pastore. Padre Héry, noto ai più come l’Abbé Héry, è stato ordinato sacerdote da Mons. Lefebvre il giorno precedente alle consacrazioni episcopali, nel 1988 per la Fraternità San Pio X; ha svolto il suo ministero a Marsiglia, Parigi e in molti altri centri della Francia, è uno dei volti più noti fra i fondatori dell’Istituto del Buon Pastore, stimato per l’imparzialità dei suoi studi teologici, annovera fra le sue ultime monografie “Non-lieu sur un schisme”, che potrebbe tradursi col titolo “Uno scisma, non vi è luogo a procedere”, in esso analizza, con l’acribia che gli è congeniale, e con ricche pagine di ricerca, tutte le accuse di scisma rivolte ai noti eventi del giugno 1988.



Padre Héry, nel 2006 lei è stato uno dei protagonisti principali dell’erezione dell’Istituto del Buon Pastore, che ci interessa particolarmente per la sua posizione teologica, del tutto singolare. Vorrebbe parlarcene in una maniera accessibile e precisa al tempo stesso?
A partire dalla sua creazione a Roma l’8 settembre 2006 come Istituto di diritto pontificio, il Buon Pastore è sotto i riflettori a causa del suo rito liturgico esclusivamente tradizionale. Ma è soprattutto la sua posizione teologica che interroga molti, in rapporto al Concilio Vaticano II. Alcuni chiedono che al Concilio sia dato un “assenso senza equivoci”. Ma non ci sono equivoci nella nostra posizione. Si tratta di una missione di vigilanza teologica. Essa è da iscrivere nella chiarezza del pensiero del Papa. Di fronte al “falso spirito del Concilio”, che Egli ha esplicitamente rifiutato il 22 dicembre 2005 davanti alla Curia Romana come causa di “rotture”, “in larghe parti della Chiesa”, Benedetto XVI afferma che è venuto il momento di sottoporre il testo del Vaticano II a una rilettura per darne una interpretazione autentica, la quale è ancora di là da venire.
In questa prospettiva siamo invitati per i nostri “impegni fondatori” (firmati il giorno della fondazione), a partecipare in maniera costruttiva ad un lavoro critico. Il dibattito fondamentale soffocato da quarant’anni, si apre finalmente nel seno della Chiesa senza spirito di sistema né di rivincita, sui punti di discontinuità dottrinale posti dal Concilio Vaticano II, sui quali ci sono riserve.


Come è possibile una tale “critica costruttiva”, visto che il Vaticano II è un atto di magistero autentico, in pratica intoccabile?

Il Concilio è certamente un atto di magistero autentico. Ma non è intoccabile, poiché la “ricezione autentica” del Concilio, secondo il Santo Padre, non ha ancora avuto luogo, o non è soddisfacente; ciò significa dunque che può essere ritoccato, per mezzo di un processo d’interpretazione. Esiste uno spazio di libertà lasciato alla controversia teologica sul testo del magistero conciliare, restando salva la Tradizione dogmatica e apostolica…


Non è forse mettere la Tradizione al di sopra del Magistero?

La Tradizione non è né al di sopra, né al di sotto del Magistero. Nel citato discorso del 25/12/2005, il nostro Papa ha fustigato “l’ermeneutica della discontinuità”, la quale oppone il magistero conciliare alla Tradizione. In effetti il magistero autentico non dispone mai della Tradizione a suo piacimento e non è al di sopra di essa: quando stabilisce in maniera infallibile, è ciò che io chiamo la Tradizione “in atto”. Quando non stabilisce in maniera infallibile, come la maggior parte del Vaticano II, il magistero (anche autentico) deve essere interpretato e ricevuto, senza rottura con la Tradizione, dunque alla luce di quest’ultima.


Potrebbe precisarci come la ricezione di un concilio permette di farne la critica costruttiva?

Il problema posto dal Vaticano II è che esso non assomiglia affatto ai precedenti concili. Quest’ultimi presentavano degli insegnamenti, delle definizioni del dogma, delle condanne di errori opposti, che obbligavano la fede. All’inverso, rinunciando per principio pastorale a qualsiasi pretesa dogmatica (all’infuori della ripresa di qualche punto anteriormente definito dal magistero solenne), il Vaticano II non s’impone alla Chiesa come oggetto d’obbedienza assoluta per la fede (cfr. can. 749), ma come oggetto di “ricezione”.
Ora, la ricezione induce un processo d’interpretazione. Per un tale “corpus” di testi, quest’ultima richiede lavoro, e soprattutto tempo. Il Cardinale Jean-Pierre Ricard a Lourdes, il 4 novembre 2006, ha precisato: “Il Concilio deve ancora essere recepito” (cioè re-interpretato). E ha indicato la direzione da seguire : applicarsi ad “una rilettura serena della nostra ricezione del Concilio” e non “una lettura ideologica”, specialmente per “riprenderne i punti che meritano ancora di essere presi in considerazione”. La qual cosa significa una vasta operazione di messa in questione (nel senso scolastico); di chiarimento (nel senso di discernimento) tra ciò che vale la pena di essere salvaguardato e ciò che non ne vale la pena; inoltre un’interpretazione corretta di ciò che possa o debba essere salvaguardato.


Quale sarà per voi il criterio di questo discernimento e di questa interpretazione?

Il “setaccio” da usare è chiaramente, non già la filosofia odierna, ma la coerenza, la compatibilità o la continuità del Magistero con la Tradizione. La Tradizione in atto (fede e sacramenti) include l’insegnamento solenne dei concili anteriori e dei Papi. Essa costituisce, oggi come ieri, il legame essenziale e attivo della comunione fra cattolici. Salva restando l’autorità di Roma – e la possibilità per la teologia di progredire in maniera critica cercando delle risposte a dei problemi nuovi, che non si ponevano, per esempio, durante il Vaticano I.


Vorrebbe dire che il Vaticano II fornisce un’opportunità di riflessione critica e di approfondimento per la Chiesa?

E’ innegabile che il Vaticano II pone alla Chiesa le questioni essenziali della modernità: la coscienza, la libertà religiosa, la verità, la ragione e la fede, l’unità naturale o soprannaturale del genere umano, la violenza e il dialogo con le culture, la grazia e le aspettative degli esseri umani, ecc. Non ci si può accontentare oggi di risposte di ieri, quest’ultime devono prendere in considerazione le nuove problematiche. Ma il Concilio è datato 1965 e oggi non è più un discorso chiuso su se stesso. Noi lo riconosciamo per ciò che è : un concilio ecumenico che rileva del magistero autentico, ma non infallibile in ogni punto e, in ragione proprio delle sue novità, si scontra con certe difficoltà nella sua continuità con il Vangelo e la Tradizione.


Quello che ci ha chiarito sarebbe dunque il senso della formula dell’impegno, che avete sottoscritto il giorno della fondazione del vostro Istituto: “A proposito di alcuni punti insegnati nel Concilio Vaticano II o concernenti alcune riforme posteriori della liturgia e del diritto, e che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, noi ci impegniamo ad un’attitudine positiva di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica evitando la polemica. Questa attitudine di studio vuole partecipare, per mezzo di una critica seria e costruttiva, alla preparazione di un’interpretazione autentica dalla parte della Santa Sede su questi punti del Vaticano II” ?

In effetti, noi abbiamo ottenuto questa libertà di contribuire, stando al nostro posto, inizialmente per mezzo di studi e pubblicazioni interne all’Istituto, a questo lavoro titanico di designazione dei testi e delle teorie che pongono problemi da quarant’anni, concernenti non solo il Concilio ma anche le riforme liturgiche (o altre), che lo hanno seguito.
Stiamo preparando degli studi sulla liturgia e sui punti di litigio classici del Concilio. L’organizzazione di sessioni di lavoro e lo scambio con altri interlocutori è la tappa successiva.


La Fraternità San Pio X potrebbe anch’essa avere un ruolo simile al vostro in questo lavoro di “proporre al Papa”, che resta sempre l’unico soggetto del supremo potere magisteriale?

Certamente! Dopo la revoca delle scomuniche dei quattro vescovi della Fraternità San Pio X, immaginiamo che le discussioni dottrinali, finora segrete e informali, possano organizzarsi con l’avallo del Santo Padre, e permettere agli interlocutori di far valere e di scambiare le argomentazioni teologiche che nutrono la critica tradizionalista.


Seppure in una prospettiva di “continuità”, gli approcci “ermeneutici” sono oggetto di posizioni differenziate. Quale metodo di lavoro adottare?

In effetti, l’ermeneutica è essa stessa oggetto di un dibattito preliminare. Un tale lavoro supporrebbe anzitutto la definizione del metodo e dei principi ermeneutici. Si tratta di salvare il testo del Concilio alla lettera, costi quel che costi, come un blocco infallibile, sacro e ispirato fino all’ ultimo “iota”, ad immagine della Bibbia? Un tale postulato potrebbe portare ad una forma di fondamentalismo conciliare, rovinoso per la Chiesa. Si tratta piuttosto di ritrovare lo spirito del testo, aldilà della lettera? Ma il Santo Padre stesso ha scartato la rivendicazione invocatrice di questo “spirito del Concilio”, indefinibile e causa di tante “rotture” (pratiche, dottrinali, liturgiche) nel seno della Chiesa. Si tratta allora di ritrovare l’intenzione dei Padri Conciliari, redattori del testo? Qui nasce una seria difficoltà pratica: il testo del Concilio Vaticano II è un “patchwork”, il risultato di un compromesso nel seno di un’assemblea, tra differenti gruppi di lavoro spesso in opposizione tra loro, ciascuno dei quali ha cercato di “tirare a sé” il senso, tra una frase e l’altra….. Non resta allora altro che andare a ritrovare l’intenzione di Paolo VI? Oppure quella della Chiesa? Ma l’intenzione della Chiesa non può essere che tradizionale. E inoltre, la Chiesa non si è ancora espressa in maniera “autentica” sul senso che deve essere dato ai testi maggiori del Concilio, che pongono gravi difficoltà per la trasmissione della fede. E’ per questo che il papa Benedetto XVI, nel suo discorso del 22/12/2005, afferma che bisogna rivenire non solo al testo del Concilio, ma anche sul testo del Concilio. Sarà la base del nostro lavoro critico.