Camerino, Corpus Domini 2021
Sul
sagrato della chiesa di San Jean de la Chaine mentre usciva il feretro dell’abbé
Paul Aulagnier un giovane sacerdote ci ha chiesto come mai fossimo presenti a
quel funerale, alludendo ad un dissapore che fece sì che le nostre strade si
separassero. Per rendere omaggio a un grande combattente, gli abbiamo risposto,
perché davanti alla morte bisogna saper abbassare le spade, specie se per tanto
tempo si è combattuto insieme contro il progressismo dilagante nella Chiesa. E,
sapendo che era morente, siamo contenti d’aver potuto mandargli un confratello
per dirgli che volevamo che la morte ci vedesse riconciliati. Tutte le morti
fanno riflettere alla brevità della vita, ma questa ci ha confermato
specialmente la necessità di non abbassare la guardia in questa guerra senza
quartiere per la fede e, propter fidem,
per la Santa Messa nel rito della Tradizione. Quel Giudice che, osiamo sperare,
ci perdona se nell’ardore della battaglia non tutti i colpi furono calibrati a
perfezione - e chi può dire d’esserne stato capace, “pecore senza Pastore”
quali in parte siamo - è più severo se, pur avendone evidenza, non abbiamo
difeso la Sua regalità davanti agli uomini. L’ora viene in fretta, almeno poter
dire che quel “bonum certamen”,
seppur coi tanti nostri limiti, abbiamo cercato di combatterlo. Questa l’aria
che si respirava, queste le riflessioni, non solo nostre, nel giorno del suo
funerale.
Alla
notizia della sua morte già ci parve che l’abbé Aulagnier, che ora vede tutto sub specie aeternitatis, ci fosse ancor
più vicino, come lo fu in tante battaglie, alcune delle quali per lungo tratto
combattemmo insieme contro chi voleva agissimo contro la nostra coscienza
cattolica. Apprezzava molto Disputationes
l’abbé Aulagnier e conserviamo gelosamente le sue lettere d’elogio ai resistenti
del Buon Pastore della prima ora. “Foncez”
[andare avanti, non indietreggiare] diceva, anche perché non è mai stato uno
che si tirasse indietro, benché fine politico. Un po’ troppo talvolta, forse
per compensare qualche sua focosità dannosa: massimamente quella della famosa
riunione del 31 maggio del 1988 in cui egli fu determinante nel far fallire
l’accordo Roma-Ecône.
Un giorno ci disse che mons. Lefebvre parlava della necessità di un genere di
rivista come la nostra, che alternasse attualità ecclesiale a disamine
approfondite e talvolta anche impegnative. Addirittura pensò che quella famosa
lettera dei seminaristi dell’IBP fosse stata opera della nostra Redazione,
tanto l’aveva apprezzata, riletta, diffusa in quel momento tragico, mentre noi
ne fummo al massimo ispiratori di fatto, ma in nessun modo autori. Non ci
credette mai e continuava a complimentarsi con noi, ma sbagliava, l’autore fu
un allievo suo e nostro, ma non il Direttore. Val la pena rileggerla comunque
perché rispondeva alla lotta che infuriava all’epoca e che lui sposò
convintamente (Lettera
dei seminaristi dell’IBP), anche se poi fece una scelta di
tranquillità, che in lui almeno aveva la scusante dell’età e della stanchezza
accumulata.
Non
ci stancammo mai di ripetere - e qualcuno lo ha anche ripreso ultimamente - che
il gesto in cui riluce l’aspetto a noi più caro dell’abbé Aulagnier e
rivelatore del suo animus fu durante
gli anni Duemila, quando, dopo l’accordo canonico prodottosi nel caso
dell’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney di Campos (un buon
accordo in sé, disgraziatamente rovinato dal notorio carrierismo di qualcuno),
ebbe il coraggio di gridare forte in seno alla FSSPX che era giunto il momento
d’un accordo canonico. Da realizzarsi in una duplice prospettiva: servire la
Chiesa, il cui rapporto col mondo tradizionale ha ricadute a livello generale e
preservare il mondo tradizionale dal pericolo di radicamento d’una mentalità
tendente allo scisma. Per quei seminaristi di spirito romano di Flavigny ed Ecône significò molto: era l’amico
di Mons. Lefebvre che parlava, e la sua voce era più difficile da liquidare. Subì
condizionamenti con i soliti metodi - ciò che gli valse un significativo
aggravamento di salute - gli fu ingiunto il silenzio, fu minacciato delle più
severe sanzioni, ma scelse di non tacere (il che sarebbe stato schizofrenico
stante l’importanza della “denuncia dell’errore” propugnata dalla FSSPX nei
confronti perfino del Vicario di Cristo). Avrebbe potuto essere in favore dell’accordo
canonico purché non dichiarasse nulla pubblicamente. Scelse, con grande
coerenza, che rimanere in silenzio sarebbe stato iniquo. Il dovere di parlare,
e talvolta pubblicamente, per il bene della Chiesa non può essere limitato a
taluni pericoli, ma se gli errori gravi talvolta sono anche in casa
“tradizionalista” e se la verità vale più del tornaconto, bisogna accettare
questo ruolo ingrato. E l’abbé Aulagnier lo fece, denunciando quella che stava
diventando una deriva scismaticheggiante. Fu deposto da Assistente Generale
della FSSPX, in pratica “accompagnato alla porta”. E non “se ne allontanò con nostro grande dispiacere”, come recita il Comunicato ufficiale della FSSPX del 6
maggio 2021 (Fraternità in cui, a causa dell’ostinata ambiguità di Mons.
Fellay, si è ingenerata una reazione di rigetto all’accordo e che ora è guidata
da un Capo che preferì andare a Singapore per non sottostare a un Superiore
“accordista”. L’abbé Aulagnier non doveva avere tutti i torti…). Davvero non si
teme la menzogna più spudorata pronunciata contro chi non c’è più. No, fu
cacciato - e in malo modo - si riconosca il torto, o almeno si taccia, ma si
evitino contraffazioni della realtà ad
usum delfini. Qui habet aures
audiendi audiat. Se queste poche righe potranno contribuire a ristabilire
la giustizia su chi non può più difendersi sulla terra, non saranno state
scritte in vano.
Certo
tutti sanno che nel 1988, come accennavamo sopra, fu “l’uomo delle
Consacrazioni”, la cui assoluta necessità affermò sempre perentoriamente e
senza voler sentire ragioni ponderate quantomeno di riflessione aperta; su
questo punto era sempre passionale. Ma era anche l’uomo che, quando in
coscienza riconobbe l’accordo possibile e doveroso, ebbe il coraggio di dirlo,
pagando con la solitudine, l’oblio e la calunnia una posizione che non era
stata di comodo. Onore al merito, “cher
Abbé”, per riprendere quella sua usitata espressione. Ce ne siamo dette di
tutti i colori, in certi frangenti, ma pur sempre con un reciproco
riconoscimento da soldati di uno stesso esercito.
E
coraggioso lo fu anche quando - e la Fraternità San Pietro gli dovrebbe eterna
gratitudine - rivelò molto di quel piano assai poco onorevole per cui dei
firmatari chiedevano alla Curia Romana di poter celebrare anche secondo il rito
riformato, con ciò gettando lo scompiglio nella FSSP. Senza l’abbé Aulagnier,
che contribuì a rendere pubblici quei documenti, forse oggi la FSSP non si
sarebbe ripresa sotto nessun profilo (evidentemente non parliamo dell’aspetto relativo
alla battaglia dottrinale che ancore langue, pur essendo questo l’aspetto più
importante, ma dell’attuale condotta liturgica). Se non ci fosse stato quel
coraggioso sacerdote che sapendo di esporsi a denunce e risarcimenti con la
diffusione di quei documenti, la verità non sarebbe emersa con la necessaria chiarezza.
Ci pensino, anche coloro che…con una condotta più servile che non genuinamente
filiale verso l’Autorità, gli inviarono quei documenti…perché circolassero. E
quando gli chiedevamo, sapendo che era dell’Alvernia, quindi notoriamente non
certo uno spendaccione, se quelle multe per diffusione di documenti interni non
gli fossero costate troppo care, intuendo la nostra provocazione ci rispondeva
“mai soldi furono meglio spesi!”. E
aveva ragione da vendere perché quella corrispondenza non era cosa privata, ma
riguardava il bene pubblico della Chiesa e bene fece a pubblicarli.
E
poi un’ultima parola sul suo amore alla Messa, la sua lotta di una vita in
difesa della “Santa Messa di sempre”
come la chiamava lui, difesa senza quartiere che talvolta gli lasciava sfuggire
anche qualche frase inappropriata e una foga che ci permettemmo di
rimproverargli, ma l’abbé Aulagnier su alcuni punti era un po’ rimasto al clima
immediatamente successivo al 1988 (se non immediatamente successivo al 1976).
Noi lo ricordiamo così ed era giusto che la nostra Rivista gli rendesse omaggio, e non con quell’asettica impersonalità dei ricordini funebri. Siamo fiduciosi che dall’eternità, da dove vede tutto con maggior chiarezza, l’abbé Aulagnier ci sta già aiutando, l’abbiamo anche sperimentato.
Don Stefano Carusi - Abbé Louis-Numa Julien