La riforma liturgica degli anni ‘70 occupa oggi il panorama delle discussioni teologiche, poiché la liturgia e la teologia sono fra esse in una connessione, che è quella, oseremmo dire, della “relazione trascendentale”, non si può discutere dell’una senza l’altra, a meno di cadere in quella teologia a compartimenti stagni degli anni ‘50; si impone oggi, nel solco di un più vasto dibattito nel quale ci innestiamo, un’analisi franca dell’accaduto e una attitudine propositiva di rimedi pratici e soprattutto “realizzabili”, come ripeteva San Pio X. La nostra Redazione, anche a seguito della richiesta sollecita di tanti lettori, vuole occuparsi dell’argomento, possibilmente senza ripetere gli errori metodologici del passato; abbiamo perciò voluto iniziare fondandoci sulla testimonianza di chi ha conosciuto il passato, di chi, per età e prestigio, è non solo voce autorevolissima, ma vero tramite dell’autentica Tradizione. Visto che la liturgia è anche scienza pratica, non abbiamo voluto iniziare con paludati e pontificanti “liturgisti”, che dicono di aver letto tanti libri e tanti codici, ma con chi ha vissuto e toccato la liturgia come nessun altro, perché ha preparato, ripetuto, coordinato conosciuto tanto le cerimonie religiose della sua campagna toscana, le quali si concludevano con la “Messa in terza” e l’immancabile processione con la banda musicale, quanto i fasti e gli splendori della “Cappella Papale” in Sistina: Mons. Domenico Bartolucci. Intervistato da noi in questi giorni, nato nel 1917 a Borgo San Lorenzo (Firenze), toscano per nascita, romano per chiamata pontificia, nel 1952 è sostituto della Cappella Sistina accanto a Perosi, dal 1956 ne è Maestro Perpetuo; il 24 giugno 2006 il regnante pontefice ha voluto per il musicista una cerimonia speciale (foto in alto), per consacrare “ad perpetuam rei memoriam”, la sua vicinanza al grande maestro, rivolgendosi al quale il Papa ha detto nell’occasione: “la polifonia sacra, in particolare quella della scuola romana, è un’eredità da conservare con cura (..) un autentico aggiornamento della musica sacra non può che avvenire nel solco della grande tradizione del passato del canto gregoriano e della polifonia sacra”.
S.C.
INTERVISTA A MONS. DOMENICO BARTOLUCCI
a cura di Pucci Cipriani e Stefano Carusi
Incontro con mons. Domenico Bartolucci il grande musicista mugellano Maestro emerito della Cappella Sistina, estimatore, amico e collaboratore di Benedetto XVI.
E’ un pomeriggio assolato su queste colline verdi del Mugello quando arriviamo alla romanica pieve di Montefloscoli, nella cui antica canonica piena di ricordi, frescheggia il Maestro Perpetuo della Cappella Sistina; alle sue spalle una foto incorniciata dell’abbraccio tra il regnante Pontefice e Mons. Domenico Bartolucci, il successore di Lorenzo Perosi nei Sacri Palazzi.
Sulla sua scrivania l’ormai famoso testo, malgrado la sua recentissima pubblicazione, di Mons. Brunero Gherardini: “Il Concilio Vaticano II- un discorso da fare” per le Edizioni Casa Mariana.
E proprio sulla riforma liturgica iniziamo il nostro discorso con il Maestro.
Domenico Bartolucci, colui che in materia liturgica e musicale, ebbe agio di lavorare e di “dar consiglio” a cinque papi e colui che è amico e collaboratore di Benedetto XVI, che definisce “una grazia immensa per la Chiesa, se solo lo facessero lavorare”.
Maestro la recente pubblicazione del Motu proprio “Summorum Pontificum” ha portato una ventata d’aria fresca nel desolante panorama liturgico che ci attornia; anche lei dunque può ora celebrare la “messa di sempre”.
Ma, a dire il vero, io l’ho sempre celebrata ininterrottamente, a partire dalla mia ordinazione……avrei invece difficoltà, non avendola mai detta, a celebrare la Messa del rito moderno.
Mai abolita dunque?
Sono le parole del Santo Padre anche se qualcuno fa finta di non capire e anche se molti hanno in passato sostenuto il contrario.
Maestro bisognerà pur concedere ai denigratori della Messa antica che quest’ultima non è “partecipata”.
Suvvia non diciamo corbellerie, la partecipazione dei tempi antichi io l’ho conosciuta, tanto a Roma, in Basilica, quanto nel mondo, quanto quaggiù nel Mugello in questa parrocchia di questa bella campagna, un tempo popolata da gente piena di fede e di pietà. La Domenica a vespro il prete avrebbe potuto limitarsi ad intonare il “Deus in adiutorium meum intende” e poi mettersi a dormire sullo scranno, per non risvegliarsi che al “capitolo”, i contadini avrebbero continuato da soli ed i capifamiglia avrebbero pensato ad intonare le antifone!
Una velata polemica, Maestro, nei confronti dell’attuale stile liturgico?
Io non so ahimè se siete mai stati a un funerale: “alleluia”, battimano, frasi ridanciane, ci si chiede se questa gente abbia mai letto il Vangelo; Nostro Signore stesso piange su Lazzaro e sulla morte. Qui con questo sentimentalismo melenso, non si rispetta nemmeno il dolore di una madre. Io vi avrei mostrato come una volta il popolo assisteva a una Messa da morto, con quale compunzione e devozione si intonava quel magnifico e tremendo “Dies Irae”.
La riforma non è stata fatta da gente consapevole e dottrinalmente formata?
Scusate, ma la riforma è stata fatta da gente arida, arida, ve lo ripeto. E io li ho conosciuti. Quanto alla dottrina, il Cardinal Ferdinando Antonelli, di venerata memoria, mi ricordo che diceva spesso: “che cosa ce ne facciamo di liturgisti che non conoscono la teologia?”
Siamo d’accordo con lei, Monsignore, ma è pur vero che la gente non capiva….
Carissimi amici, l’avete mai letto san Paolo: “non importa sapere oltre il necessario”, “bisogna amare la conoscenza “ad sobrietatem”. Di questo passo tra qualche anno si pretenderà di capire la “transustanziazione”, come si spiega un teorema di matematica. Ma se nemmeno il prete può capire fino in fondo un tale mistero!
Ma come si arrivò allora a questo stravolgimento della liturgia?
Fu una moda, tutti parlavano, tutti “rinnovavano”, tutti pontificavano, sulla scia del sentimentalismo, di riforme. E le voci che si levavano in difesa della Tradizione bimillenaria della Chiesa, erano abilmente azzittite. Si inventò una sorta di “liturgia del popolo”…. quando sentivo questi ritornelli mi venivano in mente le frasi del mio professore del seminario, che diceva: “la liturgia è del clero per il popolo”, essa discende da Dio e non sale dal basso. Debbo però riconoscere che quell’aria mefitica si è un po’ rarefatta. Le giovani generazioni di sacerdoti sono, forse, migliori di quelle che li hanno preceduti, non hanno i furori ideologici mutuati da un modernismo iconoclasta, sono pieni di buoni sentimenti, ma mancano di formazione.
Cosa vuol dire Maestro, “mancano di formazione”?
Vuol dire che ci vogliono i seminari! Parlo di quelle strutture che la sapienza della Chiesa aveva finemente cesellato nei secoli. Voi non vi rendete conto dell’importanza del seminario: una liturgia vissuta, i momenti dell’anno sono scanditi e sono vissuti “socialmente” con i confratelli…l’Avvento, la Quaresima, le grandi feste che seguono la Pasqua. Tutto ciò educa e non immaginate quanto.
Una retorica stolta fece passare l’immagine che il seminario rovinasse il prete, che i seminaristi, lontani dal mondo, rimanessero chiusi in sé e distanti dalla gente. Tutte fantasticherie per dissipare una ricchezza formativa plurisecolare e per poi rimpiazzarla con il nulla.
Ritornando alla crisi della Chiesa e alla chiusura di molti seminari, Lei, Monsignore, è fautore di un ritorno alla continuità della Tradizione?
Guardate, difendere il rito antico non è essere passatisti, ma essere “di sempre”, vedete, si sbaglia quando la messa tradizionale la si chiama “Messa di San Pio V” o “Tridentina”, come se fosse la Messa di un’epoca particolare: è la nostra messa, la romana, è universale nel tempo e nei luoghi, un’unica lingua dall’Oceania all’Artico. Per quel che riguarda la continuità nei tempi vorrei raccontarvi un episodio. Una volta eravamo riuniti in compagnia di un Vescovo di cui non ricorderò il nome, in una piccola chiesa del Mugello, giunse la notizia improvvisa della morte di un nostro confratello, proponemmo di celebrare subito una Messa, ma ci si rese conto che c’erano solo messali antichi. Il Vescovo si rifiutò categoricamente di celebrare. Non lo scorderò mai e ribadisco che la continuità della liturgia implica che, salvo minuzie, si possa celebrare oggi con quel vecchio messale polveroso preso da uno scaffale e che quattro secoli or sono servì ad un mio predecessore nel sacerdozio.
Monsignore si parla di una “riforma della riforma”, che dovrebbe limare le storture che vengono dagli anni Sessanta.
La questione è assai complessa. Che il nuovo rito abbia della deficienze è ormai un’evidenza per tutti e il Papa ha detto e scritto più volte, che esso dovrebbe “guardare all’antico”; tuttavia Dio ci guardi dalla tentazione dei pasticci ibridi; la liturgia con la “elle” maiuscola è quella che ci viene dai secoli, essa è il riferimento, non la si imbastardisca con compromessi “a Dio spiacenti e a l’inimici sui”.
Cosa intende dire Maestro?
Prendiamo per esempio le innovazioni degli anni Settanta. Alcune canzonette beat e brutte e tanto in voga nelle chiese nel sessantotto, oggi sono già dei pezzi d’archeologia; quando si rinuncia alla perennità della tradizione per immergersi nel tempo si è condannati al volgere delle mode. Mi viene in mente la Riforma della Settimana Santa degli anni cinquanta, fatta con una certa fretta sotto un Pio XII ormai affaticato e stanco. Ebbene solo alcuni anni dopo, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il quale checché se ne dica, in liturgia era di un tradizionalismo convinto e commovente, mi arrivò la telefonata di Mons. Dante, cerimoniere del Papa, che mi diceva di preparare il “Vexilla Regis” per l’imminente celebrazione del Venerdì Santo. Interdetto risposi: “ma l’avete abolito”. Mi fu risposto: “il Papa lo vuole”. In poche ore organizzai le ripetizioni di canto e, con gran gioia, cantammo di nuovo, quel che la Chiesa aveva cantato per secoli in quel giorno. Tutto questo per dire che quando si creano degli strappi nel tessuto liturgico quei vuoti restano difficili da riempire e si vedono! Di fronte alla nostra liturgia plurisecolare dobbiamo contemplarla con venerazione e ricordare che, nella smania di “migliorarla”, rischiamo di fare solo danni.
Maestro, che ruolo ebbe la musica in questo processo?
Ebbe un ruolo incredibile per più ragioni. Il lezioso cecilianesimo, al quale certo Perosi non fu estraneo, aveva introdotto con le sue arie orecchiabili un sentimentalismo romantico nuovo, nulla a che vedere ad esempio con quella corposità eloquente e solida di Palestrina. Certe deteriori stravaganze di Solesmes avevano coltivato un gregoriano sussurrato, frutto anch’esso di quella pseudorestaurazione medievaleggiante che tanta fortuna ebbe nell’Ottocento.
Passava l’idea dell’opportunità di un recupero archeologico, tanto in musica che in liturgia, di un passato lontano dal quale ci separavano i cosiddetti “secoli bui” del Concilio di Trento…..Archeologismo insomma, che non ha nulla a che vedere, dico, che non ha nulla a che vedere con la Tradizione e che vuol restaurare ciò che non è forse mai esistito. Un po’ come certe chiese restaurate in stile “pseudoromanico” da Viollet-le-Duc.
Quindi fra un archeologismo che si vuol ricongiungere al passato apostolico, prescindendo dai secoli che da esso ci separano, e tra un romanticismo sentimentale che disprezza la teologia e la dottrina, in un’esaltazione dello “stato d’animo”, si preparò il terreno a quell’attitudine di sufficienza nei confronti di ciò che la Chiesa e i nostri Padri ci avevano trasmesso.
Cosa vuol dire Monsignore, quando in ambito musicale attacca Solesmes?
Voglio dire che il canto gregoriano è modale, non tonale, è libero, non ritmato, non è “uno, due, tre, uno, due, tre”; non si doveva disprezzare il modo di cantare delle nostre cattedrali per sostituirvi un sussurramento pseudomonastico e affettato. Non si interpreta un canto del Medioevo con teorie d’oggi, ma lo si prende come è giunto fino a noi; inoltre il gregoriano di una volta sapeva essere anche canto di popolo, cantato con forza come con forza il nostro popolo esprimeva la sua fede. Questo Solesmes non lo capì, ma tutto ciò sia detto riconoscendo il grande e sapiente lavoro filologico che fece riguardo allo studio dei manoscritti antichi.
Maestro a che punto siamo, allora nella restaurazione della musica sacra e della liturgia?
Non nego che ci siano alcuni segni di ripresa, tuttavia vedo il persistere di una cecità, quasi un compiacimento per tutto ciò che è volgare, sguaiato, di cattivo gusto e anche dottrinalmente temerario…Non mi domandate, per favore, di dare un giudizio sulle chitarrine e sulle tarantelle che ci cantano ancora durante l’offertorio….Il problema liturgico è serio, non si dia ascolto a quelle voci che non amano la Chiesa e che si scagliano contro il Papa e se si vuol guarire l’ammalato ci si ricordi che il medico pietoso fa la piaga purulenta.