Qualche consiglio di San Tommaso d’Aquino
La
domenica di Laetare, in mezzo alla
Quaresima tutta in viola, vede il sacerdote eccezionalmente con gli ornamenti
rosa, l’organo risuona e i fiori, banditi nei quaranta giorni di penitenza,
tornano solo in questo giorno sull’altare, proprio a rallegrare - a metà
percorso - il fedele che ha preso sul serio la Quaresima e che il digiuno
prolungato può aver intristito. Bisogna riprendere forza prima della Passione e
del Venerdì Santo ed avere un assaggio della Pasqua. La liturgia coi suoi segni
è pedagogica di verità più profonde e in questo caso ci conduce a fare
un’analisi della gioia e quindi anche di ciò che vi si oppone, la tristezza,
ovvero ciò che in termini più moderni e talvolta equivoci viene definito “depressione”.
E’
un peccato la “depressione”? Me ne
devo confessare come una colpa? Forse e il discorso va certamente approfondito.
Tuttavia al termine vago “depressione”
è preferibile utilizzare quello classico di tristezza/tristitia, perché meno si presta a confusioni, oppure quello di accidia nel caso più specifico[1].
Come
fa la tristezza ad essere un peccato? San Tommaso ci dice che la tristezza può
essere qualcosa di cattivo a più titoli, ma lo è particolarmente secondo
l’effetto che procura, ovvero quando ci prostra e ci fa ritirare dal bene. Quando
ha per effetto di “buttarci giù” al punto di impedirci di fare il bene a noi
possibile, quasi paralizzandoci, diventa infatti estremamente nociva[2].
E quando diventa volontaria o peggio, per quanto paradossale sembri, quando è
volontariamente intrattenuta, ovvero quando con un intervento della mia volontà
trascino quello stato o non lo combatto, come la ragione mi indicherebbe di
fare, può essere un vero e proprio peccato da confessare[3].
Esso è più o meno grave a seconda della consapevolezza e della volontarietà che
sempre si lega ad un atto umano. A meno di eventi eccezionali e rari infatti,
la volontà interagisce in ogni nostra azione. Va quindi distinta la tristezza in
quanto passione, dall’atto volontario
o addirittura dal vizio intrattenuto.
Se
ad esempio ho appreso della morte di una persona cara o se un grave male
sopraggiunge è naturale essere tristi, in questo caso siamo di fronte a ciò che
in teologia tomista si dice una passione,
ovvero qualcosa che l’anima in certo modo “subisce” e che la influenza in un
senso o nell’altro senza che vi sia colpa o merito. Le passioni infatti, in sé,
non sono peccato finché non interviene la volontà[4].
Anzi la moderata tristezza come passione può avere le sue ragioni e,
contrariamente a quel che il mondo edonista di oggi propala, può addirittura
essere cosa buona e giusta esser tristi se un male interviene, ma ad alcune
condizioni. Anche la Madonna Santissima sotto la Croce provò tristezza. Come si
può non essere tristi se il proprio Figlio viene crocifisso tra malfattori, in
più così ingiustamente? Ma la tristezza di Maria non fu mai immoderata, restò
sempre nella misura e nell’ordine della ragione senza “prostrare l’anima”, la
quale al contrario, pur fra le lacrime, rimaneva sempre piena di speranza nella
Resurrezione. In un caso proporzionato quindi la tristezza deve anche avere il
suo legittimo spazio[5].
Ma
ci sono vari modi e vari motivi per rattristarsi e non tutti sono buoni. Ad
esempio, dice San Tommaso, rattristarsi del bene perché non è un bene proprio,
ma di un'altra persona, è un male, perché non so gioire del bene oggettivo solo
perché quel bene non è mio. Mentre il bene vero, in quanto tale, dovrebbe
rallegrarmi ovunque esso si trovi. Oppure ci si può attristare perché qualcosa
diminuisce la mia gloria o la mia eccellenza, specie se la mia immagine ne
rimane offuscata. Ed è qui particolarmente che la tristezza si apparenta
all’invidia, dice sempre l’Aquinate[6].
Oppure quando sono incapace di vedere che quella cosa o situazione difficile è,
ad uno sguardo più profondo, un vero bene per me ed invece di rallegrarmene
affrontandola, mi attristo[7].
Ma
la pericolosità della tristezza, che assume una particolare gravità quando
diventa accidia spirituale, risiede nel
suo appesantire e prostrare l’animo dell’uomo. Dice San Tommaso: “deprimit
animum hominis”. Deprimit da cui,
alle dovute condizioni, viene la giustezza della parola “depressione”, ovvero
una certa “decompressione” - con termine meno violento e forse preferibile in
certi casi[8]
- del vigore dell’animo. Quindi essa deprime e toglie la voglia e il piacere di
fare qualsiasi cosa (“ut nihil ei agere
libeat”), e dà una noia del fare (“taedium
operandi”), per cui tutto diventa pesante e appare inutile. Il Salmista
dice (106, 18), per quanti sono nella tristezza, che la loro anima ha in
abominio qualsiasi cibo, nulla l’attrae, con un torpore della mente che non
riesce a iniziare nessuna buona opera (“torpor
mentis”)[9]. Una tristezza quindi che,
impedendo di fare il bene è sempre cattiva, ed è da scacciare per quanto
possibile con la volontà o quantomeno mai da coltivare, sia che si tratti di “semplice”
tristezza, sia che si tratti più specificamente di accidia spirituale.
Ma
se ci si attrista di qualche vero male la tristezza non è forse buona? E’
chiaro che non ci si può rallegrare del male costituito, ad esempio, dall’ingiustizia
politica (nel senso più ampio ed aristotelico del termine) dei giorni nostri,
ma tale tristezza deve essere moderata,
non deve mai - per esser buona - “prostrare” o “deprimere”. E qui bisogna stare
attenti, specie oggi, al “flagello ansiogeno” che può costituire internet, per cui ne va sempre
raccomandato un uso moderato. Esso infatti può costituire un amplificatore di
tristezza. Come? La tristezza si sviluppa o cresce in connessione all’ansia e
alle paure, che ne possono essere in certo modo la causa e - in un circolo
vizioso - un amplificatore, perché la tristezza talvolta accresce il timore e
il timore accresce la tristezza[10].
I continui sensazionalismi di internet -
senza i quali esso non prospererebbe - tendenti sempre alla tragedia e ai toni
apocalittici, in più propinati in una misura globalizzata e continua nell’arco
della giornata, diventano sollecitazioni costanti alla tristezza, con
l’aggravante di essere spesso poco fondati. Quindi lasciarsene influenzare è
maggiormente colpevole. Non è infrequente oggi incontrare chi non è più capace
di godere di una giornata di sole perché il meteo
ha previsto nei giorni successivi una perturbazione di venti freddi, che magari
nemmeno si realizzerà per l’incertezza di tale scienza, ma che avrà prostrato
l’anima anche quando doveva gioire del bel tempo.
Dell’insieme
di queste riflessioni tiene conto la liturgia della Chiesa quando, in mezzo
alla Quaresima, con la domenica di Laetare
ci trasporta in una prospettiva piena di realismo. E in più vuole che
riflettiamo sul fatto che, come dice San Tommaso, quando qualcosa non va a
livello corporale, questa situazione “difettosa” dispone alla tristezza
dell’anima[11]. E così ci fa riflettere
all’aspetto legato al corpo, che è una chiave di soluzione del problema su cui
bisogna insistere, ovvero siamo anima e corpo e se è vero che quando una sta
male, sta male anche l’altro, è anche vero che se interveniamo bene sull’uno
l’effetto ridonderà sull’altra. Sull’anima e corpo insieme.
Chi
digiuna per esempio, come dicono i Padri del deserto, verso mezzogiorno sente
il peso dell’assenza del cibo ed è preso dall’accidia che lo intristisce[12].
Ebbene, per chi ha preso sul serio la Quaresima, a metà del cammino potrebbe
esser preso da un po’ di “depressione” (o “decompressione” se si preferisce) avendo
davanti a sé altrettanti giorni di digiuno. La Chiesa dice, con la domenica di Laetare, che è bene a metà dello sforzo
concedere un giorno di suono dell’organo, di fiori ed anche di moderato
allentamento del digiuno, perché il corpo deve essere aiutato per poi aiutare
l’anima ad andare fino in fondo.
Proprio
perché la tristezza non aumenti e non conduca alla disperazione di raggiungere
il bene, bisogna aiutarsi a raggiungere il fine, che è la cosa più importante,
anche accettando umilmente che, come i cavalli sono animali da domare con qualche “zuccherino”, anche noi animali razionali potremmo averne
bisogno. La qual cosa, ispirandosi alla realtà quindi a vera umiltà, condurrà a
grandi cose senza la tentazione orgogliosa e idealista della “perfezione
assoluta”. Uscire un po’ dalla tristezza aiuterà anche a tenere lontano il
pericolo della pusillanimità (ovvero quella paura dell’animo “piccolo”, che paventa
ogni sforzo) ed eviterà di cadere nel torpore nell’applicare i precetti e nel fare
il nostro dovere, dandoci invece un nuovo slancio[13].
Quindi
contro la tristezza che fa male al corpo e impedisce all’anima di operare il
bene, San Tommaso propone dei rimedi che tengono conto di anima e corpo uniti insieme
e ci dice che anche la contemplazione delle verità o l’azione virtuosa mitigano
la tristezza e il dolore, aprendo infatti l’animo a ciò per cui è stato creato,
ovvero quelle grandi cose che dopo la morte vedrà nel gaudio eterno, e facendo
il bene nella giusta misura, si gioverà indirettamente anche al corpo che risente dei moti dell’anima[14].
Si aggiunga poi che portare l’azione su
cose buone ha inoltre un effetto “sbloccante” rispetto a quel “torpore apatico”
già descritto.
E
poi consiglia la frequentazione dei buoni amici che consolano, ha un effetto
risollevante che alleggerisce il peso perché ci si sente amati. Né si
trascurino gli aspetti ancor più corporali come il sonno, che fa bene al corpo
rinforzandolo e quel rimedio che fa sorridere la stoltezza dei moderni - che
non vedono il legame fra anima e corpo - il balneum
ovvero i bagni caldi, che hanno una funzione distensiva “per i nervi”. Ed anche
lo sfogo esterno delle lacrime che “portando fuori” corporalmente il dolore lo
leniscono. O anche la semplicità (connessa all’umiltà) di concedersi nel
bisogno qualcosa che allieti lecitamente. Colui che è in una situazione di
tristezza che lo preoccupa lecitamente e doverosamente dovrebbe sapersi
concedere uno svago o una pietanza gradita, come medicina per risollevarsi.
Ancora una volta l’invito è a risollevare il corpo in cose lecite e così
portare l’anima verso la gioia, evitando che ci si butti in piaceri illeciti
per disperazione[15].
Il Vangelo della domenica di Laetare, quasi a riassumere, aggiunge una ricetta primaverile, come si addice alla “mezza Quaresima”. Il Signore moltiplica i pani e i pesci. Davanti alla preoccupazione di sfamare una moltitudine immensa con solo pochi pani, vuole che contempliamo la Provvidenza, ed i pani avanzeranno addirittura. Come si deve avere la semplicità di contemplare senza timore i fiori che per un giorno sono tornati sull’altare a dare gioia, così si deve contemplare il ritorno dei fiori in primavera e conservarne il ricordo. I narcisi, i giacinti, gli alberi da frutto, le foglie diverse che cominciano a spuntare, le piogge primaverili che accendono i campi di un verde più intenso, sono lì per far contemplare le meraviglie della Provvidenza e dare una gioia di cui saper approfittare, perché a ogni giorno basta la sua pena. Quei fiori che sono tornati sui campi per allietarci, tornano sull’altare, anche se per un giorno, quasi a dirci di non disprezzare tutti i piccoli rimedi utili a ridare slancio nel cammino terrestre dell’anima e del corpo.
Don Stefano Carusi
[1] Sulle specie di tristitia, S. Th., Ia IIae, q. 35, a 8.
[2] S. Th.,
IIa IIae, q. 35, a.1, c.
[3] S. Th., Ia
IIae, q. 39, a. 2, c., ob. 1 e ad 1.
[4] S. Th., Ia
IIae, q. 24, a. 1, c.
[5] Cfr. anche S. Th., III, q. 46, a
6, c. e ad 2.
[6] S. Th.,
IIa IIae, q. 36, a. 1, c., a. 2 c.
[7] Cfr. S. Th., IIa IIae, q. 35, a. 1, c.
[8] La distinzione è dell’abbé Guillame de Tanoüarn, che invitava nei suoi
interventi a preferire la parola “decompressione” sia per ragioni pastorali,
sia perché essa - nella moderna evoluzione del linguaggio - meglio si adatta al
pensiero di S. Tommaso.
[9] S. Th.,
IIa IIae, q. 35., a 1, c.
[10] S. Th., IIa IIae, q. 30, a. 1, ad 3. Sulle distinzioni di S. Tommaso tra tristezza e timore cfr. S. Th., Ia IIae, q. 42, a. 3, ad 2 .
[11] S. Th.,
IIa IIae, q. 35, a. 1, ad 2.
[12] Ibidem.
[13] S. Th.,
IIa IIae, q. 35, a. 4, ad 2.
[14] S. Th., Ia IIae, q. 38, a. 4, c. Su
quanto la tristezza sia nociva al corpo, S. Th., Ia IIae, q. 37, a. 4.
[15]S. Th. Ia
IIae, q. 38, a. 1-5.