31 dicembre 2022

In morte di Sua Santità Benedetto XVI


All'annunzio della morte di Sua Santità Benedetto XVI invitiamo i nostri lettori a levare ferventi preghiere per la Santa Chiesa e alla recita del De Profundis per il riposo della Sua anima.


De profùndis clamàvi ad te, Dòmine;

Dòmine, exàudi vocem meam.

Fiant àures tuae intendèntes

in vocem deprecatiònis meae.


Si iniquitàtes observàveris, Dòmine,

Dòmine, quis sustinèbit?

Quia apud te propitiàtio est

et propter legem tuam sustìnui te, Dòmine.


Sustìnuit ànima mea in verbo ejus,

speràvit ànima mea in Dòmino.


A custòdia matutìna usque ad noctem,

speret Ìsraël in Dòmino,

quia apud Dòminum misericòrdia,

et copiòsa apud eum redèmptio.

Et ipse rèdimet Ìsraël

ex òmnibus iniquitàtibus ejus.


La Redazione di Disputationes Theologicae


18 novembre 2022

Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi (Seconda Parte)

 Città e periferie pontificie: una sovranità mediata

18 novembre 2022, Dedicazione delle Basiliche di S. Pietro e S. Paolo


Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, Siena 

Parete Est (Effetti del Buon Governo in città e in campagna), le mura aperte di Siena, tra città e campagna.


Per leggere la Prima Parte cliccare qui.

Durante i secoli XI-XIII si assisté al diffuso sorgere delle autonomie comunali, i cui statuti ebbero quasi sempre il sopravvento sugli ordinamenti feudali. Giova rammentare che la tradizione urbanocentrica dell’Italia non era mai venuta meno e la densità di sedi vescovili, quindi di città, era particolarmente alta proprio nell'Italia centrale[1]. Nel periodo in questione i Papi non hanno il pieno controllo del territorio e, grazie all’esercizio di una «autorità mediata attraverso comunità e istituzioni giuridiche che insistono, a loro volta, sul territorio e che hanno col potere centrale (...) rapporti molto diversificati implicanti comunque una qualche misura di bilateralità»[2], i Comuni prosperano e si innesca «un processo di ricostruzione di una territorialità imperniata sulla città, che non ha precisi termini di paragone nelle altre aree d’Europa»[3].

 

Il consolidamento dello Stato ecclesiastico vedrà, per citare esempi significativi, l’impegno di Gregorio VII, la risolutezza di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, «ma gli Stati cittadini - si constata - sono piuttosto inglobati negli stati regionali che non sussunti e trasformati; gli ordinamenti territoriali di comunità di valle, di centri minori, di signorie territoriali sono rispettati da un potere politico centrale che ha un atteggiamento costatativo nei confronti delle istituzioni assise sul territorio, prende atto della loro esistenza, ne assume la tutela (“il sovrano tutore”)»[4]. Nel processo di rafforzamento degli Stati regionali non si sconvolge la geografia politica preesistente, ma la si rispetta e le si riconosce una funzione fondamentale, rispettando quell’idea di sovranità tipica del Medioevo, che cede ai “corpi intermedi” ampi poteri: «nello Stato Pontificio la territorialità delle città soggette (soggette ma ancora e sempre capitali provinciali, con larghe competenze in ambito giurisdizionale e fiscale) mantiene un peso molto rilevante, destinato a perdurare per molti aspetti sino alla fine dell’Ancien Régime»[5].

 

Nel 1309 ha inizio per la Chiesa il periodo della “cattività avignonese”. I Papi nella residenza coatta di Avignone devono sottostare alla pesante tutela della monarchia francese. Nelle maggiori città dell’Italia papale, sull’onda di una prassi diffusa, a profittare della situazione saranno alcune famiglie. I domini pontifici vedranno la fioritura di un numero straordinario di Signorie che a vario titolo governeranno su territori di media estensione, improvvisandosi despoti di provincia o protestandosi, in ricerca di legittimazione, feudatari della Santa Sede. L’epoca signorile vedrà l’esasperazione dell’orgoglio delle città egemoni; la fierezza dei Comuni aveva dilagato nei secoli precedenti grazie alla tolleranza dei Pontefici, ora quei capoluoghi dall’esteso contado, che avevano eretto austeri Palazzi Civici per le proprie piazze e svettanti campanili per le proprie Cattedrali, si sentivano capitali a tutti gli effetti, seconde solo all’Urbe, alla quale riconoscevano, in ambito temporale, un primato quasi più d’onore che di fatto.

 

Nel 1353 giungeva nelle terre della Chiesa il cardinale Egidio d’Albornoz come legato e vicario generale di Innocenzo IV; il compito del porporato era di ricondurre all’obbedienza città e istituzioni che avevano eccessivamente abusato della lontananza dei Papi; nell’arco di due anni il legato riuscì nella straordinaria opera di portare al riconoscimento della supremazia pontificia nel Patrimonio toscano, nel Ducato di Spoleto e nella Marca. Grande merito dell’Albomoz e causa del suo rapido successo fu «un atteggiamento privo di rigidezze dottrinali. Non esisteva un modello fisso di subordinazione comunale»[6].

 

Nella primavera 1357 il Cardinale volle la promulgazione delle Constitutiones Aegidianae, «rimaste in vigore, almeno in parte, nello Stato della Chiesa sino al 1816»[7], il cui spirito avrebbe permeato tutti i futuri rapporti tra potere centrale e istituzioni periferiche. Le Constitutiones codificarono un modello d’ordinamento amministrativo che, nel lungo termine, avrebbe dato frutti abbondanti; il Cardinale non volle interferire nelle varie forme di governo locale con le quali si imbatteva; in assenza di precisi divieti o controindicazioni le differenziazioni, specie se derivanti da tradizioni specifiche, non erano viste come elemento d’intralcio al consolidamento dello Stato.

 

Leggendo il testo, si constata che «le laudabiles et antique consuetudines»[8] vennero affiancate alla legislazione albornoziana, a patto che non fossero «a jure prohibite»[9]. Allo stesso modo gli «statuta ordinamenta, decreta aut municipales leges»[10] furono accolti di buon grado, a patto che non fossero «contra libertatem ecclesiasticam vel contra constitutiones generales nostras»[11].

Veniva sanzionato il principio del rispetto degli usi locali e delle tradizioni, alla condizione che non andassero a ledere i diritti della Chiesa.

 

29 settembre 2022

La disgregazione mondialista confrontata all’unità sociale dello Stato Cattolico

 Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi

(I)

 29 settembre 2022, San Michele Arcangelo

 

"Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo" 
Ambrogio Lorenzetti
Palazzo Pubblico di Siena

            Il mondialismo massonico d’oggi propone, o meglio “impone” un modello di gestione del mondo, in cui la nozione stessa di “stato”, di “ordinamento statale”, di “cosa pubblica” vengono sciolti, liquefatti e rifusi in un’idea informe al servizio della grossa finanza internazionale e di chi la manovra come “instrumentum regni”. Senza radici, senza identità, senza religione, senza re, senza aristocrazia, senza nemmeno più il popolo e senza nemmeno più - se mai fosse possibile - quella terra che abbiamo sotto i piedi, si costruisce un mondo fondato sulla dissoluzione d’ogni certezza naturale e soprannaturale e su un idealismo che vorrebbe abbattere tutte le frontiere e tutti i limiti dell’essere creato.

            In risposta a questa deriva riproponiamo ai nostri lettori il testo di una conferenza tenuta circa vent’anni or sono al Convegno di Controrivoluzione di Civitella del Tronto, dal titolo originale “Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi”, per cercare di leggere nella storia dello stato cattolico per eccellenza quelle indicazioni che non hanno tempo e che in parte rispondono alla crisi innescata dall’odierno “statalismo”.

            In fondo l’idea centrale, che vedremo nella sua applicazione pratica nella storia dell’amministrazione degli Stati Pontifici, è quella che già Aristotele e San Tommaso avevano illustrato: non si applica un’idea alla realtà stravolgendo quest’ultima pur di mantenere intatta l’idea preconcetta, ma si legge la realtà che a noi si presenta - e che un Altro da noi ha creato con le sue regole -  e solo poi si cerca il miglior sistema di governarla, indirizzandola verso il suo bene oggettivo. E’ così che i due grandi pensatori, pur con quella preferenza per la monarchia che San Tommaso giustifica dicendo che è quella che più assomiglia al governo divino, non assolutizzano nessun modello amministrativo, ma ci dicono che la forma monarchica, aristocratica o democratica possono essere tutte e tre buone, purché rispondano all’indole e alla tradizione dei popoli governati. Di più, quegli adattamenti amministrativi stratificatisi nel tempo, adattandosi alla diversità delle realtà, possono essere spesso una ricchezza da mantenere. In altri termini ci sono popoli e territori che vanno governati in maniera diversa perché - semplicemente - sono diversi. Non esiste un modello unico di governo da riprodurre in serie, esistono popoli, storie, territori, culture. Non si calano sistemi, si costatano realtà.

            Vi è poi nello stato anche un genere di sostegno al governante, e al contempo di limite, costituito da quelle realtà sociali che naturalmente sono parte dell’insieme e come tali sono da rispettare. Si tratta di quelle entità che sono come le membra di un corpo che il capo non può recidere senza grave danno per il benessere di tutto l’organismo, entità che non si sostituiscono al capo, ma che il capo non può sopprimere o modificare a capriccio perché non le inventa lui, le constatata o al limite ne favorisce la nascita, lasciando che le inclinazioni di natura prosperino. Sono i “corpi intermedi”.

            Come la Chiesa dispiegò la sua millenaria saggezza nell’amministrare quei territori ad essa sottomessi anche “in temporalibus” e quali furono alcune applicazioni pratiche del descritto principio è l’oggetto di questo studio. Senza la pretesa d’essere esaustivi, ma con quella di fornire alcuni spunti di riflessione ed avendo ben chiaro che quanto proposto presuppone preliminarmente la sconfitta dell’odierna apostasia.

            I frutti di buon governo, di ricchezza, di fioritura del sapere e delle arti nello Stato Pontificio non hanno bisogno di spiegazioni per chiunque non sia digiuno di storia, una delle cause di tanta prosperità è anche da individuare nell’esercizio mediato della sovranità. Un’impostazione profondamente lontana dalla divinizzazione assoluta dello Stato e della legge positiva e dall’uniformizzazione assoluta del globalismo d’oggi. Per capire nel concreto la distanza che separa questi due mondi, concentreremo lo sguardo su tre aspetti: il primo sarà il rapporto tra autorità centrale e territorio, esigenza di unità intorno al governante e rispetto delle peculiarità e delle autonomie dei governati, riuniti a loro volta in altre società non da fagocitare o dissolvere, ma da rispettare. Il secondo punto riguarda l’aspetto economico della concezione della proprietà terriera e del suo utilizzo a pro della prosperità dello Stato e tutelando i poveri al contempo. Aldilà della concezione certamente datata, che vedeva la ricchezza prevalentemente nella terra, l’occhio attento e non ideologizzato saprà scorgere quale fosse l’impostazione economica da dare ad un ordinamento che cerchi di osservare la giustizia e la carità, nella legittima ricerca del benessere anche economico, ma senza affamare i poveri. Il terzo punto si concentra sull’opera di aggregazione ed assistenza effettuata dai ceti di mestiere e dalle confraternite, che univano ed organizzavano gli strati della società intorno a compiti ben precisi e incarnati sul territorio, così da essere un vero ed efficace collante per la società, occupandosi di tutti.    

 

Le premesse storiche                                            

            Nel corso dei secoli V-VII d. C., dopo lo spostamento della sede imperiale a Costantinopoli e il progressivo trasferimento dell’aristocrazia senatoria sul Bosforo, Roma si presentava come una cadente città di provincia; salvo l’esempio di Giustiniano, il disinteresse degli imperatori era tale da allarmare i contemporanei; le uniche autorità a preoccuparsi delle sorti della città erano i Vescovi dell’Urbe, che per il loro prestigio avevano assunto un ruolo catalizzatore[1].

            L’intervento dei pontefici andava spesso a colmare le latitanze imperiali, al punto che il rifornimento di derrate della Città, l’Annona, andò a gravare sui granai della Chiesa; il tradizionale ruolo di assistenza ai poveri si confondeva così con i compiti che il potere civile non era in grado di assolvere[2].

            I Vescovi romani, nonostante svolgessero effettive funzioni di governo, costantemente ribadirono la propria fedeltà all’Imperatore, al punto di implorarlo, spesso veementemente, di occuparsi con maggiore sollecitudine dell’Occidente e Gregorio Magno, nel 593, “denunciò con angoscia il vuoto lasciato dal Senato[3].

            Nel corso della prima metà dell’VIII secolo la situazione cominciò a prospettarsi insostenibile: i Longobardi di Astolfo minacciavano Roma, nel completo disinteresse di Bisanzio, peraltro effettivamente impotente […].  Nel 756 Pipino III il Breve, Re dei Franchi, al termine della vittoriosa campagna d’Italia, donava i territori invasi dai Longobardi al Principe degli Apostoli, «a S. Pietro e per lui al Pontefice regnante e ai suoi successori in perpetuo»[4]. Presso la Confessione di San Pietro furono depositati il documento (donatio) e le “claves portarum civitatum[5]: con l’atto si provava l’avvenuta consegna. Carlo Magno, confermando la donazione paterna, menzionava il confine settentrionale dei territori donati, da Luni nella Toscana settentrionale (“Luni cum Corsica’’) a Monselice passando per Parma e Reggio, consegnava al Pontefice un vasta porzione dell’Italia che includeva, oltre il Centro-Italia e il Meridione con le tre isole maggiori del Tirreno, anche Venezia e l’Istria; ma la questione dei confini, soprattutto quelli nord-orientali, ha suscitato in passato fra i giuristi, oggi fra gli storici, polemiche non ancora sopite[6].

            L’assenso imperiale alla donazione fu ribadito da Ludovico il Pio nell’817 e dal Privilegium di Ottone I nel 962; anche l’Imperatore Enrico II nel 1020 confermò l’operato dei suoi predecessori. Se dubbi possono essere sollevati sulla facoltà di donare territori bizantini da parte dei primi re Franchi, altrettanto non può dirsi per gli ultimi esempi[7].

            Lo Stato Pontificio andava lentamente delineandosi in una situazione di grande incertezza e instabilità, i pontefici si trovavano di fronte un territorio che usciva dalle rovine delle invasioni barbariche e dal disinteresse dei Bizantini (e per il quale si prospettava una lunga latitanza degli imperatori germanici). Ad aggravare la situazione si aggiunsero nel corso dei secoli IX e X le incursioni dei Saraceni (870, 910) dalla loro base sul Garigliano e le invasioni degli Ungari dal Settentrione (927, 937, 942), avvenimenti che furono alla base del fenomeno dell’incastellamento in tutta la campagna romana. Ma laddove possibile i Papi cercarono costantemente di mantenere il tessuto cittadino romano, favorendo così quell’impulso comunale che segnerà la grande fioritura del Medioevo in Italia centrale.

 

 Continua...

Don Stefano Carusi



[1]   G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S Pietro, in Storia dItalia, diretta da G. Galasso, Torino, v. VII, t. II, pp.  15 e ss. Funzionari bizantini furono presenti a Roma fino al secolo VIII, ma la loro effettiva influenza nella politica cittadina fu marginale: cfr. O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, in Storia di Roma (ed. Istituto di Studi Romani), Bologna 1941, v. IX.

[2]   Ibidem, p. 38 e ss.; per la gestione dei patrimoni ecclesiastici cfr. V. Recchia, Gregorio Magno e la società agricola, Roma 1978.

[3]  Ibidem, p. 16. Anche in seguito i Papi, salvo '‘l’eccezione vistosa di Gregorio III, erano stati sempre attentissimi nel procurare che la difesa dell’ortodossia e la stessa esigenza del contenimento dei longobardi non pregiudicassero una linea di assoluto lealismo [verso l’Impero]”. Ibidem, p. 114.

[4]   Ibidem, pp. 119, 120.

[5]   Ibidem.

[6]  Per la complessa questione dei confini cfr. Arnaldi, op. cit., pp.127 e ss. I testi delle donazioni sono in A. Theiner, Codex diplomaticus domimi temporalis S. Sedis, recueil de documents pour servir à l’histoire du gouvemement temporei des Etats du Saint-Siège extraits des archives secrètes du Vatican, Rome 1861.

[7]  Sussistono dubbi fra gli studiosi in merito alla legittimità del gesto di Pipino; secondo alcuni egli non avrebbe avuto potestà riconosciuta sulle terre donate, formalmente ancora bizantine, come non l’aveva Carlo nel 781. Quest’ultimo, dopo l’incoronazione imperiale dell’800, vide riconosciuta la propria potestà sull’Occidente da parte del collega bizantino solo nell’812. Per comodità si è dato l’appellativo di “Re” anche a coloro che erano piuttosto delle guide di popoli.

24 giugno 2022

Quando il tradizionalismo diventa schizofrenia e opportunismo

Una tendenza da cui stare in guardia

24 giugno 2022, Sacro Cuore di Gesù



E oggi parlano di « brigantaggio »…


I lettori di questa rivista, nata sulla linea d’una critica costruttiva ad ampio raggio, ricorderanno che abbiamo dedicato articoli dettagliati al pericolo concreto per l’Istituto del Buon Pastore di perdere le specificità della sua fondazione nel 2006. Sono studi reperibili in questa rivista che è bene rileggere davanti alle recenti uscite dell’Abbé Laguérie. In un paio d’interventi infatti, egli manifesta oggi una linea opposta a quella tenuta ufficialmente fino a circa un anno fa. Anzi diametralmente opposta. Certo Traditionis Custodes è stata una doccia fredda per certo tradizionalismo che voleva nutrirsi d’illusioni, inoltre adesso l’Abbé Laguérie non è più il Superiore Generale dell’Istituto…

Giusto a titolo d’esempio circa dieci anni fa, quando era ancora in carica, scriveva nella Position commune des membres du Conseil général de l’IBP, Dans le respect du Magistère et du Droit liturgique en vigueur, redatta a Parigi il 23 giugno e consegnata ufficialmente a Mons. Pozzo il 20 luglio 2011: «Noi riceviamo il testo di tutti i Concili, e specialmente del Concilio Vaticano II secondo le norme definite dalla Chiesa […] noi ci impegniamo a promuovere “l’ermeneutica di continuità o di riforma”». In merito alla Messa di Paolo VI: «Noi attestiamo “la validità o la legittimità del Santo Sacrificio della Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria”, secondo i termini dell’Istruzione Universae Ecclesiae del Cardinal Levada (30/04/2011)», nel medesimo testo - posizione ufficiale - venivano al contempo eliminati tutti i riferimenti al diritto di celebrare esclusivamente nel rito tradizionale e si parlava ormai solo di rito proprio. Volendo prescindere da un qualsivoglia giudizio sull’oggetto, ci si chiede: ma dov’è la coerenza con quanto dichiarato su Présent nell’intervista ad Anne Le Pape del 19 gennaio 2022 e che è riportato in calce a questo articolo?

Abbiamo analizzato ampiamente la questione in numerosi articoli passati, tra essi citiamo a titolo d’esempio: Il “rito proprio” e l’ “ermeneutica di continuità” sono sufficienti?

E poi era davvero necessario elogiare servilmente Mons. Pozzo quando aveva appena minacciato la possibile abolizione della Messa tradizionale nella sua conferenza proprio nel Seminario dell’IBP? Cfr. Mons. Pozzo: La messa “straordinaria” può essere abolita dall’autorità.

Il lettore troverà più sotto i recenti testi di segno diametralmente opposto. Certo non sarebbe giusto attribuire soltanto all’Abbé Laguérie il fenomeno che descriviamo nel titolo, ma questo insieme di dati, insieme ai nostri articoli passati, ha un chiaro valore esemplificativo. La domanda è: anche nel mondo cattolico-tradizionale quanto le scelte sono dettate dalla coscienza e quanto sono dettate solo dall’utile? O dal “presunto” utile?


La Redazione di Disputationes Theologicae



Seguono gli estratti pubblicati su internet dell’intervista di Anne Le Pape all’Abbé Philippe Laguérie, Présent, 19 gennaio 2022:

Reverendo, avrebbe mai pensato un giorno di rivivere un periodo di caccia alle streghe (oso servirmi di questa espressione) contro il rito tradizionale?

Sì e no! Se consideriamo le cause profonde della rivoluzione liturgica degli anni Sessanta, l’infestazione modernista del brigantaggio del Vaticano II (ben più sinistra di quella di Efeso!) le stesse cause producono gli stessi effetti: sì! Malgrado il tentativo, che oggi si può definire fallito, sotto Benedetto XVI, di restituire alla liturgia bimillenaria della Chiesa i suoi diritti, il personale ecclesiastico è rimasto e rimane fondamentalmente rivoluzionario. «Un albero cattivo non può portare buoni frutti…». Ma considerando la violenza degli ultimi due documenti (Traditionis Custodes e i responsa ad dubia), il loro disprezzo della tradizione liturgica, il cinismo delle misure adottate, la stessa rabbia di distruzione sistematica che trasuda odio, allora diremmo che il papa non lavora più «alle periferie», piuttosto su un’altra galassia. Del resto, i suoi viaggi ci mostrano che la sua ortodossia è inversamente proporzionale all’altitudine! Sì: costernazione. Eccoci tornati agli anni Settanta, alle sospensioni a divinis, al «seminario selvaggio», alle «scomuniche». C’è odore di polvere.

Come comprendere l’atteggiamento di papa Francesco: puramente nocivo o semplicemente coerente con il Vaticano II?

Innanzitutto non bisogna perdere di vista che il papa attuale è un gesuita! È la prima volta e spero l’ultima. Un gesuita preferirà sempre l’efficacia alla coerenza. Sant’Ignazio lo sapeva bene, e aveva assoggettato i suoi religiosi a un quarto voto: quello di obbedienza al papa, per limitare il numero di geni (infatti la Compagnia ne ha in abbondanza). L’efficacia lasciata a se stessa non diviene altro che stravaganza, presunzione, megalomania, autoreferenzialità. I cardinali lo avevano compreso, non eleggendo mai un gesuita. Un gesuita papa, dunque privo di superiore, è un genio impazzito al comando di un Mirage o di un Rafale (aerei da caccia, ndt): fermateli. Senza che ci sia bisogno di supporre in foro interno la minima cattiveria. Andiamo, chi ve lo permette? Un gesuita può far fuori qualcuno ad majorem Dei gloriam; è facile, se il suo superiore non ha nulla da ridire e  se dirige la sua intenzione in modo appropriato (cfr. Les Provinciales). Nel XVII secolo avevano inventato tante eresie (probabilismo, molinismo, casuistica, eccetera), che il papa dovette imporre loro il silenzio. Ed essi tacquero! Ma oggi, non lo si vede forse, salvo Gesù Cristo chi altri potrebbe mettere a tacere un gesuita senza superiore… Che almeno non prenda più l’aereo.

Che ne pensa dell’obiezione per cui «non voler celebrare altro che il rito antico significa contestare il valore del nuovo»?

Devo esprimermi chiaramente, dopo un periodo di silenzio diplomatico. Sono tra coloro che pensano che il nostro rifiuto assoluto della Messa di Paolo VI non è affettivo, né disciplinare, né carismatico, eccetera. È teologale, teologico, dogmatico e morale. Assoluto! Il peccato originale di questa deplorevole disputa liturgica all’interno della Chiesa è l’inenarrabile e folle audacia di papa Paolo VI nel promulgare un nuovo ordo Missae basato sulla ricerca degli esperti, di F… M… e dei protestanti, gettando alle ortiche (con la voce tremolante) la Messa dei pontefici Leone e Gregorio, entrambi grandi. La liturgia cattolica non può e non deve essere che una trasmissione dell’eredità degli Apostoli. Una Messa inventata 19 secoli dopo non può che essere un’ambizione prometeica, una chimera romantico-libertaria, un populismo di pessimo gusto, indegno della Chiesa di Gesù Cristo. La promulgazione del nuovo ordo Missae di Paolo VI è senza dubbio legale e valida, ma sicuramente non legittima. In questa crisi è molto istruttivo il posizionarsi di ciascuno: quelli che tirano avanti per diplomazia ecclesiastica e per i circoli ecclesiastici finiranno per annegare. Sopravviveranno solo gli appassionati della verità. Avendo trascorso la mia vita a combattere, sono felice di constatare che mi preparo a morire non come un disertore ma come un soldato.

Come vede la questione delle ordinazioni?

Lascio la questione al Superiore Generale del nostro istituto, l’Abbé Gabriel Barrero, che l’ha presa in mano con buone prospettive ma reclama giustamente il silenzio…

Crede che ci sia un rischio reale di rottura della ritrasmissione del rito tradizionale? Se sì, quali saranno le conseguenze?

Nessuna, nessuna! La «battaglia» per la Messa cattolica è stata vinta definitivamente e irreversibilmente da Mons. Lefebvre negli anni Ottanta. Ciò che è fatto è fatto! Ci sono decine di migliaia di preti nel mondo che celebrano la Messa gregoriana, e non basterà un cenno di qualche segretario romano o di qualche vescovo residenziale che fa gli «straordinari» a far cambiare le cose. È troppo tardi: abbiamo vinto la battaglia. Non sono tra quelli che speculano su un infarto o una sincope del papa: lo troverei miserabile, e lo scommettitore rischia di pagare il prezzo della sua scommessa. Al contrario, so che TUTTI i preti che conosco (a cominciare da me) non passeranno mai a questa Messa che ha rovinato la Chiesa d’Occidente, d’America e d’Africa. Sarà più facile per Macron vaccinare i feti, che per Francesco imporci la sinassi di Paolo VI. Con 43 anni di sacerdozio, credete che andrei a chiedere il permesso a chicchessia per celebrare la Messa della mia ordinazione? 


10 aprile 2022

I tribunali vaticani e l’ingiusto processo

Sulla decadenza della Chiesa come “societas

2 aprile 2022, Domenica di Passione


Cattura di Gesù | Cristo davanti a Caifa
(Altobello Melone - 1518), Cattedrale di Cremona

Ci voleva un “liberale” del calibro di Ernesto Galli della Loggia, su un giornale alfiere solitamente del politicamente corretto, come Il Corriere della Sera, per sollevare una verità nota a tutti i sacerdoti, ancor più se d’Oltretevere! Ma verità inconfessabile : la giustizia in Vaticano, intendendo con ciò l’atto di rendere giustizia a chi la chiede o a chi è stato ingiustamente accusato - se necessario ricorrendo ad un dibattimento davanti ai giudici - procede in maniera profondamente iniqua. Nei nuovi, attuali, radiosi “tempi bergogliani”, che si vogliono dipingere come l’atteso avvento “dell’equità sociale”, “dell’apertura”, “della misericordia” in una Chiesa uscita dall’oscurantismo, la situazione - già non rosea da qualche decennio - è solo scivolata verso modelli, anche a ciò allude il giornalista, più…“sudamericani”. Ovvero vi si è aggiunta una buona dose di demagogia.

L’evocato articolista, dalla cui impostazione generale “laicheggiante” prendiamo ovviamente le distanze, menziona il caso del processo a un noto Cardinale (la cui colpevolezza o meno non è oggetto di questo scritto) scrivendo sul metodo accusatorio e sul procedimento utilizzati :

« Il processo al cardinale Becciu getta luce sul punto che è all’origine, perlomeno all’origine immediata, della crisi che sembra ormai dilagare nella Chiusa cattolica

Il processo che ha come più noto imputato il cardinale Becciu un effetto sicuro lo sta avendo. Che nessuno, se fosse chiamato a rispondere di una qualsiasi imputazione - dall’omicidio volontario all’eccesso di velocità - accetterebbe mai, potendo scegliere, di essere processato da un tribunale vaticano.

Si può discutere a lungo, infatti, se sia meglio affrontare la giustizia in una corte americana o in un tribunale italiano, ma dopo quello che stiamo vedendo da un paio d’anni è sicuro che a nessuna persona sana di mente verrebbe in testa di affrontare la dea bendata in un’aula all’ombra di San Pietro. »1

6 marzo 2022

Lettera aperta al Cardinale Maradiaga

Riceviamo e pubblichiamo

Quaresima 2022


Dopo oltre otto anni, la seguente lettera - i cui contenuti non hanno perso d’attualità - non ha avuto risposta. Per le voci critiche di un certo tipo - invece della sbandierata “apertura” - si sono piuttosto visti provvedimenti (da rimozioni cardinalizie al regime restrittivo di “concessioni” del rito tradizionale) volti a ridurre al silenzio, favorendo così l’opportunismo, lo scoraggiamento e l’esasperazione. N.d.R.


Lettera aperta al Card. Maradiaga    

Febbraio 2014 

A S.E.R. il Sig. Card. Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga

Coordinatore della “Commissione dei Cardinali


E, p.c.,

Ad alcuni altri Porporati

 

«Io prometto: di non diminuire o cambiare niente di quanto trovai conservato dai miei probatissimi antecessori, e di non ammettere qualsiasi novità, ma di conservare e di venerare con fervore, come vero loro discepolo e successore, con tutte le mie forze e con ogni impegno, ciò che fu tramandato […] Se pretendessi di agire al di fuori di queste cose, o di permettere che altri lo faccia, Tu non mi sarai propizio in quel giorno tremendo del divino giudizio» (dal Giuramento dei Papi il giorno della loro Incoronazione, ovvero il lato umile degli “orpelli”: sulla grandezza e il limite del potere pontificio).

 

Eminenza Reverendissima,

nell’intervista rilasciata da Vostra Eminenza a la Repubblica, organo della sinistra massonica in Italia, il 22 novembre u.s., Ella, in risposta alla domanda del giornalista “Perché in conclave avete scelto Bergoglio?”, ha affermato: "È stato lo Spirito Santo. Quel giorno non era in vacanza né stava facendo una siesta. Bergoglio aveva già dato le dimissioni da arcivescovo di Buenos Aires, aspettava il successore per andare in pensione. Non pensava all'elezione e aveva in mano il biglietto di ritorno. Invece lo Spirito ha suggerito un nome diverso dalla curia e dall'Italia". Seguendo l’umorismo della Sua risposta, e fiduciosi nello spirito salesiano di V. E., ci permettiamo di presentare con franchezza alla Sua attenzione alcune perplessità che abbiamo a riguardo, aprendoLe liberamente il cuore.

Per la verità - stando alla logica della risposta, che peraltro sembra andare oltre la domanda - «lo Spirito» sembrerebbe aver illuminato ancor di più proprio la Repubblica di Eugenio Scalfari (e ambienti retrostanti): giacché sta di fatto che questi aveva indovinato il nome del nuovo Papa già alcuni giorni prima, mentre il diretto interessato ha detto di averlo pensato soltanto mentre veniva eletto, e già dopo il settantasettesimo voto (cfr. il favorevolissimo A. Tornielli Francesco Insieme, pp.68-69).

E non dubitiamo che il card. Bergoglio avesse in mano il biglietto di ritorno per Buenos Aires, ma dobbiamo registrare anche qualche elemento contrastante: tralasciando la sua indicazione del povero don Giacomo Tantardini come proprio segretario se fosse stato eletto (e don Giacomo Tantardini è morto un anno prima dell’elezione); tralasciando la campagna elettorale che già nel 2005 sembra avergli fatto il diplomatico mons. Pietro Parolin, ora Cardinale Segretario di Stato; tralasciando le visite in incognito, ancora non chiarite, del card. Bergoglio a quel tempio clerico-mondanocurial-mondano che risulta essere l’Accademia Ecclesiastica, proprio le settimane precedenti l’ultimo Conclave; tralasciando che il «nome» dell’eletto è stato sì «diverso dalla curia» quanto occorreva, ma non tale da impedire a influenti curiali di consentirne l’elezione, né tale da far sì che l’area diplomatica curiale “uscisse male” dal Concistoro – che invece ha vistosamente penalizzato altre aree ecclesiastiche; tralasciando parecchie cose, resta in ogni caso che agli amici, che nei giorni del «biglietto» si applicavano a fargli campagna elettorale, «pensa[ndo]» e lavorando con molta discrezione «all’elezione», aveva detto che se lo avessero eletto avrebbe accettato, avrebbe vigorosamente fatto pulizia in Vaticano e si sarebbe guardato dal prendere un caffè nel Palazzo papale (già preconizzando di risiedere altrove).

In realtà, la domanda posta faceva chiaramente riferimento alle dichiarazioni rilasciate a L’Espresso – rivista collegata a la Repubblica e appartenente al medesimo gruppo editoriale – da un Suo Confratello del Sacro Collegio, il card. Barbarin (29 ottobre 2013). Secondo il Porporato francese, il card. Bergoglio sarebbe stato eletto sulla base di un intervento nel quale egli avrebbe «detto testualmente»: «ho l’impressione che Gesù è stato rinchiuso all’interno della Chiesa e che bussa perché vuole uscire, vuole andare via». Queste affermazioni di un Cardinale elettore, peraltro attribuite a colui che siede sul Soglio di Pietro ed espressamente presentate alla rivista come testuali – quantunque in diretto contrasto con qualche sua omelia da Papa –, di non facilissima interpretazione e comunque mal corrispondenti al concetto di una espansione missionaria della Chiesa di Cristo con il darle nuovi figli, sono comparse sotto il titolo Papa Bergoglio: Cristo vuole uscire dalla Chiesa. E sono state comprese dalla redazione, da molti lettori, come una legittimazione della vecchia pretesa, ereticale e massonica, di separare Cristo dalla Sua Chiesa; così pensando tranquillamente di poter stare con Cristo pur ostinandosi a rifiutare, per dirla con Sant’Ambrogio, «ciò che è proprio di Cristo».